Bosnia e Macedonia nel mirino di jihadisti e UCK
Nelle ultime settimane i Balcani occidentali sono stati sconvolti da una serie di attacchi armati che hanno minato la stabilità, peraltro già precaria, dell’area, contribuendo a gettare dei dubbi sulla possibilità che gli stati centro-meridionali dell’ex-Jugoslavia riescano a gestire da soli la situazione.
Il tutto era cominciato il 21 aprile scorso, quando un commando armato di circa quaranta persone appartenenti al “nuovo” UCK aveva preso possesso per un paio d’ore della sede della polizia di Gošince, nel nord della Macedonia, salvo poi abbandonarla e dileguarsi. Skopje, nonostante la gravità dell’accaduto, non aveva inviato rinforzi significativi nella zona attaccata fino al termine dell’azione e, soprattutto, aveva atteso alcuni giorni prima di fornire una versione dettagliata e credibile su quanto accaduto.
L’inspiegabile silenzio è stata parzialmente mitigato dall’intervento “a gamba tesa” della Russia (che ha incolpato i sostenitori della Grande Albania), ma ha comunque permesso che in ambienti vicini al nazionalismo albanese più militante si speculasse sulla presunta paternità governativa del gesto. Soprattutto nelle prime fasi successive all’occupazione della caserma, erano emersi alcuni dubbi circa le modalità con cui un gruppo terroristico considerato, almeno ufficialmente, pressoché debellato, fosse riuscito a portare a compimento un’impresa del genere.
Neanche una settimana dopo, la tensione si è spostata a Zvornik, in Republika Srprska, dove Nerdin Erić, 24enne wahabita, ha attaccato il locale ufficio di polizia, uccidendo un agente e ferendone due prima di venire a sua volta freddato nello scontro a fuoco. Sebbene il bilancio sia stato relativamente lieve, l’azione ha avuto forte impatto emotivo e politico non solo sulla Bosnia ed Erzegovina (BiH), ma anche sulla vicina Serbia, soprattutto perché ha screditato ulteriormente la politica anti-estremismo condotta da Sarajevo. Interessante a tal proposito è l’opinione Dževad Galijašević, conosciuto analista bosniaco, che, intervistato da Politika, ha affermato che si è creato uno stretto legame fra le strutture dell’integralismo islamico bosniaco e quelle nate in Sangiaccato, Kosovo e Macedonia, tanto che ora l’UCK può beneficiare del know-how acquisito sul campo dai mujaheddin bosniaci.
Oltre a ciò, l’esperto si è scagliato contro le autorità della Bosnia ed Erzegovina che si occupano di lotta al terrorismo, accusandole di essere più interessate alla politica che a difendere il paese dalla minaccia dell’integralismo.
Una posizione che, per quanto forte, è analoga a quella espressa da David Robinson, vice dell’Alto Rappresentante per la BiH, al giornale Dnevni Avaz. Egli, interrogato sull’efficacia della lotta al terrorismo, ha lanciato un monito al paese, accusandolo di non aver scelto da che parte stare, aggiungendo anche che qualcuno (a livello ufficiale) ha optato per il “lato sbagliato”.Quanto accaduto sabato 9 maggio a Kumanovo, dove un commando di 40-50 membri dell’UCK ha letteralmente assaltato la cittadina uccidendo 8 agenti, ferendone 37, oltre ad un numero imprecisato di civili, sembra quindi essere la conferma che i timori di Galijašević e di altri analisti ex-jugoslavi sono fondati.
Per la prima volta dal 2001, infatti, l’Esercito di Liberazione del Kosovo (o quantomeno il gruppo pan-albanese che ne porta il nome) ha organizzato e portato a termine un attacco in nome della Grande Albania, riuscendo a cogliere impreparate le forze presenti sul territorio.
Sebbene l’azione si sia conclusa con la resa di una trentina degli assalitori e la morte di 14, si può dire che essa abbia comunque avuto successo, in quanto ha terrorizzato la popolazione civile e dimostrato la forza, la notevole organizzazione e soprattutto la conoscenza delle tattiche di guerriglia degli appartenenti al movimento armato. Come ha dichiarato
Il Primo Ministro macedone Nikola Gruevski, tale “salto in avanti” pare essere stato possibile, al di là del contributo degli estremisti bosniaci, grazie all’esperienza sul campo che alcuni degli arrestati hanno acquisito sia nei conflitti balcanici che in quelli attualmente in atto in Siria ed Iraq. Al di là di queste rituali dichiarazioni ex-post, che tendono spesso a giustificare la mancata prevenzione del problema, vi sono, però, almeno due domande che al momento non sono state sollevate.
La prima riguarda la facilità con cui i terroristi, nonostante il loro curriculum fosse già noto alle autorità, hanno potuto prepararsi e attraversare il confine fra Kosovo e Macedonia senza che né Prishtina né Skopje facessero nulla. Il secondo e più importante quesito, invece, riguarda l’aspetto economico: se è vero, infatti, che nessuna attività terroristica può essere sviluppata e portata a compimento senza adeguati fondi, viene da chiedersi chi sia lo sponsor che, con la scusa di creare l’Albania etnica, sta perseguendo con crescente decisione la destabilizzazione della Macedonia (la repubblica ex-jugoslava probabilmente più fragile a livello etnico) e, di conseguenza, degli stati con questa confinanti.
Ciò che è chiaro, comunque, è che quanto accaduto a Kumanovo può avere degli effetti devastanti sulla FYROM, già attanagliata da forti contrasti interni, fra i quali spiccano quello fra la componente macedone e albanese della popolazione e quello che vede contrapposto il governo di Gruevski alle migliaia di manifestanti, spesso giovani, che chiedono le sue dimissioni, accusandolo di malgoverno e autoritarismo. In questo contesto, fanno particolarmente rumore le parole del Presidente Ivanov, che dopo aver puntato il dito contro coloro i quali cercano di destabilizzare il Paese, ha chiamato in causa 17 stati membri della UE e della NATO che, nonostante fossero stati da lui informati sul pericolo rappresentato da queste attività terroristiche, non hanno dato alcun contributo, né si sono spesi per far ripartire i processi di adesione all’Europa e all’Alleanza Atlantica. Senza entrare nel merito delle dichiarazioni del Capo di Stato, va constatato che, al di là delle tradizionali prese di posizione di circostanza, dall’Occidente non è arrivato aiuto materiale a Skopje e la stessa notizia dell’attacco armato ha avuto pochissima eco sui media nostrani.
Tra i paesi limitrofi, quello più allarmato sembra essere la Serbia che, forse memore di quanto avvenuto nel ’99 in Kosovo, ha immediatamente provveduto a rafforzare la propria presenza sul confine con la Macedonia e, per bocca del suo Ministro della Difesa, ha ribadito di essere pronta ad affrontare “tutte le sfide che possano minacciare la sovranità e l’integrità del Paese e dei suoi cittadini”.
La tensione che si respira a Belgrado è particolarmente evidente nelle parole di Petar Cvetković, direttore dei Servizi Militari, che, come riporta B92, non solo ha rimarcato il fatto che i “terroristi albanesi” già da tempo operavano nell’area di Kumanovo, ma anche che i suoi colleghi macedoni non avevano creduto agli avvertimenti lanciati da Belgrado. Egli, abbandonando la recente tradizione serba di non polemizzare con le nazioni euro-atlantiche, ha anche criticato fortemente l’Occidente reo, a suo dire, di non aver mai censurato le dichiarazioni a favore della creazione della Grande Albania (che talvolta erano rilasciate direttamente dai Premier di Albania e Kosovo).
Tornado all’attacco a Zvornik, passato in secondo piano dopo i fatti macedoni, è interessante notare che la reazione più energica non è arrivata da Sarajevo o Banja Luka, bensì da Belgrado.
Il presidente Nikolić, infatti, durante la conferenza stampa organizzata al termine del vertice con il suo omologo della Repubblica Serba, ha ribadito che il terrorismo può essere sconfitto solo grazie alla collaborazione effettiva fra Republika Sprska (RS), Federazione di Bosnia ed Erzegovina, Serbia e Croazia, ed ha aggiunto che il suo paese, pur nel rispetto dell’integrità della Bosnia, aiuterà la RS a difendersi dall’integralismo.
Milorad Dodik, prendendo la parola dopo il Capo di Stato serbo, ha invitato tutte le nazionalità presenti in BiH a collaborare per garantire la pace e per sconfiggere l’estremismo religioso, ma ha anche puntato il dito, senza troppi giri di parole, contro l’élite politica Bosgnacca colpevole, a suo dire, di non opporsi all’ideologia che conduce al terrorismo.
Tali parole, comunque, nascondono, neanche troppo velatamente, il desiderio di dotarsi di tutti quegli strumenti di sicurezza e controllo del territorio previsti, in alcuni casi, dagli Accordi di Dayton e in altri dalla Costituzione della BiH che, a suo dire, gli permetterebbe di dotarsi di Servizi Segreti.
Questo specifico desiderio, al di là dei chiari motivi politici, deriva dalla constatazione proveniente da più parti che vi sono insufficienti rapporti fra strutture centrali di informazione (con sede a Sarajevo) e Forze dell’ordine della Repubblica Srpska, ma anche degli stati limitrofi.
Una chiara conferma di ciò arriva direttamente dalle parole di Miroslav Lazanski (tra gli esperti politico-militari più famosi dell’ex-Jugoslavia) che, in una recente intervista, ha affermato che Banja Luka non può avere piena fiducia nello spionaggio e controspionaggio bosniaci poiché questi, pur avendo le migliori informazioni in regione sul tema degli integralisti presenti in BiH, non le hanno condivise, neanche con i propri connazionali.
E’ chiaro, comunque, che davanti ad una potenziale minaccia di tale portata (3000-5000 integralisti addestrati presenti sul territorio Bosniaco e un numero di Wahabiti che arriva, secondo certe stime, al 5% della popolazione di fede Islamica), il Paese avrebbe bisogno di unità e non di uno scontro fra “fazioni” interessate solamente al proprio “giardino di casa” o che, addirittura, guardano con malcelata compiacenza all’ISIS. A tal proposito, particolarmente dura è stata la posizione di alcuni gruppi islamisti che, nonostante la proclamazione da parte di Sarajevo del lutto nazionale nella giornata del 29 aprile, si sono dissociati dall’iniziativa governativa.
Fra questi, ad esempio, uno dei più famosi siti di informazione ha pubblicato un articolo in cui si può leggere che “nessuno sarà dispiaciuto [per quanto accaduto] nelle entità della Bosnia ed Erzegovina”, poiché, secondo l’autore, gli agenti attaccati sono colpevoli per la strage di Srebrenica. Un altro sito di news e commenti, invece, non solo ha accusato di vertici della Rep. Srpska e della Serbia di aver mascherato con il termine “lotta al terrorismo” una vera e propria guerra contro i musulmani da condurre dentro i confini della Bosnia, ma anche ha anche giustificato il gesto di Erić, descrivendolo semplicemente come una vendetta per il padre morto durante la guerra civile. I seguaci della pagina Facebook di tale portale, però, sono andati oltre, elogiando il gesto del giovane Wahabita, pregando per lui e auspicandosi che qualcun altro segua presto le sue orme.
Foto truppe macedoni a Kumanovo (AFP)
Luca SusicVedi tutti gli articoli
Triestino, analista indipendente e opinionista per diverse testate giornalistiche sulle tematiche balcaniche e dell'Europa Orientale, si è laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche all'Università di Trieste - Polo di Gorizia. Ha recentemente pubblicato per Aracne il volume “Aleksandar Rankovic e la Jugoslavia socialista”.