La Tv del Califfo

Lo Stato islamico (IS) ha annunciato il lancio di una sua tv, “il Canale del Califfato”, che inizialmente trasmetterà i suoi programmi via Internet. Lo riferisce l’emittente satellitare panaraba ‘al Jazeera’ secondo la quale i jihadisti hanno diffuso sui social media il promo del lancio del canale televisivo annunciando che trasmetterà programmi in tutti i giorni 24 ore su 24.

Nel “palinsesto” è previsto un programma intitolato ‘L’ora del reclutamento’, oltre ai notiziari e nuovi ‘reportage’ realizzati dal giornalista britannico ostaggio dell’Is, John Cantlie, rapito in Siria nel novembre del 2012 insieme a James Foley. L’autoproclamato Califfato ha già una sua radio ufficiale, ‘al-Bayan’, che diffonde  tutti i giorni un notiziario via Internet dalla città Mosul, la roccaforte del Califfato in territorio iracheno.

Del resto il cortocircuito tra comunicazione e terrorismo è’ stato sintetizzato da un esponente delle Brigate rosse che spiegò come, senza i mass media, le loro azioni non avrebbero avuto gli stessi effetti nella storia dell’Italia. A livello internazionale, i gruppi terroristici hanno dimostrato di sapere comunicare in modo efficace affinche’ la propria azione avesse il massimo risalto.

Dai dirottamenti aerei degli anni ’70 agli attacchi dell’11 settembre, dalle bombe di Madrid nel 2004 alla strage di Parigi: parafrasando McLuhan, la scelta degli obiettivi è il messaggio, e quindi ogni azione terroristica è indubbiamente un atto di comunicazione.

Negli ultimi 60 anni, con il terrorismo in costante crescita, si sono affermati diversi modelli di comunicazione. I gruppi internazionali hanno mirato ad azioni eclatanti per un triplice scopo: pubblicizzarsi; raccogliere fondi e (da Al Qaeda in poi) attirare nuove reclute; influenzare (e spaventare) l’opinione pubblica attraverso lo strumento del terrore.

E’ evidente il rapporto osmotico che lega questi tre obiettivi, così come il fatto che siano i media il collante fondamentale. Quindi, a dispetto di ciò che comunemente si pensa, le organizzazioni del terrore sono state sempre particolarmente attente al rapporto con l’informazione.

Ciò vale in particolare per quelle più gerarchizzate e che perseguono obiettivi politici. La rivendicazione di un attentato, non a caso, è fatta a beneficio dei media, è parte del processo comunicativo. Negli anni ’90, Al Qaeda ha saputo sfruttare bene i media per propagare la sua immagine e creare un potente effetto di pubblicizzazione. La televisione, specie i grandi network americani (in un primo momento) e quelli arabi (successivamente) hanno fatto da potente cassa di risonanza. Ogni attentato prima dell’11 settembre sembrerebbe essere stato ponderato a misura dei media, per un effetto di promozione e di ricerca del consenso.

il gruppo, a raccogliere adepti e a spaventare l’opinione pubblica. Il messaggio più subdolo: “la mia vita è un’arma”

Il duplice e simultaneo attentato alle ambasciate in Africa nell’estate del 1998 ha avuto l’effetto di mostrare la potenza americana piegata davanti alla volontà dei kamikaze. L’11 settembre è stato l’apice, a livello comunicativo, con gli aerei ripresi in diretta mentre si schiantavano contro le Torri gemelle. C’è però da annotare che, successivamente, gli attacchi di Al Qaeda non sono riusciti ad avere lo stesso impatto mediatico.

La commozione e il dolore non sono mancati nelle scene degli attentati successivi, basti pensare a quelli di Madrid nel 2004 (che fecero perdere le elezioni a Jose’ Maria Aznar). Ma era una scena già “passata sugli schermi”, cioè una ripetizione, un processo già codificato dai telespettatori.

Negli attentati a Londra nell’estate del 2005, i britannici non sono caduti nella trappola mediatica di Al Qaeda. Impedendo la ripresa e la divulgazione delle scene più cruente degli attentati, hanno “spuntato” l’arma del terrore.

Non hanno offerto i propri palinsesti per una operazione di comunicazione terroristica. Mettendo così ben a frutto la regola secondo cui un’immagine può dire più di mille parole. Proprio il potere dell’immagine è l’elemento su cui si concentra maggiormente l’attenzione comunicativa dei gruppi terroristici.

E’ stata Hamas negli anni ’90 a inaugurare la pratica del video-testamento del kamikaze, affinché in televisione potesse passare in modo integrale il messaggio politico dell’organizzazione.

Un modello di comunicazione che ha fatto scuola (ma non e’ l’unico dei palestinesi).

Nell’Iraq post Saddam fu raffinato il modello: vennero diffusi i video degli ostaggi che parlavano direttamente rivolgendosi al proprio governo e chiedendo di adempiere alle richieste del gruppo dei rapitori (per dovere di cronaca, va ricordato che anche Saddam Hussein utilizzò lo stesso sistema con i prigionieri durante la prima guerra del Golfo). Negli ultimi anni, l’utilizzo dei video-messaggi è stato esponenziale.

Grazie ai social network e a internet, è venuto meno anche il filtro dei massmedia tradizionali. Di conseguenza – oltre al proliferare di siti jihadisti -, i gruppi hanno sempre piu’ spesso postato video che hanno fatto il giro del mondo via web, anche senza necessariamente essere trasmessi integralmente in televisione (in particolare le efferate esecuzioni di ostaggi o di prigionieri).

Un’escalation di brutalità che ha conosciuto alti e bassi, fino ad arrivare ai raffinati – dal punto di vista tecnico – servizi del giornalista britannico John Cantlie, ostaggio dell’Isis in Iraq, dove il reporter ha descritto una situazione idilliaca a Mosul. Ma, come tutti i processi comunicativi, anche quello del terrore cerca di rinnovarsi continuamente. L’opinione pubblica occidentale si è “assuefatta” a scene di esecuzioni? Allora si fa un passo avanti: nel Califfato si manda un bambino di dieci anni a giustiziare due presunte spie russe davanti alle telecamere.

Il messaggio, in questo caso, ha sempre una duplice valenza: verso l’Occidente, per dimostrare che anche i bambini sono pronti a combattere; verso la propria popolazione, per autopromuoversi e per dare un’idea di compattezza.

Senza dimenticare l’effetto emulazione, che pare essere sempre più importante. Centinaia di “foreign fighter”, combattenti nati in Occidente, si sono uniti all’Isis in Iraq e in Siria, e anche in Afghanistan (dove fu catturato nel 2002 l’americano convertito all’Islam John Lindt, che combatteva dalla parte dei talebani).

Un meccanismo non proprio nuovo, va detto: negli anni ’80 dai paesi arabi partirono miglia di volontari per andare a combattere i russi in Afghanistan dopo una fatwa di un imam egiziano (a fine guerra, ritornarono nei loro paesi addestrati e indottrinati e crearono nuove organizzazioni terroristiche).

Ora l’attenzione delle forze di sicurezza occidentali è puntata su insospettabili “cani sciolti” o “lupi solitari” che cercano il proprio “quarto d’ora di celebrità” con un atto di terrore, provando così a riscattare fallimenti personali e frustrazioni o esternando personali follie. L’asserzione “la mia vita à un’arma”, in definitiva, è il messaggio più inquietante e più destabilizzante fatto è passare dalle organizzazioni terroristiche. (mlm)
(Fonti: Adnkronos e Il Velino)

Foto: Stato Islamico

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