I MANGUSTA TORNANO IN IRAQ
(Aggiornato il 2 marzo alle ore 21,15)
Dieci anni dopo la fine dell’Operazione Antica Babilonia, che impegnò un nutrito contingente italiano tra il luglio 2003 e il dicembre 2006 a Nassiryah, gli elicotteri da attacco AW-129 Mangusta tornano in Iraq.
I velivoli, oggi della versione più aggiornata D, sono stati protagonisti di tutte le più importanti missioni italiane oltremare a partire dalla Somalia (1993/94) fino all’Afghanistan e vennero schierati a Nassiryah insieme ad altri mezzi pesanti come i carri armati Ariete e i cingolati da combattimento Dardo dopo le tre Battaglie dei Ponti. Questa volta evidentemente non si vuole correre il rischio di inviare in un’area calda un contingente privo dei mezzi pesanti sufficienti a esprimere deterrenza e a garantire un adeguato supporto di fuoco.
Valutazione appropriata sia in virtù dei rischi a cui sono esposti gli elicotteri multiruolo NH-90 che affiancheranno gli AW-129 sia in vista della missione prevista alla Diga di Mosul.
Al reparto elicotteristico fornito dalla Brigata Aeromobile Friuli seguiranno infatti i 500 militari destinati a presidiare la Diga di Mosul e anche in questo caso dovrebbe trattarsi di un “ritorno in Iraq”. La missione, ancora da definire, dovrebbe coinvolgere i bersaglieri della Brigata Garibaldi, la stessa che nell’estate del 2003 aprì Antica Babilonia e che nel dicembre 2006 la concluse.
Coincidenze a parte va rilevato che l’invio degli elicotteri in Iraq, ormai imminente, si svilupperà in modo autonomo dalla futura missione alla diga.
Il reparto di elicotteri che si schiererà a Erbil con 130 militari e, secondo fonti ben informate, 8 elicotteri (4 Mangusta e 4 NH-90) è ufficialmente destinato al Personnel Recovery, cioè al recupero di piloti abbattuti, di militari o civili feriti o da evacuare anche in prima linea o dietro le linee nemiche.
Tra i militari, la cui presenza porterà a un migliaio la consistenza delle forze italiane in Iraq, anche un plotone di fanti aeromobili del 66° Reggimento Trieste, già inviati in passato in Afghanistan con gli stessi compiti.
Non sfugge però che gli elicotteri da attacco Mangusta (che l’Esercito continua a definire da “esplorazione e scorta” in ossequio alla terminologia politicamente corretta imposta dalle “missioni di pace”) potranno anche garantire un efficace appoggio tattico ai bersaglieri che verranno dislocati presso la Diga di Mosul, attualmente a una decina di chilometri dal fronte che contrappone le truppe curde e le milizie dello Stato Islamico.
Del resto la presenza dei fucilieri e soprattutto dei Mangusta (di fatto gli unici elicotteri da attacco schierati in Iraq dalla Coalizione insieme agli Apache statunitensi) evidenzia che la missione italiana si svilupperà a ridosso della prima linea, dove il rischio di scontri con le forze dell’Isis è più che concreto così come la minaccia per i nostri elicotteri.
A differenza dei talebani, che in più occasioni hanno subito gli attacchi devastanti dei Mangusta senza poter opporre armi molto valide per contrastarli, l’Isis dispone di molti cannoni a tiro rapido da 23 millimetri piuttosto efficaci a bassa quota e di missili antiaerei portatili a ricerca di calore Sa-7, Sa-14, Sa-18 e probabilmente anche dei cinesi FN-6 e di Stinger, armi saccheggiate nei depositi delle truppe di Damasco e Baghdad o fornite da Stati membri della Coalizione anti-Isis ai “ribelli moderati” siriani.
Il reparto di volo dell’Aviazione dell’Esercito sembra quindi avere le stesse caratteristiche in termini di tipologia e quantità dei mezzi di quello ancora dislocato a Herat, in Afghanistan. Gli elicotteri schierati a Erbil opereranno in tutto il settore a favore anche delle forze alleate. Truppe e mezzi hanno effettuato le prove generali per la missione nel corso di esercitazioni tenutesi tra il 30 novembre e il 4 dicembre scorso di cui aveva dato conto il sito internet dell’Esercito.
I piani per schierare truppe italiane presso la Diga di Mosul erano invece stati annunciati da Barack Obama che nel dicembre scorso aveva così “forzato” Renzi a rendere noti i preparativi dell’operazione che vedrà circa 500 militari italiani proteggere i cantieri dell’azienda romagnola Trevi che si è aggiudicata (era l’unica concorrente) una commessa per realizzare opere di consolidamento da 273 milioni di euro, come ha reso noto la stessa Trevi annunciando il 2 marzo la firma del contratto.
Molto meno dei 2 miliardi preannunciati da Renzi anche se non si possono escludere ulteriori commesse all’azienda italiana o altre “ricadute economiche positive” dopo la visita a Roma, in gennaio, del premier iracheno Haider al-Abadi e il colloquio con Claudio Descalzi, amministratore delegato di ENI, incentrati sullo sviluppo delle attività nel giacimento petrolifero di al-Zubair, nel sud dell’Iraq.
Circa le condizioni della grande infrastruttura, l’entità e l’urgenza dei lavori necessari, ci sono valutazioni diverse.
L’ambasciata americana in Iraq ha diffuso una nota con le raccomandazioni per mettere in salvo 1,5 milioni di persone qualora cedesse la diga, costruita su una base instabile che si erode continuamente con la mancanza di manutenzione che ha ulteriormente indebolito la struttura.
“Non abbiamo alcuna informazione specifica che indichi quando potrebbe esserci una rottura” osserva l’ambasciata americana in una nota pubblicata sul suo sito che valuta come in caso di rottura il numero di vittime stimato sarebbe tra 500 mila e 1,5 milioni di iracheni che vivono lungo il fiume Tigri.
Allarmismi smentiti però decisamente dal governo iracheno e dallo stesso direttore della diga.
“Le misure di sicurezza rese note dal governo sono di routine, e non significano che la diga di Mosul stia per crollare” ha affermato il ministro delle Risorse idriche iracheno, Muhsin al Shammary.
Il ministro ha aggiunto che da due settimane è in corso lo svuotamento del bacino, ma ha sottolineato che si tratta di un intervento effettuato ogni anno in questa stagione come “precauzione per lo scioglimento delle nevi”. “I lavori di manutenzione procedono normalmente e non ci sono problemi”, ha affermato Al Shammary.
Durante la visita a Roma Abadi aveva sollecitato la Trevi a iniziare al più presto i lavori anche se a Baghdad molte voci si sono levate dal mondo politico scita per condannare la presenza di truppe straniere sul territorio nazionale, quelle turche schierate “senza invito “in Kurdistan come quelle che l’Italia si appresta a schierare intorno alla diga.
I moniti delle forze che guidano alcune tra le più agguerrite milizie scite impiegate contro lo Stato Islamico in Iraq costituiscono un ulteriore elemento di preoccupazione per una missione militare che mantiene molte zone d’ombra.
Non è chiaro perché a proteggere un cantiere che ospiterà 450 tecnici e maestranze (lo aha reso noto la stessa Trevi senza precisare quanti italiani e quanti iracheni), debba venire schierato un battaglione di fanteria invece di contractors e guardie locali.
Tra l’altro si dice che i bersaglieri della Brigata Garibaldi disporranno probabilmente di carri armati Ariete, cingolati da combattimento Dardo e addirittura una batteria di obici d’artiglieria Pzh-2000 (anche se su questi ultimi pare sia in atto un ripensamento)
Uno strumento militare poderoso e forse eccessivo per far fronte al rischio di attentati e autobombe in un cantiere che si trova ora a una decina di chilometri dal fronte ma quando i tecnici e le truppe italiane si schiereranno la prima linea potrebbe essere retrocessa ulteriormente verso Mosul.
Le anticipazioni circa la struttura del contingente inducono a ritenere che sia predisposto a condurre azioni offensive o più probabilmente a fornire appoggio alle fanterie curde, notoriamente carenti in fatto di artiglieria e corazzati.
La missione alla diga determinerà inoltre un aumento significativo dei costi dell’operazione Prima Parthica (dal nome di una legione romana costituita nell’attuale Iraq).
I 200 milioni spesi nel 2015 diverranno almeno 500 con l’invio di nuove truppe, degli elicotteri e dei mezzi pesanti. In pratica se Trevi incasserà 273 milioni di dollari per rinforzare la diga, i contribuenti italiani ne spenderanno quasi altrettanti ogni anno per sostenere le truppe che la proteggeranno.
“I due governi collaboreranno insieme per la sicurezza dell’area in chiave difensiva” ha detto Renzi nell’incontro con al-Abadi ribadendo così che la natura della missione italiana non cambia.
Certo però i rinforzi, dai Mangusta ai bersaglieri con i loro mezzi, sono costituiti da reparti da combattimento mentre finora in Iraq abbiamo schierato solo forze di supporto.
I 650 militari dell’esercito e 110 carabinieri hanno compiti logistici, di sicurezza delle basi e di addestramento delle forze irachene e curde e operano in Kurdistan e a Baghdad (anche se incursori del 9° Col Moschin sono stati segnalati anche a Ramadi e Kirkuk) privi di mezzi pesanti mentre i 250 militari dell’Aeronautica dal Kuwait fanno volare sull’Iraq bombardieri Tornado e droni Predator disarmati.
L’arrivo di forze italiane da combattimento sembra quindi rispondere alle reiterate pressioni di Washington che vorrebbe vedere Roma e gli altri alleati europei maggiormente coinvolti, anche “boots on the ground”, nelle operazioni contro l’Isis, in Iraq come in Siria e i Libia.
Foto : Aviation Battallion ISAF, Contingente Antica Babilonia, AP e BBC
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane" e “Immigrazione, la grande farsa umanitaria”. Dall’agosto 2018 al settembre 2019 ha ricoperto l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza del ministro dell’Interno.