Le prospettive in Libia dopo l’accordo di Skhritat

Rispetto allo scorso anno, quando la minaccia jihadista metteva a ferro e fuoco l’intero Medio Oriente e, in Libia, un accordo fra i governi nemici sembrava un’utopia, il Natale 2015 ha regalato due importanti risultati alla comunità internazionale: la riconquista di Ramadi in Iraq e un secondo (e più completo) accordo fra “Dignità” di Tobruk e “Alba Libica” di Tripoli.

Entrambi sono, potenzialmente, dei rilevanti passi in avanti verso una pacificazione delle rispettive regioni, raggiunti grazie alla determinazione delle forze locali e delle potenze occidentali, affiancate da Russia e Iran in Siria.

Tuttavia, nonostante i buoni propositi, Ramadi e l’accordo di Skhritat rappresentano soltanto la prima pietra di una nuova strada in via di costruzione: un tentativo, più che una certezza, di risolvere una volta per tutte i due conflitti che preoccupano maggiormente la comunità internazionale.

Tra le due conquiste, la più vulnerabile sembra paradossalmente quella diplomatica ottenuta in Marocco il 17 dicembre. Dopo mesi di costante lavoro e sanguinosi scontri armati fra truppe regolari, milizie tribali e guerriglieri jihadisti provenienti da ogni città della Libia, la Camera dei Rappresentanti di Tobruk e il Consiglio Generale Nazionale di Tripoli hanno superato, in parte, le proprie divergenze grazie alla mediazione dell’ONU.

L’esito dell’incontro è stato la firma di un accordo per la creazione di un nuovo governo di unità nazionale, formato nel seguente modo: con la benedizione delle Nazioni Unite, un consiglio presidenziale provvisorio, composto da nove rappresentanti, avrà il compito di svolgere le funzioni di governo e nominare, entro 40 giorni dalla firma del patto, i ministri che comporranno il futuro esecutivo. A guidarlo sarà, come già stabilito diverse settimane fa, Fayez Sarraj, membro del parlamento di Tobruk e primo ministro designato.

Al di là della grande incognita circa la possibilità o meno per questo governo di insediarsi a Tripoli in tutta sicurezza, il dubbio più importante riguarda la rappresentatività e il valore politico del secondo accordo di Skhritat. Nonostante, infatti, la maggior parte dei deputati di “Alba Libica” e “Dignità” abbiano sottoscritto il patto, insieme a diversi sindaci e capi tribali, non è detto che l’accordo e il probabile cessate il fuoco ad esso conseguente siano largamente condivisi da tutte le forze in campo presenti in Libia.

Prima di tutto – scrive Internazionale – gli stessi presidenti dei due parlamenti libici hanno rifiutato di partecipare all’evento perché contrari alla firma: un segnale, questo, non certo in grado di mettere a repentaglio l’attuazione dell’accordo, ma comunque simbolo di una Libia che è e resta profondamente divisa.

Più preoccupante è poi la defezione di molti leader tribali e comandanti di milizie locali, che di fatto detengono il controllo militare del territorio libico. Come riportato da The Libya Observer, tribù come Al-Zawiya hanno già rigettato l’accordo, definitio “contrario alla Sharia” perfino dal Consiglio degli ulema libici.

Se il mancato appoggio di alcuni parlamentari può, in qualche modo, essere superato, la presenza di uomini armati ostili alla pace renderà ancor più difficile la messa in pratica delle varie clausole, conducendo probabilmente alla creazione di un governo instabile, debole e privo di quel controllo territoriale che ogni governo necessita per sopravvivere.
A tal proposito, le prime difficoltà potrebbero sorgere già con la nomina dei singoli ministri da parte dei nove del consiglio presidenziale.

Per trovare i nomi giusti serviranno ovviamente tempo e un negoziato con le varie tribù e milizie libiche coinvolte nel conflitto, su tutte Zintan, Berberi, Tuareg e Toubou.

Un secondo problema è, come accennato prima, l’insediamento del nuovo governo a Tripoli, il cui territorio circostante non è controllato da un unico esercito, bensì da diverse brigate alleate di “Alba Libica”. In un panorama così frammentato, trovare un accordo con tutti i comandanti non sarà compito facile.

Attualmente, i colloqui con le milizie sono affidati al generale Paolo Serra, rappresentante militare in loco delle Nazioni Unite, e si svolgono in contemporanea con le trattative per nominare i nuovi ministri: chiaramente, senza le nomine non ci sarebbe nessun governo da far insediare.

Un terzo problema è rappresentato dallo Stato Islamico, in possesso di alcune città della costa come Sirte e i dintorni di Derna, e da Ansar Al-Sharia, organizzazione jihadista legata ad al-Qaeda e situata principalmente a Bengasi.

Pur avendo obiettivi e ideali simili, tra le due fazioni estremiste non scorre buon sangue: dopo quattro anni di prosperità, Ansar Al-Sharia pare in difficoltà di fronte all’imponente avanzata del Califfato nel panorama terroristico internazionale, pagando così la momentanea crisi di al-Qaeda rispetto all’organizzazione di al-Baghdadi.

Ad ogni modo, l’ONU stima che le forze jihadiste in Libia non ammontino a più di 3-4.000 combattenti, un esercito efficace ma sicuramente meno consistente di un eventuale armata libica unita. La ricetta per sconfiggere l’ISIS in Libia è, anche in questo caso, un’unità nazionale capace di fronteggiare un nemico comune in crescita, magari con l’appoggio esterno di alcune potenze straniere.

Tuttavia, il dossier Stato Islamico rimane per ora un problema di secondo piano, così come la lotta ai traffici illegali di armi, droghe ed esseri umani che fioriscono nell’arido e sterminato territorio libico. Prima di intervenire contro queste minacce, la Libia ha bisogno di ritrovare se stessa: senza unità, qualsiasi tentativo di contrastarle risulterebbe inefficace.

Nobili nelle parole, ma incerti nei fatti, gli accordi di Skhritat includono anche un possibile intervento militare internazionale per aiutare il nuovo governo a mantenere l’ordine. In questo probabile intervento, l’Italia sarebbe pronta a giocare un ruolo di primo piano, insieme alla Gran Bretagna: gli inglesi, secondo il Times, potrrebbero presto inviare truppe per contrastare Daesh.

Tralasciando le nostalgiche e obsolete memorie coloniali, Roma può effettivamente avere un peso fondamentale nella regione, essendo il Mediterraneo, l’Africa settentrionale e il Medio Oriente aree in cui si nascondono i maggiori interessi geopolitici ed energetici nazionali.

La messa in sicurezza di un paese vicino come la Libia è, per l’Italia, una mossa cruciale volta a tutelarli, che si tratti di contenere la diffusione del jihadismo o dell’approvvigionamento energetico proveniente dal Nord Africa: il recente incontro fra Matteo Renzi e il designato premier libico Sarraj rappresenta, in questo senso, l’inizio di una nuova collaborazione fra Roma e Tripoli.

In ogni caso, l’intervento militare non potrà avvenire subito e dovrà essere preceduto da alcune mosse diplomatiche necessarie: la legittimazione dell’ONU, una richiesta formale da parte del governo libico già insediato e, soprattutto, il consenso delle milizie locali.

Senza il supporto di queste ultime e aiutando l’insediamento con la forza, l’intervento internazionale rischierebbe sia di delegittimare il governo stesso, facendolo apparire come un burattino delle grandi potenze, sia di facilitare la demonizzazione dell’Occidente in quanto invasore.

Una nuova escalation di violenze è l’ultima cosa di cui la Libia ha bisogno, dato che un simile scenario renderebbe vani tutti gli sforzi fatti fino ad ora. Per questo motivo, in attesa che il governo di unità nazionale prenda forma, l’aiuto internazionale potrebbe avere più successo sotto forma di addestramento militare dell’esercito libico, accompagnato da un aumento dei pattugliamenti delle coste per ridurre i traffici illegali.

Per capire di preciso quale esercito addestrare e quali forze combattere, dovremo aspettare che le trattative facciano il proprio corso e che un governo unitario riprenda le redini del paese. Prima di allora, qualsiasi interferenza materiale da parte di altri Stati rischia di essere insensata e controproducente.

Foto: Reuters, AP,  Stato Islamico, AFP

Filippo MalinvernoVedi tutti gli articoli

Nato a Como, si è laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l'Università degli Studi di Trieste. Attualmente studia Global Governance and Affairs presso l'Università MGIMO di Mosca, nell'ambito di un programma di Double Degree con l'università LUISS Guido Carli di Roma. Collabora con diverse testate cartacee e online. Parla inglese, francese, spagnolo e russo.

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