Gli elicotteri degli afghani? Gli asini

Il ritiro degli alleati da Kabul sembra riportare indietro le lancette del tempo trasformando il conflitto afghano da guerra hi-tech combattuta con droni, missili e sistemi satellitari in qualcosa di simile al Primo conflitto mondiale. Forse in Afghanistan non ci saranno gli assalti frontali alle trincee che caratterizzarono le battaglie della Grande Guerra, improbabili in un conflitto insurrezionale, ma almeno un protagonista sembra riesumato dalle battaglie combattute sulle Alpi nel 1915-18: gli asini. La notizia, raccontata da un reportage del Washington Post, potrebbe sembrare di carattere folkloristico ma nasconde in realtà il disastro logistico al quale andrà incontro l’esercito afghano dopo il ritiro della Nato.  Con il progressivo ritiro delle forze statunitensi e alleate infatti, gli asini stanno prendendo il posto degli elicotteri e vengono utilizzati dalle forze afghane per il rifornimento degli avamposti ceduti al loro controllo dagli alleati in ritirata. ”Gli asini sono gli elicotteri afghani” ha affermato il colonnello Abdul Nasseri, comandante di un kandak (battaglione) afghano nella provincia di Kunar. Centinaia di asini sono già “operativi” nelle basi che i soldati americani hanno costruito, difeso e poi in parte consegnato alle forze locali (molte altre sono state demolite perché non gestibili dai militari afghani). Il giornale sottolinea come il fenomeno dimostri, nonostante gli sforzi e gli investimenti per dotare di mezzi le forze di Kabul, l’ampio gap che separa le forze statunitensi da quelle afghane e l’inevitabile regresso tecnologico che si verificherà nel conflitto afghano quando i soldati alleati si saranno definitivamente ritirati, entro la fine del 2014. Negli ultimi dieci anni gli Stati Uniti hanno investito oltre 50 miliardi di dollari (pari a tre volte il budget delle forze armate italiane di quest’anno) nell’ammodernamento delle forze afghane, fornendo loro addestramento, armi, equipaggiamenti e veicoli di vario genere inclusi una ventina di velivoli da trasporto G-222 (ex Aeronautica militare italiana) e un’ottantina di elicotteri MI-17 acquistati da Washington in Russia che si affiancano a una ventina di elicotteri dello stesso tipo e Mi-24 da combattimento già in servizio al tempo dei talebani. Finora solo pochi dei nuovi elicotteri ordinati a Mosca sono entrati in servizio e le forze afghane dispongono oggi di  appena 31 velivoli di questo tipo. Pochissimi per un Paese così vasto. Basti pensare che nella regione Occidentale a guida italiana sono presenti solo 5 Mi-17 per coprire un territorio vasto come il Nord Italia. Gli Stati Uniti hanno limitato a 4,1 miliardi di dollari annui gli aiuti per le forze militari di Kabul, sufficienti a pagare gli stipendi e poco altro e il presidente afghano Hamid Karzai sta già rivolgendosi a Paesi extra-NATO (Russia, India e Cina) per equipaggiare il suo esercito che dovrà però essere anche addestrato all’impiego di mezzi moderni e velivoli. La diatriba in atto tra Kabul e Washington non riguarda solo gli elicotteri ma anche artiglieria, mezzi blindati antimina, visori notturni e sistemi di sminamento per contrastare gli ordigni improvvisati utilizzati dai talebani. Mezzi e apparecchiature moderne che Washington non sembra disposta a fornire, se non in piccoli quantitativi, per ragioni di costo ma forse anche perché non si fida troppo degli alleati afghani che da gennaio hanno già ucciso una sessantina di militari alleati nei cosiddetti “insider attacks”.  In attesa di nuove forniture che richiederanno anni battaglioni dell’Afghan National Army dislocati nelle zone montuose e impervie fuori dalle poche strade asfaltate del Paese devono contare su carovane di asini per ricevere munizioni, acqua, viveri, medicinali, in pratica tutto il necessario per sopravvivere e combattere. Una soluzione non certo priva di limitazioni e problematiche. Le carovane di asini sono lente e vulnerabili agli attacchi talebani ed è improbabile che compagnie di sicurezza accettino di scortarle attraverso passi montani e vallate. I consiglieri militari statunitensi che visitano regolarmente le postazioni delle truppe afghane hanno rilevato che un Combat Outpost (avamposto) di grande valore tattico nella provincia del Kunar era vulnerabile sul piano logistico poiché il rifornimento della guarnigione è affidato a due ragazzini conduttori di quattro asini ognuno con 40 chili di carico sulla groppa. Inoltre l’esercito afghano non possiede asini e deve quindi affittare le bestie da soma o commissionare ai proprietari il trasporto dei generi necessari ai militari. Una situazione che vede gli “armatori” delle mandrie di somari facilmente ricattabili dagli insorti le cui minacce in alcune regioni hanno addirittura indotto le compagnie telefoniche a rinunciare che installare le antenne per la rete mobile. C’è poi il problema dei pagamenti ai “contractors” degli asini, che l’esercito afghano (afflitto da corruzione e inefficienze croniche come tutti gli apparati pubblici afghani) effettua con gravi ritardi o addirittura non effettua. Alcuni proprietari di somari, stanchi di attendere il saldo delle prestazioni degli instancabili quadrupedi, hanno cominciato a scioperare sospendendo i rifornimenti agli avamposti. “Abbiamo bisogno di acqua” protesta il colonnello Ashraf in servizio in una base avanzata nella remota valle di Pech. “E noi abbiamo bisogno di un contratto pagato” ha risposto uno dei proprietari evidenziando i sospetti che il denaro per pagare i trasporti sia stato “trattenuto” da qualche ufficiale. Le truppe statunitensi cercano di aiutare i colleghi afghani in diversi modi. Alcuni consiglieri militari sottolineano con ironia di essere stati dispiegati in zone ad alto rischio dell’Afghanistan solo per contrattare con i contadini locali i costi delle prestazioni degli asini. Alcuni comandanti di reparti americani hanno donato “razioni K”  http://digilander.libero.it/lacorsainfinita/guerra2/schede/razionek.htm  agli afghani perché potessero venderle e con il ricavato pagare il trasporto dei rifornimenti. La soluzione più efficace sarebbe dotare l’esercito afghano di somari di sua proprietà il cui impiego esporrebbe al fuoco nemico i militari assegnati a queste unità. Impossibile anche ipotizzare la donazione di somari da parte degli eserciti alleati poiché gli americani hanno chiuso il loro ultimo reparto dotato di bestie da soma nel 1956 e anche gli alpini italiani hanno rinunciato ormai da anni agli asini. I palliativi adottati dagli americani per aiutare gli afghani sembrano del tutto inadeguati a risolvere i problemi logistici che hanno messo in crisi i più importanti eserciti del mondo e che ben difficilmente l’esercito di Kabul riuscirà a superare. La questione non riguarda solo gli asini e i rifornimenti minuti per i plotoni schierati nelle “fortezze Bastiani” sulle montagne afghane ma l’intera catena logistica di supporto all’Afghan National Army. Un rapporto statunitense ha recentemente valutato che “ il governo afghano non sarà in grado di rifornire in modo completo le basi delle forze di sicurezza dopo il 2014 e con il decrescere del supporto degli Stati Uniti e della coalizione a causa di carenze finanziarie e nella catena degli acquisti e dei rifornimenti”.

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Foto: Asini trasportano acqua a un avamposto dell’esercito afghano (Washington Post)

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane" e “Immigrazione, la grande farsa umanitaria”. Dall’agosto 2018 al settembre 2019 ha ricoperto l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza del ministro dell’Interno.

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