Aumentano i contractors USA in Iraq

Il numero di contractors militari in Iraq ha subito un’impennata di circa otto volte in un anno. Da gennaio 2015 a gennaio 2016, infatti si è passati da 250 a 2.028 (+711,2%). Il 70% è costituito da americani, il 20% da cittadini di Paesi terzi ed un 10% da iracheni.

Lo scontro con lo Stato Islamico ha richiesto personale per l’addestramento e supporto sia di forze armate e di sicurezza, sia dell’apparato burocratico ed amministrativo della Repubblica irachena.

Nello stesso intervallo temporale il livello di truppe statunitensi nel Paese, nell’ambito dell’operazione Inherent Resolve, è passato da 2.300 a 3.700 (+60,87%) evidenziando una forte presenza di personale privato anche con un numero relativamente basso di truppe. Il rapporto è infatti variato da 1:9,2 (1 contractor ogni 9,2 soldati) a 1:1,82.

Nel pieno delle guerre in Iraq ed Afghanistan il rapporto si aggirava attorno all’ 1:1, mentre nella guerra del Vietnam, ribattezzata da Business Week come prima “guerra a contratto”, era 1 “civile” ogni 5 militari. Nella Prima guerra del Golfo 1 “civile” ogni 60 soldati; in Bosnia 1:10, in Kosovo 1:2.

L’attuale trend iracheno risulta in controtendenza con quello generale di USCENTCOM AOR – Area di Responsabilità del Comando Centrale degli Stati Uniti – comprendente 20 paesi mediorientali e dell’Asia centrale (Afghanistan, Bahrain, Egitto, Iran, Iraq, Giordania, Kazakhstan, Kuwait, Kyrgyzstan, Libano, Oman, Pakistan, Qatar, Arabia Saudita, Siria, Tajikistan, Turkmenistan, Emirati Arabi Uniti, Uzbekistan e Yemen).

In esso, infatti si è osservata una riduzione di 10.919 unità (-19,96%) rispetto a gennaio 2015: Attualmente vi operano 43.781 contractors del Dipartimento della Difesa, di cui 17.564 statunitensi, 12.227 di Paesi terzi e 13.990 locali. Siamo comunque ben lontani dalle presenze di dicembre 2008 quando, nel solo Iraq, avevamo 163.591 contractors e 165.700 uomini in uniforme!

I dati fanno riferimento solamente al personale civile schierato dal Dipartimento della Difesa; questo perché, in seguito all’incidente di piazza Nisoor –  l’uccisione di 17 civili ad opera di uomini della Blackwater, a Bagdad nel 2007 – è stato imposto solamente al Pentagono di comunicarne il numero esatto alle sue dipendenze.

Di questi operatori solo il 5,8% (118) si occupa di sicurezza, mentre un 1,2% (24) svolge compiti addestrativi.

I restanti si suddividono i vari servizi precedentemente assicurati dal personale militare: 30,5% (618) logistica e manutenzione, 6,8% (138) costruzioni, 20% (381) servizi linguistici, traduzioni ed interpretariato, 7,8% (158) trasporti, 6% (122) comunicazioni, 8,5% (172) amministrazione, 13% (263) supporto alle installazioni militari e 1,6% (34) un generico “altro”. Ulteriori 5.810 contractors sarebbero al servizio di altre agenzie e dipartimenti del Governo americano in Iraq.

Sebbene le truppe statunitensi si siano ritirate dal Paese  nel 2011, molti contractors del Dipartimento della Difesa sono confluiti in contratti del Dipartimento di Stato o del Governo locale per addestrare e supportare gli iracheni o manutentere gli equipaggiamenti ceduti loro.

Da una rapida occhiata, rispetto ad ottobre 2015, emerge una forte crescita di operatori di Paesi terzi: da 41 a 397 (+868,29%). Secondo le abitudini degli Americani si tratterebbe in prevalenza di operatori dei cosiddetti “Five Eyes” – Australia, Gran Bretagna, Nuova Zelanda e Canada 8il 5° songo gli U.S.A.) con i quali esiste un consolidato rapporto preferenziale sia in termini di fiducia, che di capacità operative; certamente a scapito del cost saving! Significativo è anche il ridottissimo aumento di operatori locali (da 239 a 264; +10,46%) che potrebbe attribuirsi a scarse capacità o a ragioni di sicurezza, visto l’onnipresente rischio di incidenti “green on blue” o altre forme di tradimento.

Osservando i numeri in funzione delle tipologie di incarichi, si notano crescite considerevoli in termini di supporto logistico alle installazioni (+83,92%), addestramento (+71,43%) e trasporti (125,71%): tutti sintomatici di un appoggio alle operazioni militari contro gli uomini di Al Baghdadi.

Nonostante i recenti successi contro il Califfato, la situazione in Iraq resta comunque molto seria anche per i contractors stessi. Tre di loro, impegnati nell’addestramento delle forze speciali locali  per conto  della Sallyport Global Holdings – società controllata di General Dynamics –  sono stati rapiti a gennaio e liberati a metà febbraio da una gang di miliziani sciiti.

Dilagante è anche la corruzione (l’Iraq è 161° posto su 168; l’Italia è 44°)  che ha fatto man bassa di fondi del Pentagono destinati agli appalti militari: Ben $60 miliardi secondo la  Commission on Wartime Contracting.
Decisamente più “rosea” è la situazione nel Kurdistan iracheno dove il Governo regionale ha introdotto nuove norme e regolamenti per le compagnie private: giro di vite sulle nuove licenze, cauzioni più cospicue – $50.000 in contanti – ed età degli operatori compresa tra i 20 e i 50 anni.

Il capitano Rebwar Jameel del Ministero dell’Interno, ha specificato che le società straniere potranno occuparsi esclusivamente di sicurezza e collaborare solamente con società dotate di licenza ministeriale. Secondo il governo curdo, nella regione autonoma operano 55 società di sicurezza privata, di cui 9 straniere.

La principale è la Falcon Security, fondata nel 2003 ed operante anche nel resto dell’Iraq spaziando dal petrolio all’agricoltura. E’ costituita da ex membri delle forze speciali americane ed ha circa 600 dipendenti. Ad essa è affidato l’incarico di proteggere Masoud Barzani, storico presidente curdo ed il primo ministro Nechervan Barzani: gli uomini della Falcon vengono definiti i loro “pretoriani”.

Fornisce supporto logistico alle forze armate curde – i Peshmerga – dalla sua base principale nei dintorni della città di Makmur. Si occupa anche della sicurezza di giornalisti occidentali eVip in visita nella regione. Alcuni esperti sostengono sia collegata direttamente alla Defense Intelligence Agency e che fornisca al Pentagono la maggior parte delle informazioni sul contesto iracheno. Inoltre, con essa gli Americani punterebbero ad equilibrare la situazione in caso di eccessiva influenza iraniana su Baghdad.

Sebbene la politica Obama degli ultimi anni sia stata improntata sul “Pivot to Asia” e “Leading from Behind” con un evidente e,  a detta di molti, preoccupante disimpegno dal Medioriente, ciò che non è mai venuto meno è il forte dispiegamento di contractors. Fatta eccezione per alcuni Paesi ostili od orbitanti nella sfera d’influenza russa, l’intera area di CENTCOM presenta strutture degli Stati Uniti che, per poter svolgere la propria funzione, necessitano di personale militare e/o privato.

Oltre all’Iraq, le presenze più significative si registrano in Afghanistan dove, nonostante la riduzione considerevole di truppe occidentali con la conclusione delle operazioni “ISAF” ed “Enduring Freedom” – sostituite da “Resolute Support” e “Freedom Sentinel” – restano sul campo 12.905 soldati Nato, 9.800 statunitensi (di cui 6.800 sotto egida NATO) e 30.455 contractors della Difesa (aumentati di 244 unità rispetto ad ottobre 2015; +0,81%): 10.151 americani (-1,89%), 6.586 di Paesi terzi (-5,05%) e 13.718 locali (+6,11%).

Di questi, 14.382 (47,2%) si occupano di logistica e manutenzione, 2.350 (7,7%) di supporto alle installazioni militari, 1.064 (3,5%) di comunicazioni, 1.953 (6,4%) di costruzioni, 3.156 (10,4%) di sicurezza, 967 (3,2%) di addestramento, 1.773 (5,8%) di servizi linguistici, 1.926 (6,3%) di trasporti, 128 (0,4%) di medicina e soccorso, 2395 (7,9%) di gestionale ed amministrativo e 361 (1,2%) di altro.

Considerando le differenze riscontrate su nazionalità ed incarichi rispetto ad ottobre 2015, emerge un disimpegno di operatori americani e di Paesi terzi a vantaggio di forze locali. Tale aumento, valutato assieme alla consistente crescita di personale di sicurezza (+90.69%) e alla riduzione di quello addestrativo (-4,54%), lascia trasparire delle forze armate  e di polizia.

che, a differenza di quelle irachene, risultano meno infiltrate dal nemico, meno contrapposte etnicamente e maggiormente in grado di “marciare sulle proprie gambe”. Considerazione supportata anche dal rapporto 3:1 contractors/militari USA. Tuttavia, da qui a definirle completamente autonome o fidate ce ne vuole!

L’aumento di interpreti (+5,6%), trasportatori (+2,06%) e personale amministrativo (+2,61%) sono sintomatici di una volontà di normalizzazione del Paese (forse più proveniente dall’esterno!) in risposta alla riduzione dei vari contingenti internazionali e alla recrudescenza della pressione talebana.

L’impiego dei contractors ha avuto ripercussioni negative in termini di crimini, violenze, frodi ed inadempienze anche in Afghanistan. In particolare, DynCorp e Fluor Corp. sono state accusate di sovrafatturazione e tangenti per l’assunzione di operatori nepalesi, indiani e di altra provenienza.

Gli inquirenti di Sua Maestà stanno investigando anche sulla Supreme Group  per possibili sovrafatturazioni di carburante ai danni di Gran Bretagna (fino a £46 milioni) e NATO (£460 milioni). La società olandese si era già dichiarata colpevole ed aveva pagato un risarcimento di $389 milioni relativamente a sovrafatturazioni per vettovagliamenti agli americani. E che dire delle facoltose ville da $150 milioni che alcuni consulenti privati hanno preferito alle più spartane installazioni militari?

Dalle indagini sono emerse molte debolezze nelle procedure di assegnazione e gestione dei contratti.  I meccanismi più immediati ed efficaci per ridurre questa tipologia di frodi restano i controlli diretti sul campo: attività sempre più impraticabili con il ritiro delle truppe ed il deterioramento della stabilità di molte regioni. Attualmente, solo il 10% del Paese sarebbe accessibile a tali verifiche.

Nel frattempo DynCorp International  ha ottenuto dallo U.S. Army Sustainment Command una maggiorazione annuale di 154 milioni di dollari di un contratto già in essere nell’ambito del programma LOGCAP per il rifornimento delle basi americane: energia elettrica, cibo, servizi di lavanderia e raccolta/smaltimento rifiuti.
Il contratto cost-plus fixed-fee, stipulato originariamente nel luglio 2009, aveva una durata iniziale di riferimento annua e quattro possibilità di estensioni annuali. Il valore attuale complessivo è di $6,6 miliardi.

Anche la Giordania è finita recentemente sotto i riflettori per i contractors; del Dipartimento di Stato stavolta! A Novembre un poliziotto giordano ha aperto il fuoco uccidendo 5 persone presso il Jordan International Police Training Center di Amman: tra loro due contractors americani ed un sudafricano.

Le vittime, tutti veterani di Iraq e Afghanistan, erano impegnati nell’addestramento della polizia palestinese per conto di DECO inc. e di DynCorp. Nella suddetta struttura, finanziata dal Dipartimento di Stato e gestita con il Diplomatic Security Service e la International Narcotics and Law Enforcement Bureau, sono passati circa 75.000 corsisti, mentre sarebbero circa 1.000 gli addestratori privati presenti nel Regno.

Altre tracce “fresche” di contractors di Washington le troviamo ad inizio anno in Oman, dove la U.S. Air Force ha assegnato a DynCorp International un contratto del valore di $1,8 milioni e della durata di 12 mesi per continuare a rifornire la base aereonavale di Thumrait.

DynCorp International è presente anche in Arabia Saudita dove a fine 2015 ha ottenuto un appalto biennale con tre possibilità di estensione annuale ciascuna per supportare l’aviazione dell’Esercito saudita. Il valore di aggiudicazione è stato di $61 milioni, con possibilità di crescita fino a $215 milioni qualora esercitate tutte le possibilità di estensione.

Nella fornitura di servizi al Governo degli Stati Uniti in CENTCOM un ruolo primario è svolto indubbiamente da DynCorp International. La società ha operato per conto dello Zio Sam anche in Bosnia, Somalia, Angola, Haiti, Colombia, Kosovo e Kuwait e perfino sul suolo patrio, durante l’emergenza per l’uragano Katrina.

Sebbene il giro d’affari in contratti governativi sia cresciuto rispetto all’anno precedente ($936.000.000 nel 2015)  la società della virginiana con 17.000 dipendenti, ha subito considerevoli contraccolpi a causa del ritiro di truppe dal teatro afghano, come sostenuto da Jim Geisler, amministratore delegato ad interim: Dai 3.346.227.000 dollari del 2012  – in pieno surge – si è crollati ai  2.720.164 del 2014!

Tra le altre società principalmente coinvolte abbiamo la KBR che, durante l’ultima riunione con gli investitori, ha confermato opportunità lavorative notevolmente in crescita. Precedentemente controllata della Halliburton, KBR ha predominato per anni in Afghanistan aggiudicandosi contratti senza una reale concorrenza. Accusata anch’essa di frodi e sovrafatturazioni, sta ancora operando attivamente in supporto alle truppe americane in Iraq, Emirati Arabi, Kuwait ed altri Paesi.

Iraq e Afghanistan – così come altre aree mediorientali – restano ben lontani dalla stabilità e possibilità di “smarcarsi” dalla presenza di truppe internazionali. Ciò impone un ormai parallelo stanziamento di contractors e compagnie militari e di sicurezza private. Secondo Todd Harrison del Center for Strategic and International Studies, il costo annuale dei contractors in Afghanistan ammonterebbe al numero di truppe dispiegate moltiplicato per $1,3 miliardi, oltre a $ 6 miliardi in costi fissi, indipendenti dall’entità della forza.

Per il 2017 si preventivano quindi circa $13 miliardi per i previsti  5.500 soldati americani. La cifra finale – includendo i progetti di ricostruzione – si aggirerebbe attorno ai $20 miliardi.

La privatizzazione e l’esternalizzazione di servizi è sempre stata considerata un efficace metodo di risparmio; oggi, anche a causa delle frodi emerse, questo assioma sembra essere messo in discussione. Sean McFate, professore alla National Defense University, afferma che “rispetto a 10-15 anni fa quando tali spese venivano trascurate, ora risultano così rilevanti da rientrare nello strategic planning” e subiscono costante monitoraggio dal GAO (Ufficio di Contabilità Generale) che, tuttavia, continua a lamentare “serie e recidive lacune”.

L’attivista per la tutela dei contribuenti Ralph Nader  in un recente articolo ha parlato dei contractors militari e della difesa come “too big to audit”: troppo grandi per rendere conto di spese stratosferiche e scarsa qualità di servizi.  

Viene riproposto anche il problema del lobbismo di questi grossi gruppi aziendali in grado d’influenzare i vertici del Dipartimento della Difesa nel proporre chiusure di basi, tagli sulle pensioni militari e sui programmi di assistenza sanitaria, lasciando immacolati i loro contratti.

Queste misure impopolari vengono continuamente osteggiate dal Congresso ed obbligano frequentemente il ricorso a fondi speciali  di altri dipartimenti – come il fondo Overseas Contingency Operations della Casa Bianca –  per far “digerire” i costi dei contracotrs. In vista di un ormai scontato ed impopolare surge sia in Iraq, che in Afghanistan, i contractors consentiranno di alleggerire nuovamente la portata di tali mosse con unità o contingenti creati ad hoc, senza reperire e trasferire forze e specialità militari in continuazione.

Inoltre, le inevitabili vittime che accompagnano ogni conflitto potranno essere occultate senza troppi problemi; le prospettive di crescita restano dunque molto alte!

Foto: Oatnation.com, AP, AFP, EPA, Reuters, Getty Images

Nato nel 1983 a Brescia, ha conseguito la laurea specialistica con lode in Management Internazionale presso l'Università Cattolica effettuando un tirocinio alla Rappresentanza Italiana presso le Nazioni Unite in materia di terrorismo, crimine organizzato e traffico di droga. Giornalista, ha frequentato il Corso di Analista in Relazioni Internazionali presso ASERI e si occupa di tematiche storico-militari seguendo in modo particolare la realtà delle Private Military Companies.

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