Operativo il caccia “stealth” cinese Chengdu J-20

Brusca accelerazione per lo sviluppo del grosso caccia stealth cinese Chengdu J-20, di cui pochi giorni fa, il 10 marzo 2017, è stata annunciata ufficialmente l’ingresso in servizio nelle forze aeree di Pechino. E’ stato il telegiornale dell’emittente nazionale CCTV a dichiarare che il velivolo, pur attualmente costruito in pochi esemplari, si stima una decina scarsa, compresi i prototipi, è “operativo”, “segnando una grande tappa nella modernizzazione della difesa nazionale”.

A sei anni dal primo volo del prototipo, considerando i lunghissimi tempi di sviluppo dei sofisticati aerei moderni, i cinesi hanno fatto davvero in fretta, non c’è che dire. E’ vero che poi la definizione stessa di “operativo” può essere opinabile, tanto più che solo nel 2018, comunque, la Cina prevede di disporre di un numero sufficiente, circa un paio di squadriglie, di J-20 davvero apprezzabile sul piatto della bilancia militare. Però, il messaggio è chiaro, la fase sperimentale è chiusa e la macchina sarebbe, più o meno, pronta ad agire.

Come se non bastasse, 72 ore dopo, il 13 marzo il vicepresidente della fabbrica di motori aeronautici cinese Aero Engine Corp of China (AECC) Chen Xiangbao ha dichiarato al giornale China Daily: “Presto i nostri caccia di quinta generazione potranno montare motori di realizzazione cinese. Lo sviluppo del motore sta procedendo molto bene”. Chen ha voluto fugare i dubbi sulla motorizzazione del J-20, e dell’altro caccia di nuova concezione, lo Shenyang J-31, per cui attualmente si ripiega ancora su turbogetti di origine russa. Ma sul tasto “dolente” dei motori ritorneremo più avanti in questa trattazione. Per ora basti notare come sia confermata la velocità impressa alla maturazione del J-20, che diventerà nei prossimi anni uno dei maggiori grattacapi per le forze statunitensi nello scacchiere dell’Oceano Pacifico.

Già fece scalpore lo scorso autunno il debutto in pubblico del prestante caccia. Era il 1° novembre 2016, alla manifestazione aerea di Zhuhai, nella provincia del Guangdong. Due esemplari effettuarono rapidi passaggi sopra l’aeroporto aprendo poi la loro piccola formazione con due virate divergenti e cabrando in quota. Ormai diversi esemplari sono stati costruiti e lo sviluppo di sempre maggiori capacità operative sarà una vera sfida anche per un colosso come la Cina, tanto che all’alba del nuovo anno, 2 gennaio 2017, un attento osservatore come l’esperto russo Vasily Kashin ha efficacemente commentato: “Questo è attualmente il programma più complesso e rischioso dell’industria militare cinese, come dimostra anche l’esperienza dell’America nel collaudo e lo sviluppo dei caccia di quinta generazione. Le unità da combattimento dell’Aeronautica Cinese stanno adottando il J-20 più velocemente di quanto l’Aeronautica Russa stia facendo col suo Sukhoi T-50 Pak-Fa. Allo stesso tempo bisogna capire che i caccia di quarta generazione formeranno ancora per molto tempo la spina dorsale delle forze aeree di Russia e Cina”.

In effetti è notevole che i primi J-20 siano consegnati alle squadriglie quando il “quinta generazione” russo T-50 è ancora indietro di un gradino, nonostante abbia volato già nel 2010, un anno prima dell’aereo cinese. E’ ovvio comunque che, sotto l’aspetto numerico, i costi e la complessità di messa a punto di ogni singola unità tenderanno a far sì che ci vorrà tempo perché, non solo l’Aeronautica Cinesi, ma le forze aeree di qualsiasi potenza mondiale o regionale possano passare a una flotta di caccia integralmente rinnovata.

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La preoccupazione ha toccato con mano Taiwan, tanto che il 25 gennaio 2017 la maggiore azienda aeronautica dell’isola considerata “provincia ribelle” da Pechino, la AIDC, ha confermato di aver iniziato l’aggiornamento tecnico dei 143 vecchi caccia General Dynamics F-16 Falcon attualmente operativi con le squadriglie taiwanesi. Secondo il ministro della Difesa Feng Shih Kuan le modifiche, in particolare l’adozione di un nuovo radar AESA AN/APG-83 dovrebbe consentire agli F-16 di “ingaggiare anche i Chengdu J-20”. O almeno questa è la speranza, seppure i taiwanesi abbiano ammesso che l’aggiornamento dei loro caccia riguarderà 24 velivoli all’anno, il che significa che tutta la flotta di F-16 col sole bianco cino-nazionalista dipinto sulle ali sarà interamente aggiornata non prima del 2023, quando potrebbe essere troppo tardi.

Come si evince dai filmati ripresi a Zhuhai in novembre, i due J-20 esibitisi sfoggiavano la nuova livrea mimetica grigiastra a bassa visibilità, da superiorità aerea, tant’è che a un certo punto, con una particolare angolazione di luce, la loro sagoma è sembrata quasi scomparire contro lo sfondo del cielo mentre erano verso il culmine della cabrata. Un altro interessante dettaglio è che, nei passaggi a volo orizzontale, il J-20 visto di profilo è parso leggermente appoppato, ossia con il muso rivolto in su di qualche grado. Difficile dire se sia una caratteristica permanente, dovuta alla distribuzione strutturale dei pesi e all’assetto dovuto alla forma aerodinamica, oppure una condizione variabile a seconda della quantità di carburante o carico interno.

Certamente i cinesi si sono rivelati molto accorti nel mostrare il loro aeroplano, poiché l’esibizione ha visto i due J-20 sfilare in modo relativamente tranquillo, con passaggi e manovre ad ampio raggio, senza dare saggio di particolari capacità acrobatiche. Rimangono quindi piuttosto sconosciute le reali possibilità del velivolo di affrontare duelli manovrati e del resto il tema non è nuovo, poiché da tempo si discute se considerare il J-20 un vero e proprio “caccia”, nel senso tradizionale del termine, oppure un multiruolo che sia più un intercettore e un cacciabombardiere che non un duellante.

Come a dire, più “un F-15” che “un F-16”. Già la mole fa propendere per questa ipotesi, senza contare che la Cina, per il combattimento manovrato, sta già sviluppando in parallelo l’altro citato caccia, lo Shenyang J-31, il cui primo prototipo ha volato nel 2012 e di cui parlammo già diffusamente in un nostro precedente articolo uscito su Analisi Difesa nel gennaio 2015. J-31 che nelle forme riprende un po’ vagamente l’F-22 Raptor, ma in versione assai più “smilza”. Che il suo sviluppo prosegue senza intoppi in parallelo al J-20 è stato confermato poco prima di Capodanno, il 28 dicembre 2016 dal quotidiano China Daily che ha riportato il debutto in volo di una nuova versione del J-31 che l’esperto di aviazione cinese Wu Peixin ha definito “dotata di migliori caratteristiche stealth, migliorato equipaggiamento elettronico e capace di un maggior carico utile”. Wu ha inoltre rimarcato che il J-31 verrà proposto all’estero al prezzo di 70 milioni di dollari a esemplare per facendo concorrenza alle esportazioni di velivoli più costosi come l’Eurofighter Typhoon, con l’ironico risultato di vendere, in teoria, un caccia di “quinta generazione” più economico di uno di quarta.

Sul J-31 non è qui la sede per dilungarsi ulteriormente, ma basti rilevare che il più massiccio J-20 si presenta un velivolo di natura assai più “strategica”, simbolicamente nel grande raggio d’azione, ma non solo. Tanto che lo stesso comandante in capo della Zhongguó Rénmín Jiefàngjun Kongjun, ossia l’Aeronautica Cinese, ne ha decisamente escluso l’esportazione. Per la precisione, il 4 novembre 2016, il generale Ma Xiaotian ha commentato, dopo aver presenziato allo Zhuhai Air Show: “Sono molto soddisfatto, è una cosa molto buona che il nostro J-20 abbia fatto qui la sua apparizione. Ne stiamo velocizzando lo sviluppo e non stiamo pensando di proporlo sul mercato mondiale”. Il generale Ma conferma quindi che la Cina adotterà per il J-20 quello stesso tipo di “embargo tecnologico” che gli Stati Uniti applicano da tempo sull’F-22. Solo con piloti di Pechino, quindi, il velivolo avrà una vita operativa. Una bella differenza rispetto all’altrettanto nuovo, ma più “spendibile” J-31, di cui non si esclude una futura fornitura a clienti di un certo peso, come il Pakistan. Il governo cinese ha puntato molto anche sulla propaganda per incensare il velivolo e, fra le varie dichiarazioni, si registra anche quella del 17 dicembre 2016 di una esperta di aviazione, Li Li, intervistata dalla solita televisione nazionale CCTV, secondo cui “il J-20 romperà il monopolio americano nel campo dei caccia di quinta generazione e avrà una influenza più significativa delle sue controparti occidentali”.

 

LA PRODUZIONE DI PRE-SERIE

Già è arcinoto che il primo J-20, siglato col numero di matricola 2001, volò per la prima volta l’11 gennaio 2011, pilotato dal collaudatore Li Gang, proprio sulla pista della città di Chengdu, che ospita l’omonima fabbrica aeronautica. Da subito era apparso che il velivolo, lungo 20 metri e con apertura alare di 13 metri, era stato studiato dal gruppo di progettazione guidato dall’ingegner Yang Wei per portare molto carburante interno. Ciò, unito all’enfasi sulle capacità di “supercrociera”, ossia il mantenimento di un’alta velocità supersonica per lunghi periodi, e sull’invisibilità elettromagnetica, ha fatto sì che gli esperti considerassero subito il J-20 come un velivolo che alla sua base ha la filosofia del “colpire lontano e a sorpresa” (o quasi).

Sull’origine progettuale della cellula ci si è sbizzarriti nel notare l’ispirazione al prototipo russo Mig 1.44, costringendo la Mig Mapo a smentire a suo tempo qualsiasi trasferimento di disegni o tecnologie alla Cina. Molto meno è stata però ricordata la somiglianza con alcune opzioni per il progetto americano ATF, l’Advanced Tactical Fighter le cui anticipazioni pittoriche invasero le pagine delle riviste aeronautiche di tutto il mondo verso il 1986-1987. Programma che fece da incubatore al successivo sviluppo, dall’estate 1990, dei due prototipi concorrenti Lockheed Martin YF-22 e Northrop YF-23.

Proprio la configurazione con ala a delta e alette canard nel muso era stata una di quelle più gettonate, specialmente dalla Boeing, negli studi preliminari per l’ATF.in cui, parimenti, il requisito della “supercrociera” doveva essere fra quelli principali, oltre all’invisibilità, o almeno bassa osservabilità, radar.

Ancora oggi è difficile dire quanto i progettisti del gruppo di Yang Wei abbiano messo di loro farina, specie quanto ad apparati interni del velivolo, dato l’alone di segretezza che permane sui dettagli. E’ stato confermato da tempo che la soluzione canard particolare del J-20 è rivolta a incentivare non la maneggevolezza, come ad esempio nell’Eurofighter Typhoon, bensì la stabilità aerodinamica.

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Infatti sono alette assai più grandi che negli altri jet canard, e più vicine all’ala. Inoltre la vista di profilo, evidenziata anche dai filmati dei recenti passaggi sull’Air Show di Zhuhai, conferma che le alette canard aumentano la stabilità sull’asse di imbardata grazie a un marcato diedro positivo, ossia l’inclinazione verso l’alto delle stesse. D’altronde, se si guarda la coda del J-20, le derive verticali gemelle mostrano una superficie piuttosto piccola, in proporzione alla sagoma laterale del velivolo, e appare ancor più chiaro che quei canard siano stati angolati verso l’alto per ottimizzare un compromesso aiutando la stabilità laterale dell’aereo senza essere costretti ad aumentare troppo l’area delle derive.

Comunque i cinesi, partendo da quello che si definisce spesso “vantaggio dell’arretratezza” si starebbero giovando di tempi di sviluppo relativamente più brevi, avendo almeno in parte potuto evitare la fase di sviluppo di concetti e tecnologie che negli USA e in genere nei paesi occidentali erano azzardate novità trent’anni fa.

Al primissimo prototipo ne sono seguiti almeno altri tre (ma si dice anche quattro), che hanno avuto il battesimo dell’aria fra il 2012 e il 2014, siglati coi numeri di matricola 2002, 2011 e 2017. In varie fotografie diffuse dai cinesi, alcuni J-20 hanno mostrato anche altri numeri di serie, come 2013 e 2015, ma è probabile che si tratti di un’opera di inganno per far credere di avere a disposizione più esemplari semplicemente riverniciando di tanto in tanto i numeri. Inoltre spesso si sostiene che già gli esemplari n.2011 e n.2017, completati entro il dicembre 2014, fossero definibili di “pre-produzione”.

In realtà si trattava ancora di prototipi che introducevano, rispetto ai primissimi due esemplari, alcune modifiche come l’installazione di una piccola torretta per sensori infrarossi e/o laser sotto il muso, nonché aggiustamenti nei timoni e migliori sagomature a cuspide nei profili delle prese d’aria dei turbogetti e dei portelli per le stive interne dei missili e delle bombe.

Stando a quanto dichiarato dai cinesi stessi, il vero regime di pre-produzione, quello che in inglese è definito LRIP, da Low Rate Initial Production, o Produzione Iniziale a Basso Ritmo, è iniziato all’incirca un anno dopo. Nel dicembre 2015 è stato per la prima volta segnalato un nuovo Chengdu J-20, con numero di matricola 2101, che poi ha effettuato il suo primo volo il 18 gennaio 2016. Alcuni mesi dopo, il 23 luglio 2016, è stata resa nota l’esistenza di almeno un secondo esemplare di pre-produzione, già impegnato in assidui test, ma di cui tuttavia non si conosce il numero di matricola. Lo scorso 28 ottobre il portavoce dell’Aeronautica Cinese Shen Jinke ha dato per ormai programmati “la produzione e il prossimo dispiegamento del J-20, che salvaguarderà la nostra sovranità e la sicurezza nazionale”. Tuttora non c’è accordo sulla quantità di Chengdu J-20 effettivamente completati. Alla peggio si parla di un numero di unità fra sei e otto, compresi però i primi due prototipi. L’Aeronautica Cinese ha confermato che si aspetta di avere un totale di ben 36 esemplari operativi, ossia due o tre squadriglie, nel corso del 2018. Ma già qualcuno di essi sarebbe stato dispiegato sperimentalmente pochi mesi fa per “misurarne” la flessibilità logistica e operativa. E anche per lanciare ammonimenti politici.

 

UN FANTASMA IN TIBET

Appena un paio di mesi prima che fosse mostrato a Zhuhai, il J-20 era stato protagonista di un misterioso avvistamento che pare avere tutti i contorni dell’operazione mediatica per simulare un segreto svelato, creando ad arte un preciso messaggio indiretto. Il 2 settembre 2016 rimbalzò, a partire dai social network cinesi, la notizia ufficiosa che riportava la presenza di uno dei prototipi nel Tibet Orientale, sulla pista dell’aeroporto di Daocheng Yading, un grande aeroporto civile di montagna, situato a un’altitudine di circa 4400 metri e definito perciò “il più alto del mondo”.

Non è lontano dalla frontiera con l’India, per la precisione con lo stato dell’Arunachal Pradesh, seppure ricada sotto la provincia del Sichuan e non sotto la “provincia autonoma” dello Xizang Zizhiqu comprendente la maggior parte del Tibet storico. Un comune “utente” del social network cinese Weibo per primo postò su internet due fotografie che mostravano quello che sembrava proprio un Chengdu J-20 parcheggiato sulla umida pista tibetana, sotto un cielo nuvoloso e con le remote creste dell’Himalaya sullo sfondo. Il velivolo era maldestramente nascosto da un’enorme telone mimetico che ne ricopriva quasi tutta la fusoliera, lasciando però la coda a far capolino con gli inconfondibili piccoli timoni gemelli.

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In assenza, almeno agli inizi, di dichiarazioni ufficiali sul dispiegamento del nuovo caccia in Tibet, il tam-tam sul web si gonfiò in breve tempo, proprio nelle stesse ore in cui da Pechino si diffondevano dichiarazioni di ammonimento verso l’India, che nei giorni precedenti aveva dislocato sui confini himalayani alcuni missili supersonici Brahmos, insidiose armi che sfrecciano a Mach 3 a bassa quota. Diceva il dispaccio del governo cinese: “Speriamo che la controparte indiana faccia di più per la pace e la stabilità nella regione, piuttosto che il contrario”. Inoltre, appena un paio di giorni dopo, fra il 4 e il 5 settembre, lo stesso primo ministro indiano Narendra Modi visitava la Cina nell’ambito del vertice del G-20 ad Hangzhou, parlando col presidente Xi Jinping della stabilità regionale.

Da più parti si sospetta che la Cina abbia lasciato avvistare un J-20 all’aeroporto di Daocheng Yading, senza ammetterlo ufficialmente, per “fabbricare” il caso di test operativi segreti come segnale politico all’India, come rilevò fin dal 7 settembre il già citato esperto Kashin: “E’ possibile che la Cina abbia specificatamente organizzato l’uscita delle foto su internet, ma il collaudo del jet alle grandi altitudini sarebbe stato condotto in ogni caso”. La nota vicinanza del governo di Pechino a gran parte degli hacker informatici presenti in Cina avvalora che la campagna su Weibo per “rivelare” la presenza del nuovo caccia in Tibet sia stata deliberatamente orchestrata. Tanto che il 9 settembre l’Aeronautica Cinese pubblicò una smentita ufficiale che è in palese contrasto con l’esistenza delle fotografie, quasi fossero da considerarsi come evanescenti impronte di un fantasma: “Il più alto aeroporto del mondo non dispone di infrastrutture complete e tale carenza impedirebbe l’attività del J-20. Il J-20 non sarà dislocato a Daocheng Yading poiché l’aeroporto è troppo vicino alla frontiera ed è vulnerabile a una prima ondata d’attacco dall’India. Se gli indiani metteranno i missili Brahmos sul confine, allora il suddetto aeroporto diventerà un loro bersaglio”.

Naturalmente esiste anche la possibilità che il velivolo coperto dal telone non fosse altro che un “fantoccio”, una sagoma per far filtrare al resto del mondo, camuffandola da “segreto di Pulcinella”, la possibilità che il nuovo caccia possa operare anche in quelle regioni. E’ però più probabile che lo stiano davvero collaudando in condizioni così estreme. Del resto l’aeroporto in questione è abbastanza nuovo, inaugurato nel settembre 2013, e la sua pista enorme, lunga 4200 metri di saldo cemento, pare adatta a tutta la gamma dei velivoli civili o militari in uso ai cinesi, compresi i bombardieri pesanti Xian H-6K. Le vaste estensioni continentali della Cina Occidentale, sia il Tibet, sia lo Xinjiang, offrono del resto un’arena così vasta e nel contempo così poco popolosa e accessibile agli stranieri da potervi sperimentare agevolmente il J-20 anche in termini di voli di lunga durata.

Per esempio, decollando da Daocheng Yading e dirigendosi verso Nord-Nordovest, un prototipo potrebbe volare per 1500-2000 chilometri senza dare troppo nell’occhio e spingersi fin sopra i deserti del Taklamakan o del Gobi, se non sopra le zone più disabitate dell’altopiano tibetano, perfezionando così la capacità di effettuare lunghi voli di pattuglia prima di venire dispiegato sulle basi costiere e insulari, dove troppo precoci collaudi nei cieli di aree marittime affollate da navi e aerei stranieri lo esporrebbe a occhi indiscreti. Senza contare che i test sopra un territorio accidentato al massimo grado, con le alture del “tetto del mondo”, sarebbero una palestra ideale anche in termini di affinamento del radar di bordo e del puntamento delle armi.

Piloti che prendessero confidenza con la nuova macchina in tali ardue condizioni ambientali troverebbero poi assai più semplice, in un secondo tempo, ritrovarsi sopra le piatte superfici dell’oceano, secondo un principio che pare ricordare alla lontana quegli allenamenti di kung fu, o discipline similari, che impongono ingombranti pesi alle caviglie dei volenterosi allievi, perché poi, una volta liberatisi da essi, vedano accresciuta la forza delle gambe, e in special modo l’elevazione nel salto.

 

MOTORI CERCANSI

E’ ormai assodato che il Chengdu J-20 è un multiruolo a grande autonomia, un caccia “strategico” la cui dotazione interna di carburante viene stimata in oltre 11.000 kg, che dovrebbero assicurargli un raggio di combattimento che le fonti prevalenti giudicano oggi in circa 2.000 chilometri, contro i 1200 di cui era accreditato un paio d’anni fa. Raggio aumentabile probabilmente con rifornimento in volo e con serbatoi ausiliari da “consumare” e sganciare almeno nelle fasi iniziali della missione, prima di inoltrarsi nell’area sottoposta alla sorveglianza radar nemica, dato che spezzerebbero la sagoma “stealth” del velivolo.

Nelle sue tre stive armamenti, una più grande per missili aria-aria a lungo raggio o missili guidati aria-terra, due più piccole per aria-aria a breve raggio, può trovar sede un notevole carico, pur non dichiarato in termini di peso. Le rare immagini ventrali del J-20, con la stiva principale aperta, mostrano fino a cinque missili aria-aria a lungo raggio PL-12, comodamente alloggiati all’interno. Ciascuno è lungo quasi 4 metri e pesa 200 kg e c’è ragione di credere che gli ingegneri cinesi abbiano adattato la stiva a portare anche armamenti d’attacco al suolo, o antinave, purché appunto di lunghezza non superiore a 4 metri.

Poco si sa ancora delle dotazioni avionica, se non che il sistema di ingaggio bersagli all’infrarosso EORD-31, un IRST svelato al Salone aeronautico MAKS tenutasi a Mosca nell’agosto 2015, viene dichiarato in grado di rilevare anche velivoli stealth, ma non si sa fino a che punto, integrando l’opera del nuovo, e sconosciuto, radar indigeno KLJ-5 a lungo raggio di tipo AESA (ossia Active Electronically Scanned Array, che, riassumendo in parole povere, permette ai singoli moduli dell’antenna di emettere una gamma di frequenze molto diversificata per una migliore definizione dei bersagli).

Rispetto al 2015 non si sono per ora rinnovate le voci su una possibile versione biposto, vagheggiata come J-20S e forse per ora limitata a uno studio di fattibilità. Che si tratti comunque di un “caccia”, in senso lato, cioè con equilibrate capacità fra aria-aria e aria-terra lo dimostrerebbe la permanenza della dicitura operativa J-20, laddove la J sta per Jianjiji, ossia “caccia” in cinese (come la F per Fighter negli USA), altrimenti i cinesi l’avrebbero modificata in JH, Jianjiji-Hongzaji, ossia “caccia-bombardiere” quando non con la categoria Q, da Qjang, ossia “attacco”.

Se davvero nel 2018, o magari anche entro fine 2017, una squadriglia di questi caccia, o cacciabombardieri che dir si voglia, fosse già dislocata in permanenza sulla principale pista (lo spazio c’è, 3200 metri di lunghezza) costruita dai cinesi nel conteso arcipelago delle Spratly, sull’atollo di Fiery Cross, potrebbe minacciare tutto il traffico aereo e navale in transito dalla regione che costituisce la principale saldatura fra l’Oceano Indiano e l’Oceano Pacifico, specie le enormi petroliere che dagli stretti della Malacca, della Sonda e dal Mare di Timor volgono poi verso Nord per rifornire gli assetati Giappone e Corea del Sud.

Viste le recenti “giravolte” del nuovo presidente filippino Rodrigo Duterte, verrebbe perfino da chiedersi se in anni futuri, ammesso che un graduale ricollocamento delle Filippine nella sfera di influenza russo-cinese avvenisse in modo indolore, il J-20 potesse ritrovarsi di base in quell’arcipelago cattolico. In quel caso potrebbe spingersi sicuramente fino a Guam, se non fino alle Marshall. Quanto il J-20 contribuirebbe direttamente agli attacchi contro obbiettivi terrestri o marini, portando esternamente missili antinave che però comprometterebbero l’invisibilità e quanto invece potrebbe costituire una efficace scorta ai velivoli da bombardamento dell’effettiva forza di attacco aria-superficie sarà da qui ai prossimi due anni uno dei temi principali di dibattito.

Un’ipotesi potrebbe essere l’impiego dei grossi e vulnerabili bombardieri Xian H-6K come portamissili, con obbiettivo il naviglio nemico e magari proprio le portaerei americane, preceduti però da un possente schermo avanzato di Chengdu J-20 che avrebbe il compito di ingaggiare da debita distanza i caccia americani, o comunque avversari, per cercare di spazzarli via, o almeno stornarli dalla rotta dei bombardieri.

Tutto ciò sarà possibile però solo se il J-20, al di là della messa a punto dei suoi sistemi di bordo, potrà contare su motori efficienti in grado di garantirgli la agognata “supercrociera” di oltre 1500 km/h, almeno superiore a Mach 1,4. La squadra di Yang Wei ha progettato l’aereo avendo come obbiettivo ottimale la sua motorizzazione con due esemplari della nuova turboventola che l’industria cinese Shenyang sta sviluppando da una decina d’anni, ma che non è ancora messa a punto. Il citato annuncio del 13 marzo 2017 dice che il lavoro su questo motore nazionale procede bene, ma dettagli più precisi non se ne hanno. Si sa che l’apparato si chiama Wo Shan WS-15, che ha un compressore a nove stadi, di cui tre a bassa pressione e sei ad alta pressione.

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La potenza che si vuole arrivare a spremere dal WS-15 per dotarne il J-20 è valutata in 20.000 kg di spinta, ma le prove al banco finora sono arrivate a 16.000 kg. Motivo per cui non solo per i primi prototipi, ma anche per gli esemplari di serie iniziali, è stato deciso di ricorrere ai motori russi NPO Saturn AL-31, con 15.000 kg, leggermente meno che il WS-15 ancora in fase parziale di sviluppo, ma con l’incomparabile vantaggio dell’affidabilità e dell’efficienza garantite da un meccanismo già maturo.

Perciò i cinesi intendono usare la turboventola russa come fonte di ispirazione per le migliorie da adottare al loro motore nazionale. Poiché comunque la Russia non avrebbe commerciato i motori singolarmente, senza cellule abbinate, si pensa che la nuova partita di ben 24 caccia Sukhoi Su-35 servirà in parte anche per fornire una quantità di motori da riutilizzare sia per i primi J-20 operativi, sia per accelerare lo sviluppo tecnico del WS-15. Il contratto per la fornitura dei Su-35 fu firmato già nel 2015, per un totale di 2 miliardi di dollari. Il 23 novembre 2016 la filiale di Krasnoyarsk della Sukhoi, la KnAAPO, confermò la consegna ai cinesi dei primi quattro Su-35 “entro la fine del 2016”.

E in effetti la stampa cinese, per la precisione il China Daily, ha scritto il 10 gennaio 2017 che già il 25 dicembre arrivarono in Cina questi primi quattro velivoli, accompagnati da un Ilyushin Il-76 cargo che da Komsomolsk-na-Amure, sede di un impianto della Sukhoi, volò fino alla base cinese di Suixi, portando nella stiva probabilmente pezzi di ricambio e altra attrezzatura legata ai Su-35.

In particolare, i motori russi saranno importanti perché incorporano ugelli orientabili a spinta vettoriale, soluzione di cui sicuramente gli ingegneri della Shenyang studieranno una eventuale adattabilità al WS-15. Il punto fondamentale perché il J-20 possa davvero diventare un velivolo temibile sarà l’acquisizione di una capacità di supercrociera senza l’uso dei postbruciatori in modo da non sprecare troppo carburante e da non lasciare una traccia infrarossa che comprometterebbe la sua, presunta, bassissima osservabilità. Si dibatte se il Su-35 già disponga di questa capacità, il che ne farebbe ulteriormente una “scuola preparatoria” al J-20.

 

PROIEZIONE LONTANA

Occorrerà qualche anno prima che il Chengdu J-20 faccia valere il suo peso sulla bilancia strategica regionale dell’Asia e del Pacifico. Se davvero in questa primavera 2017 i primi esemplari sono già definiti “operativi” e se già nel 2018 ce ne saranno 36 schierati, pur ancora coi transitori motori russi, il ritmo produttivo si preannuncia celere e potrebbero superare il centinaio già al 2020 o 2022.

Ma l’enfasi sulla capacità di tale aereo di colpire, e pattugliare, lontano dalle coste e dalle frontiere cinesi costituirà la conferma della rivoluzione in atto nel Celeste Impero, ormai deciso a proiettarsi all’esterno in controtendenza rispetto a tutta la sua storia passata. In tremila anni di civiltà cinese come noi la intendiamo, l’impero delle antiche dinastie è sempre stato ripiegato su sé stesso, relativamente isolato dal mondo. Solo in poche occasioni i cinesi si avventurarono lontano dalle loro frontiere. Per esempio nel 97 dopo Cristo, quando le truppe del generale Ban Chao marciarono verso Ovest fino al Mar Caspio, il punto più occidentale mai raggiunto da fanterie cinesi, facendo dietrofront quando mancavano loro forse poche settimane di cammino per avvistare i primi avamposti romani sul Mar Nero. Oppure fra il 1405 e il 1433, quando il famoso ammiraglio Zheng He guidò ben sette spedizioni navali di massa nell’Oceano Indiano, con una flotta di enormi giunche a nove alberi, prima che i ministri della dinastia Ming decidessero di tagliare queste comunicazioni globali per motivi di costi e di equilibrio sociale interno.

Ma nel mondo globalizzato di oggi, con le brevissime distanze assicurate dall’aviazione e dalle telecomunicazioni, la Cina ha sempre più esteso la sua sfera d’interesse man mano che le sue fabbriche diventavano centrali per il sistema produttivo mondiale, richiedendo sempre più importazioni di risorse energetiche e materie prime e intravedendo sempre più la possibilità di poter difendere i propri interessi strategici teoricamente in ogni angolo del mondo, seguendo in questo la via già tracciata a suo tempo dagli Stati Uniti d’America.

Il J-20, in particolare, sarà il contraltare da caccia di un progetto ambizioso, ancora sulla carta, per un bombardiere a lungo raggio destinato a sostituire gli obsolescenti Xian H-6K. Lo scorso 2 settembre il generale Ma Xiaotian lanciò il sasso nello stagno: “Stiamo sviluppando un bombardiere a lungo raggio di nuova generazione e lo vedrete in futuro”. Senza aggiungere nulla, anche se si può intuire che sui tavoli da disegno si stia già cercando di integrare tecnologie simili a quelle dell’americano Northrop B-2 Spirit per ottenere un velivolo poco vulnerabile e dal raggio d’azione fenomenale, almeno in grado di arrivare fino alle Hawaii.

E’ significativo che accanto al J-20 a Zhuhai si fosse mostrato anche un altro velivolo cinese a grandissima autonomia, lo Xian Y-20, dove la Y sta per Yunshuji, o “aereo da trasporto”. Questo trasporto strategico, il primo schierato operativamente dalla Cina di capacità paragonabili ai velivoli occidentali come il Boeing C-17 americano, volò come prototipo il 26 gennaio 2013 e all’inizio del 2016 ne risultavano attivi otto esemplari, fra i prototipi e le prime unità operative. Per la precisione, il primo Y-20 ufficialmente entrato in servizio è l’esemplare matricola 11051 che il 6 luglio 2016 venne consegnato al 12° Reggimento della 4a Divisione Trasporti dell’aeronautica di base a Qionglai, vicino Chengdu.

Y-20

Il quadrigetto, con un peso massimo al decollo di 220 tonnellate ha una capacità di carico di 66 tonnellate, ossia abbastanza per imbarcare comodamente un esemplare del più pesante carro da battaglia cinese odierno, lo ZTZ-99, che si aggira sulle 54 tonnellate. In alternativa a materiali o mezzi, ogni velivolo può portare qualche centinaio di soldati equipaggiati. Ciò che più conta, per questa trattazione, è che l’autonomia con carico massimo è di 4500 km, aumentabile fino a oltre 7800 km, se non di più, con carichi via via ridotti. Può quindi raggiungere, decollando dalla Cina, vaste aree del globo, anche l’Europa e l’Australia, come l’Alaska e il Nord Africa, trasportandovi potenziali forze d’invasione.

Nel 2014, quando il prototipo del cargo aveva appena volato, l’aviazione cinese valutava di costruire la cifra già eccezionale di 400 Y-20, molto superiore, per esempio, ai 223 C-17 in servizio attualmente nell’US Air Force. Poi, nel giugno 2016, Zhu Qian, capo dell’Ufficio Sviluppo Grandi Aeroplani, dichiarava a Jane’s che “saranno necessari circa 1000 esemplari di Y-20”. Mille velivoli di questo tipo significano, almeno in linea teorica, la prossima capacità cinese, acquisibile nell’arco di non molti anni, di trasportare migliaia di chilometri oltre i propri confini una quantità di soldati pari a interi corpi d’armata.

Se anche solo metà di una simile flotta da trasporto aereo strategico venisse utilizzata in una grossa campagna, e tenendo conto che alcuni velivoli trasporterebbero fanteria, altri avrebbero a bordo carri armati, artiglieria e salmerie, si può pensare che nel 2020 o 2025 la Cina potrebbe essere in grado di spedire lontano, in un arco fra 24 e 48 ore dall’ordine di mobilitazione, un numero di soldati compreso fra 50.000 e 100.000, muniti di almeno un centinaio di carri armati più vari altri mezzi.

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Non è difficile immaginare che nel contesto di una simile ipotetica operazione, volta per esempio a occupare nazioni insulari del Pacifico in un ambito di guerra estesa, formazioni di caccia Chengdu J-20, proprio in virtù della loro autonomia, potrebbero fornire una adeguata scorta ai vulnerabili Y-20, magari con squadriglie scaglionate fra una prima ondata che precederebbe i trasporti sopprimendo le difese aeree nemiche, specie i radar e i missili terra-aria, e una seconda unità più a contatto dei cargo per coprirli da caccia nemici intervenuti in un secondo tempo. Per dipiù la ventilata ipotesi che parte degli stessi Y-20 potrebbero agire da aerocisterne, consentirebbe di rifornire in volo i caccia Chengdu permettendo loro di accompagnare questa vera flotta d’invasione aerea per tratte molto più lunghe del consueto.

Di più, il J-20 potrebbe a sua volta agire come intercettore contro velivoli vulnerabili, incapaci di difendersi da soli senza scorta, ma basilari per l’apparato aereo americano in Asia, come le cisterne volanti e gli aerei radar AWACS. Lo ha fatto notare acutamente l’esperto australiano Malcolm Davis, che il 24 gennaio 2017 ha dichiarato a “Business Insider”: “I cinesi si stanno rendendo conto che possono attaccare sistemi aviotrasportati critici come gli AWACS e i rifornitori in volo, cosìcché non possano svolgere il loro lavoro. Se tu scacci le aerocisterne, allora gli F-35 e gli altri apparecchi non sono sufficienti perché non possono raggiungere il loro obbiettivo”.

Ciò a ulteriore dimostrazione di come il J-20, lungi dall’essere un esercizio di orgoglio tecnologico fine a sé stesso, si incastri invece benissimo a livello sistemico nella coerente strategia cinese dell’oggi e del domani. E data la mole delle industrie sviluppate in Cina per una massiccia produzione di beni di consumo, probabilmente per la maggior parte convertibili velocemente a scopo bellico, è possibile che l’incremento di una presenza militare cinese, sia essa aerea, navale o terrestre, nelle zone più disparate del globo, forse anche ai confini dell’Europa, si concretizzi anche più in fretta del previsto.

Foto: PLA, Xinhua, Chengdu e Web

Nato nel 1974 in Brianza, giornalista e saggista di storia aeronautica e militare, è laureato in Scienze Politiche all'Università Statale di Milano e collabora col quotidiano “Libero” e con varie riviste. Per le edizioni Odoya ha scritto nel 2012 “L'aviazione italiana 1940-1945”, primo di vari libri. Sempre per Odoya: “Un secolo di battaglie aeree”, “Storia dei grandi esploratori”, “Le ali di Icaro” e “Dossier Caporetto”. Per Greco e Greco: “Furia celtica”. Nel 2018, ecco per Newton Compton la sua enciclopedica “Storia dei servizi segreti”, su intelligence e spie dall’antichità fino a oggi.

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