National Military Strategy: gli USA tornano al passato
Lo scorso 1 luglio il Segretario alla Difesa Ashton Carter ed il Capo di Stato Maggiore della Difesa generale Martin Dempsey hanno presentato alla stampa il documento “The National Military Strategy” (NMS) che, in sostanza, come stabiliscono le procedure del Pentagono, è la quadriennale revisione del precedente documento edito nel 2011.
Si tratta di un semplice aggiornamento dottrinario o ci sono invece sostanziali novità? Sì, ci sono delle novità, e non di poco conto. Nonostante i pochi anni trascorsi, la precedente versione aveva un approccio e dei contenuti decisamente diversi dato che ancora non esisteva una “aggressione russa” né era ancora esplosa la virulenza del Califfato Islamico. A quell’epoca, secondo le parole dell’allora Capo di SM ammiraglio Mullen, le finalità strategiche erano: sostenere gli sforzi della nazione riguardo le complesse sfide alla sicurezza – avvalersi a questo scopo dei rapporti con gli alleati, favorendo nuove partnership – essere preparati per gli incerti e dinamici scenari del futuro, per prevenire e vincere le guerre della nazione.
Per il Pentagono, in questi ultimi quattro anni, le cose sono decisamente cambiate: -“Il disordine nel mondo è considerevolmente accresciuto”- scrive oggi il Gen. Dempsey nell’introduzione del nuovo documento -“e al contempo abbiamo cominciato a perdere alcuni dei nostri vantaggi in campo militare. L’America mantiene ancora la supremazia nel mondo, ma altri paesi stanno investendo moltissimo nelle loro capacità militari”-
Date queste premesse, serviva evidentemente una nuova linea strategica per contrastare il “disordine” e mantenere la superiorità militare, ed infatti sono questi i contenuti del nuovo documento 2015 cui va riconosciuto, com’è del resto consuetudine nel pragmatismo americano (il documento è di 17 pagine in tutto), il pregio di un’estrema chiarezza e l’assenza di concetti involuti o che lasciano spazio a varie possibili interpretazioni, come purtroppo avviene abbastanza comunemente nella nostra mentalità.
Ma veniamo ai contenuti del documento, che inizia illustrando “il quadro strategico” mondiale in cui intervengono tre fondamentali fattori di cambiamento: la globalizzazione (informazioni una volta nell’esclusiva disponibilità dei governi oggi sono alla portata di tutti) – l’estrema diffusione della tecnologia (molti Stati possono oggi sviluppare in proprio dei sistemi militari avanzati, prima di esclusivo appannaggio degli Stati Uniti) – le variazioni demografiche (decremento nei paesi europei, incremento in Africa e Medio Oriente) e le ondate migratorie.
Nonostante l’incidenza e la velocità di questi fattori, le nazioni rimangono comunque gli attori primari dello scenario internazionale anche se, come distingue il documento in modo un po’ troppo moralistico, da una parte vi sono degli Stati – gli USA e gli Stati guidati dagli USA – che sostengono le Istituzioni internazionali, la prevenzione dei conflitti, il rispetto della sovranità altrui e la promozione dei diritti umani, e dall’altra vi sono invece degli altri Stati “destabilizzatori” che vogliono ridisegnare “gli aspetti fondamentali dell’ordine internazionale, e che stanno agendo in misura di minacciare i nostri interessi di sicurezza nazionale”.
Chi sono questi altri Stati? Il documento non ha alcuna remora ad elencarli e qui fa da subito capolino la Russia, definita tout court come un paese “che ha ripetutamente dimostrato di non rispettare la sovranità dei propri vicini nonché la volontà di usare la forza per raggiungere i suoi scopi. Le azioni militari della Russia, direttamente o tramite forze contigue (i separatisti della Crimea e del Donbass, ndr) stanno minando la sicurezza regionale”.
In seconda pozione viene citato l’Iran, “che altrettanto pone delle sfide alla comunità internazionale” e che, senza tanti giri di parole, viene definito “Stato sponsor del terrorismo”.
Come terzo paese è citata la Corea del Nord, ritenuta in grado di rappresentare una minaccia per i suoi vicini, specialmente la Corea del Sud ed il Giappone, ed in prospettiva per lo stesso territorio americano.
Compare quindi, in una posizione leggermente più sfumata la Cina, le cui azioni stanno creando tensioni nell’ambito strategico Asia-Pacifico.
In ogni caso, afferma il documento, “non si ritiene che nessuno di questi paesi voglia scatenare un conflitto diretto contro gli Stati Uniti o i suoi alleati. Nondimeno, ciascuno di essi pone delle serie minacce alla sicurezza”, motivo per cui la comunità internazionale deve coordinarsi e adottare politiche comuni (le sanzioni? ndr)
Dopo questa carrellata (notare che l’ordine in cui sono rispettivamente elencati Russia, Iran, Corea e Cina non è casuale ma rispecchia il grado della loro “minaccia” o pericolosità), viene infine il turno di Al-Qaida e dell’ISIL (o ISIS, IS, Daesh), ed in genere di tutti quei movimenti apparentati o ad essi similari genericamente definiti come VEO (Violent Extremist Organizations), e su cui non vengono comunque spesi troppi commenti.
Questo il quadro strategico, che non permette agli Stati Uniti “di prendersi il lusso di occuparsi di una particolare sfida a discapito delle altre” ma che impone di contenere in egual modo e allo stesso tempo una minaccia che si presenta su due distinti livelli: quella degli Stati “destabilizzatori” e quella delle organizzazioni VEO, obbligando a considerare una gamma completa di opzioni militari.
Il documento passa quindi all’esame della situazione squisitamente militare. Senza perdersi in chiacchiere o giri di parole ma usando una schiettezza per certi versi anche ammirevole, gli Stati Uniti si autodefiniscono “la nazione più potente del mondo” (“The United States is the world’s strongest nation”) e devono cercare di restarlo dato che i tempi, com’è fissato nei postulati della “visione strategica”, stanno velocemente cambiando, e ormai non si tratta più di misurarsi con organizzazioni estremistiche ma con degli Stati (concetto che rappresenta un vero “cambio di passo” rispetto alla visione strategica del 2011).
Ma un conflitto con gli Stati “destabilizzatori” è un’ipotesi remota oppure concreta? Ecco un altro passaggio degno di nota, netto, esplicito, e per nulla accomodante: “La probabilità del coinvolgimento degli USA in una guerra contro un’altra potenza è oggi considerata bassa, ma in crescita”, afferma il documento.
Di conseguenza, il quadro militare e tutto ciò che esso determina (dal genere di armamenti da approvvigionare fino ai livelli di reclutamento) deve orientarsi sul possibile confronto con altre forze militari, numerose e modernamente armate se non addirittura dotate di strumenti tecnologicamente più avanzati, studiati appositamente per vanificare la superiorità americana (missili balistici, armi di distruzione di massa, attacchi mirati e di precisione, uso di mezzi senza equipaggio).
Oltre a queste due scenari (i conflitti con le organizzazioni estremistiche o con gli Stati “destabilizzatori”) il documento ne considera anche un terzo, quello dei cosiddetti “conflitti ibridi”, situazioni cioè in cui uno Stato agisce sotto mentite spoglie com’è ovviamente, secondo il documento, l’azione della Russia in Ucraina, oppure dell’ISIL, quando si combinano forze regolari con miliziani, rendendo difficoltoso il processo decisionale e l’adozione di misure di contrasto.
Definiti questi presupposti politici e militari, si giunge quindi all’elaborazione della “risposta” rappresentata da una “Strategia Militare Integrata”, dal carattere preminentemente dottrinario, con fissazione di principi che, molto linearmente, prendono il via dall’individuazione degli “interessi” nazionali”.
Attraverso tre passaggi consequenziali, vengono così delineati gli “Interessi Permanenti degli USA” (“Enduring National Interests”, sostanzialmente la sicurezza nazionale ed il sistema economico, ma anche la difesa dei diritti umani e dell’ordine internazionale sotto egida USA).
Da questi derivano gli “Interessi della Sicurezza Nazionale” (“National Security Interests”, tutto ciò che concerne la sicurezza in senso stretto ma anche la “sicurezza del sistema economico globale” nonché “il mantenimento e l’estensione dei valori universali”) per giungere infine a quelli che vengono definiti gli “Obiettivi Militari Nazionali” (“National Military Objectives”) e che, schematicamente, sono così indicati:
– a) “scoraggiare, contrastare e sconfiggere gli Stati avversari”
– b) “disgregare, far retrocedere e sconfiggere le organizzazioni VEO
– c) “rafforzare la nostra rete globale di alleati e partner
Riguardo quest’ultimo punto, è degno di nota lo specifico riferimento al quadro strategico Asia-Pacifico (citato per primo) in cui, afferma il documento, è necessario “conseguire con forza un ri-bilanciamento schierando i nostri mezzi più avanzati e la nostre maggiori capacità in quel teatro fondamentale”.
Per il Teatro Europeo è naturalmente confermato il pieno sostegno alla NATO e alla sicurezza degli alleati attraverso la prosecuzione dell’Operazione “Atlantic Resolve” per contrastare “la recente aggressione russa”. Per Il Medio Oriente, l’impegno principale riguarda invece la sicurezza di Israele ed il suo livello qualitativo militare.
Il documento prosegue e conclude fornendo numerose altre indicazioni dottrinarie, tra cui la fissazione delle priorità e dei criteri da seguire nelle operazioni integrate a livello globale fino ai traguardi da perseguire nel reclutamento e nel livello di addestramento del personale o, secondo le parole del Gen. Dempsey, focalizzarsi nell’obiettivo che i giovani americani siano “la forza meglio guidata ed equipaggiata al mondo”
Non è però certamente l’unico a porsi quest’obiettivo. Anche in Russia, il paese che il NMS cita con maggior frequenza e sempre con la connotazione di “aggressore” o di “Stato destabilizzatore”, si stanno velocemente creando le condizioni perché i giovani in età militare siano altrettanto ben guidati e ben equipaggiati. E molto probabilmente anche i comandanti russi, esattamente come quelli americani, se dovessero rispondere al quesito fondamentale del NMS se esiste la possibilità di un conflitto con “un’altra potenza”, risponderebbero che si tratta di un’ipotesi “oggi considerata bassa, ma in crescita”.
Foto: US DoD
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Fabio RagnoVedi tutti gli articoli
Padovano, classe 1954, è Colonnello dell'Esercito in Ausiliaria. Ha iniziato la carriera come sottufficiale paracadutista. Congedatosi, ha conseguito la laurea in Giurisprudenza ed è rientrato in servizio come Ufficiale del corpo di Commissariato svolgendo incarichi funzionali in varie sedi. Ha frequentato il corso di Logistic Officer presso l'US Army ed in ambito Nato ha partecipato nei Balcani alle missioni Joint Guarantor, Joint Forge e Joint Guardian.