La missione in Niger tra Roe, caveat e “non combat”
Questo mio intervento non intende compiere un’ulteriore analisi della tanto pubblicizzata missione italiana in Niger, ampiamente approfondita in modo chiaro e pertinente da conoscitori della situazione ben più validi, ai quali si sono uniti ovviamente tanti esperti da “Bar Sport”, come sempre avviene in occasione delle competizioni di calcio della nostra nazionale, quando tutti gli Italiani si sentono allenatori.
Intendo, invece, soffermarmi su alcuni aspetti che caratterizzano normalmente ogni operazione all’esterno del territorio nazionale, quali le Regole d’Ingaggio e caveat, la natura combat/non combat della missione e l’applicazione del Decreto Legislativo 81/2008 in operazioni.
Le Regole d’Ingaggio (ROE) sono “direttive provenienti da un’autorità militare competente che precisano le circostanze e i limiti entro i quali le forze possono iniziare e/o proseguire un combattimento” (NATO AAP6). In sostanza definiscono le modalità dell’uso della forza per assolvere il compito.
Sono concordate tra le nazioni, su proposta della lead nation o dell’organizzazione internazionale/regionale designata (es., ONU/NATO/UE) che prendono parte a una missione multinazionale e sono uguali per tutti i contingenti.
Ciò per evitare che militari dei vari contingenti abbiano reazioni differenti in presenza dello stesso rischio/minaccia o abbiano una diversa disciplina dell’uso della forza necessaria per il perseguimento degli obiettivi operativi.
Discorso diverso riguarda i caveat. Questi sono “vincoli stabiliti da una nazione nella condotta di operazioni in un contesto multinazionale che non consentono al proprio contingente di agire completamente in linea con il piano di operazioni approvato” (NATO APP6). I caveat, che discendono da vincoli di natura costituzionale o da una specifica volontà politica nazionale, devono essere comunicati prima dell’immissione delle forze in teatro alla lead nation, che cosi potrà assegnare compiti compatibili con tali limiti.
I caveat sono poco conosciuti dai non “addetti a lavori” ma sono presenti in ogni missione e possono condizionare le capacità esprimibili da un contingente e la relativa immagine nel contesto della coalizione. Ad esempio, in Afghanistan, nazioni europee di primo piano avevano decine di caveat che, di fatto, spesso confinavano le loro consistenti forze all’interno delle basi.
Riguardano – di norma – restrizioni nell’intervento degli assetti sul terreno, come limitazioni per il volo notturno degli elicotteri, anche per esigenze di evacuazione sanitaria urgente (MEDEVAC), utilizzo dei velivoli per sole missioni di ricognizione aerea senza poter utilizzare le armi di bordo, oppure divieto nell’impiego dei soldati in interventi di ordine pubblico o la proibizione di entrare in centri abitati con i mezzi militari.
Quanto alla pubblica enunciazione non combat di una missione, essa si presta a diverse considerazioni. Prima di tutto, si evidenzia un argomento di natura squisitamente logica: affinché una missione possa definirsi “non combat” occorrerebbe quantomeno che a dichiararlo si sia in due: i “buoni” (ovvero noi) e i “cattivi” (ovvero l’avversario).
Dato per scontato che l’Italia non è mai scesa a patti con gli avversari per ragioni di serietà istituzionale, cultura e dignità di nazione, ritengo che l’attuale definizione sia limitativa solo per i nostri uomini/donne (e per la loro sicurezza), specie in contesti come il Niger e paesi limitrofi, caratterizzati dalla presenza di numerose formazioni di criminali/terroristi che non hanno scrupoli nel colpire in tutti i modi (civili compresi) chiunque ostacoli i propri redditizi traffici/interessi.
Qualora un nostro convoglio in fase di trasferimento logistico subisse un attacco, come si dovrebbero comportare i nostri soldati? Limitarsi a una reazione di self-defence senza tentare di manovrare per neutralizzare la minaccia (nel caso non possano proseguire il movimento), rimanendo quindi sotto il fuoco nemico sino all’arrivo in supporto di assetti di altri contingenti che non sono classificati non combat?
Inoltre in scenari africani e asiatici risulta difficile alle popolazioni locali, specie per quelle dei centri rurali, distinguere (per fattori contingenti legati alla mancata conoscenza di certi dettagli “tecnici”) un militare straniero da un altro e soprattutto capire o in qualche modo percepire la differenza tra un soldato combat e uno non combat.
Ai loro occhi, i soldati sembrano tutti uguali, con la stessa uniforme da combattimento maculata, equipaggiati in modo assai simile (elmetto, combat jacket, ecc.), talvolta “infedeli”, che parlano una lingua completamente diversa. Questo si è verificato in passato sia in Somalia sia in Afghanistan: mi è capitato di arrivare in un villaggio afghano e sentirmi chiedere dagli anziani se eravamo ritornati….ci aveva scambiati per Russi.
La dichiarazione non combat della missione, peraltro, potrebbe anche ingenerare nei militari la convinzione, com’è avvenuto purtroppo in passato, di operare in condizioni di sicurezza e con rischi minimi, in tal modo abbassando il conseguente livello di attenzione e sfumando quella giusta tensione, necessaria per il corretto ed efficace svolgimento delle operazioni.
Sarebbe stato forse preferibile non enfatizzare eccessivamente tale aspetto (forse motivi elettorali hanno indotto a farlo?) e configurare la natura della missione mediante una calibrata combinazione ROE–caveat, fornendo chiare direttive ai comandanti sul terreno, spesso difficilmente orientati tra disposizioni formali, impregnate di politichese, e concrete esigenze operative sul campo!
Un cenno, infine, al Decreto Legislativo 81/2008. Di esso si è detto in più circostanze che si tratta della legge che ha sostituito la “vecchia” 626, sinonimo di sicurezza sui luoghi di lavoro. Per rendere chiaro ai più di cosa si tratta, basti rammentare che fu la legge che rese più moderna la sicurezza sul lavoro in Italia: fu introdotta per recepire tutte le normative europee per ciò che riguarda la salute e la sicurezza dei lavoratori.
Con esso il datore di lavoro divenne responsabile del processo di miglioramento della sicurezza del luogo di lavoro e fu via via obbligato a redigere documenti di varia tipologia.
È d’intuitiva evidenza che nelle operazioni militari, a prescindere dalla qualificazione che si voglia fare delle medesime (combat o meno), ben difficilmente si potrà ipotizzare un documento ad hoc, che esuli e si aggiunga alla valutazione del rischio operativo fatta a priori in sede di pianificazione della missione stessa.
Adesso se ne parla in termini di garanzie per il “lavoratore soldato”, solo che si rischia di commettere un errore a mio giudizio grave: se noi si pensasse di mutuare tutto il complesso delle norme contenute nel D.Lgs. 81/2008 si porrebbe un (ulteriore) gravame sul comandante di un qualsiasi contingente.
Ben inteso, finché si tratta di casi gravi e fondati, quali la prevenzione dalle radiazioni ionizzanti (es. uranio impoverito e/o altri materiali radioattivi/tossici) è chiaro che ciascun comandante deve garantire non solo (e soprattutto) l’incolumità fisica dell’uomo/donna soldato, ma anche l’efficienza dello strumento militare che egli/ella incarna.
Non sarebbe infatti in grado, altrimenti, di conseguire il benché minimo risultato operativo. Se invece si intendesse recepire pedissequamente tutto il pacchetto delle norme predisposte per le “normali situazioni di lavoro”, senza tener conto della specificità militare e del contesto in cui si è chiamati ad agire, si rischierebbe di rendere inutile ab origine qualsiasi velleità operativa, sia essa combat che non combat, imbrigliando il comandante in pastoie burocratiche dalle quali è assai difficile districarsi.
Forse a qualcuno sfugge che le aree d’intervento delle attuali missioni non sono proprio dei “paradisi terrestri” in termini di condizioni ambientali; se così fosse non andrebbero impiegati i soldati ma altre categorie di personale.
Riuscite a immaginare un advanced party immesso inizialmente in un teatro per predisporre le basi dove di lì a poco dovrà affluire il grosso del contingente seguire alla lettera i dettami del Decreto Legislativo 81 e predisporre la relativa documentazione in uno scenario desertico o comunque impervio e difficile o in una regione degradata da anni di combattimenti?
Dopo quanti mesi (e a quale ulteriore sforzo economico/operativo/logistico) si potrebbe essere certi di aver conseguito la Full Operational Capability, garantendo nel contempo l’ossequio ai dettami del D.lgs. 81 e la coscienza dei benpensanti?
Foto: Esercito Italiano e Difesa.it (contingenti italiani in Afghanistan e Iraq)
Giorgio BattistiVedi tutti gli articoli
Generale di Corpo d'Armata (Aus.), Ufficiale di Artiglieria da Montagna, ha espletato incarichi di comando nelle Brigate Alpine Taurinense, Tridentina e Julia ed ha ricoperto diversi incarichi allo Stato Maggiore dell'Esercito. Ha comandato il Corpo d'Armata Italiano di Reazione Rapida della NATO (NRDC-ITA), l'Ispettorato delle Infrastrutture e il Comando per la Formazione, Specializzazione e Dottrina dell'Esercito. Ha partecipato alle operazioni in Somalia (1993), in Bosnia (1997) e in Afghanistan per quattro turni. Ha terminato il servizio attivo nell'ottobre 2016.