Terrorismo islamico: l’Europa causa del suo male
In seguito agli attacchi di Parigi, all’arresto di Salah Abdeslam e ai tragici fatti di Bruxelles, è stato scritto molto circa le minacce interne che il nostro continente deve fronteggiare in questa difficile fase. Molti di questi testi, però, si sono limitati a considerare il pericolo rappresentato da quella parte di comunità musulmana che, a causa della scarsa integrazione o dell’efficienza dei predicatori/reclutatori, guarda con particolare simpatia al radicalismo di matrice Wahabita o, nel caso peggiore, allo Stato Islamico.
Ciò ha portato una svogliata opinione pubblica a dibattere, senza neanche troppo interesse, sulla modalità con cui è possibile evitare che all’interno delle grandi città si rafforzino le realtà politiche e sociali parallele e autonome rispetto all’autorità laica dello Stato.
Al di là del fatto che forse è già troppo tardi per correre ai ripari (soprattutto a causa della lentezza dell’azione dei Governi e degli anni trascorsi senza prendere contromisure), secondo chi scrive, tale riflessione ha finito per rendere meno evidente che il vero nemico degli Europei sono gli Europei stessi e la loro superficialità.
Per quanto tale considerazione possa sembrare una mera provocazione o un semplice esercizio intellettuale, vi sono tuttavia numerosi elementi che sembrano dimostrarne la correttezza.
Innanzitutto, l’Europa e i suoi cittadini sono ostaggio degli egoismi di alcuni stati che, pur facendo periodiche professioni di fede nell’Unione e nel suo ruolo salvifico, perseguono stabilmente interessi propri, senza curarsi delle conseguenze che questi possono avere sugli equilibri continentali.
Restando nel campo della sicurezza e della politica estera, ad esempio, gli esempi più eclatanti sono quelli relativi allo sciagurato intervento in Libia e al contrasto al regime siriano (che hanno destabilizzato l’intero Mediterraneo) o alla crisi scatenata in Ucraina due anni or sono che ha portato ai ferri corti con la Russia).
Naturalmente, la responsabilità di questi errori va attribuita anche a quei Paesi che, per debolezza o disinteresse, hanno agito da yes-man, avvallando qualunque decisione, pur sapendo che nella maggior parte dei casi i costi sarebbero ricaduti soprattutto su di essi. Non è difficile comprendere che l’esempio più classico di tale comportamento è l’Italia.
Oltre a ciò, gli abitanti dell’Europa sono vittime del loro stesso anti-europeismo e della loro scarsa attenzione per ciò che accade nelle stanze dei bottoni della Capitale dell’Unione
Il risultato più immediato di ciò è che i Partiti possono continuare ad usare l’Europarlamento come una sorta di parcheggio (sia in funzione di premio che di esilio) per personaggi che spesso risultano essere impreparati ad affrontare il difficile compito per cui sono stati eletti. In aggiunta, gli scranni vengono sempre più frequentemente occupati da rappresentanti che si prefiggono il chiaro scopo di demolire dall’interno la UE, cosicché, quando emerge la reale necessità di una reazione forte e unitaria, l’Unione si trova ad essere condizionata da persone inadeguate o che, per proprio ritorno elettorale, sono direttamente interessate a vederla fallire.
Il disinteresse, inoltre, ha permesso a taluni membri della Commissione di portare avanti delle battaglie strumentali, senza che essi fossero chiamati a rispondere delle proprie azioni. L’esempio più recente di ciò è l’insieme di misure promosse da Malström e da Marini allo scopo di garantire “la sicurezza dei cittadini” mettendo al bando le armi semiautomatiche legalmente detenute.
La dimostrazione dell’inutilità di tale proposta sta nel fatto che né gli attacchi in Francia né quelli in Belgio sono stati perpetrati con le tipologie di armi che i due vorrebbero vietare e che, soprattutto, la loro proposta non fa nulla per spezzare la potente rete di contatti e connivenza che permette agli jihadisti della porta accanto di dotarsi di fucili d’assalto ed esplosivi.
L’elemento maggiormente pericoloso, però, apparare essere la sterilità e la superficialità dei dibattiti che inevitabilmente prendono vita dopo ogni attacco al cuore del Continente. Per quanto possa sembrare una questione marginale e quasi filosofica, questo tema è particolarmente importante, perché rappresenta una delle ragioni per cui i tentativi di proporre strategie organiche e pragmatiche per difenderci dall’estremismo islamico falliscono quasi sempre sotto i colpi dei diversi populismi.
Da un lato, infatti, vi è il popolo dell’hashtag #prayfor (seguito dal nome della città colpita), dall’altro quello di chi non fa che invocare la costruzione di lager in cui rinchiudere tutti gli islamici d’Europa. Al di là delle ovvie considerazioni di natura etica e culturale (che dovrebbero essere sufficienti a rigettare le soluzioni di cui sopra), entrambi gli approcci non fanno che arrecare danno al Vecchio Continente.
La reazione politicamente corretta, infatti, dimostra ai nemici dell’Europa non solo che questa non è pronta a difendersi ma, anzi, che essa spera ancora di poter combattere la furia omicida con slogan e buoni sentimenti.
Per quanto encomiabile, tale fiducia nella non-violenza non ha avuto alcun risultato e ha creato il falso senso di sicurezza per cui sarebbero sufficienti manifestazioni di piazza per fermare lo jihadismo e non ingenti investimenti nell’ambito dell’intelligence e della sicurezza uniti ad un radicale ripensamento della nostra strategia.
Va altresì sottolineato, che proprio coloro che supportano tale linea di pensiero sono maggiormente disposti ad accettare tagli al budget della difesa o dei Ministeri degli Interni, salvo poi stupirsi dell’incapacità delle Forze di Sicurezza di far fronte, senza avere le risorse adeguate, ad una minaccia senza precedenti.
In maniera opposta, la corsa allo slogan xenofobo e anti-islamico, oltre a rappresentare la negazione stessa dei valori fondamentali per cui dovremmo combattere, fa il gioco dei reclutatori dell’ISIS, che hanno così vita facile per far sembrare la UE uno Stato crociato pronto alla Guerra Santa.
In aggiunta a ciò, la violenza verbale rischia di farci perdere il supporto dei cosiddetti musulmani moderati, il cui apporto è fondamentale per vincere questa guerra, poiché possono assestare un colpo mortale all’estremismo agendo dall’interno.
Foto: Twitter, Reuters, AP
Luca SusicVedi tutti gli articoli
Triestino, analista indipendente e opinionista per diverse testate giornalistiche sulle tematiche balcaniche e dell'Europa Orientale, si è laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche all'Università di Trieste - Polo di Gorizia. Ha recentemente pubblicato per Aracne il volume “Aleksandar Rankovic e la Jugoslavia socialista”.