Guerra afghana: le valutazioni del generale Marco Bertolini
Quattro stragi compiute in rapida successione in Afghanistan da Talebani e Stato Islamico in una settimana, tre a Kabul e una a Jalalabad, hanno evidenziato la forza dei gruppi jihadisti, la volontà di mietere più vittime possibile per screditare il già debole governo ma forse anche la volontà del Pakistan di vendicare la decisione con cui Donald Trump l’ha accusato di sostenere il terrorismo bloccando 2 miliardi di dollari di aiuti militari
Il generale di corpo d’armata Marco Bertolini (foto sotto), presidente dell’Ass.Naz. Paracadutisti d’Italia, in congedo dal luglio 2016 dopo una intensa carriera operativa culminata con la guida del Comando operativo interforze che gestisce le operazioni italiane oltremare, è uno dei militari più titolati a commentare la situazione in Afghanistan dove ha prestato servizio più volte con incarichi sul terreno e al vertice delle forze Nato.
Come interpreta la recente recrudescenza degli attacchi terroristici a Kabul e Jalalabad?
Pare proprio che Talebani ed ISIS si siano mesi d’accordo per dimostrare, con i fatti, che l’obiettivo che si era riproposto pubblicamente il Comandante dell’operazione NATO di sconfiggere il terrorismo per il 2017 è fallito.
Stanno comunicando, con i loro messaggi sanguinosi, che sono in grado di colpire anche nella Capitale, nell’Area Verde come all’Hotel Intercontinental, all’Ambasciata tedesca come all’Accademia afghana in cui operano molti istruttori occidentali.
Con l’attacco alla sede di Save the Children a Jalalabad, come in precedenza con quello alla caserma di Mazar El Sharif costata l’incarico al Ministro della Difesa ed al Capo di Stato Maggiore, dimostrano inoltre di essere attivi e pericolosi anche nel resto del territorio, con l’effetto subordinato ma non troppo di spingere le organizzazioni non governative occidentali a ritirarsi dal paese. Vogliono farci paura, insomma, e ci riescono molto bene.
Talebani e Stato Islamico afghano sono rivali ma combattono gli stessi nemici e hanno entrambi le retrovie nell’Area Tribale pakistana. Ritiene possibile che in futuro possano allearsi come sembra stia accadendo per IS e al-Qaeda nel Sahel?
L’Afghanistan da almeno un paio d’anni sta vivendo una fase che vede le due entità in competizione per ritagliarsi o per mantenere il proprio spazio di manovra. Ma non si tratta di un modello nuovo se pensiamo alla “coabitazione operativa” di Talebani ed Al Qaida di circa vent’anni fa.
Oggi, Talebani e Stato Islamico vivono fasi alterne di scontro e di cooperazione e sono spesso venuti ai ferri corti con combattimenti sanguinosi tra di loro per il controllo di varie aree del territorio. Ma è anche vero quello che dice lei: di fatto sono entrambi nemici del Governo locale (il GIRoA) e delle forze NATO che lo supportano, tra cui un contingente italiano ad Herat. Non c’è quindi dubbio che sono destinati a cooperare, a meno che i Talebani giungano prima o poi ad un accordo col Governo, a parole auspicato dal Presidente Ghani stesso.
In generale, possiamo osservare che Al Qaida, in Afghanistan come nel Sahel e in Siria, è per lo più una realtà di importazione che deve prima imporsi con la forza in un ruolo evidente e funzionale alla sua campagna globale, per poi trovare spazi di cooperazione con i locali contro il principale nemico comune. Dopo le frizioni dell’anno scorso, in questi ultimi mesi in Afghanistan assistiamo sempre più ad una specie di spartizione di compiti tra queste due realtà, entrambe impegnate a colpire obiettivi istituzionali ma non solo. Quello che è certo è che la popolazione e l’Esercito Afghano stanno pagando un prezzo molto alto.
Le difficoltà del governo afghane sono dovute più a debolezza politica o a carenze militari ?
Ritengo che il problema principale sia di carattere politico. Una presenza statunitense e NATO da circa 18 anni ha fatto dell’Afghanistan un paese a sovranità molto limitata, in forte dipendenza dal supporto militare esterno e per di più incapace di elaborare una propria strategia di normalizzazione che non tenga conto degli interessi statunitensi.
E per gli USA una presenza significativa in Afghanistan, giustificata anche dalla debolezza del paese, è fondamentale per controllare un’area molto importante per i propri interessi strategici, tra Iran, India/Pakistan, Cina ed ex repubbliche sovietiche asiatiche.
C’è poi una criticità più prettamente militare, dovuta alla volontà sempre confermata dalla NATO di limitare la crescita dell’Esercito Afghano a capacità soprattutto difensive e senza una componente pesante ed aerea adeguata, anche per corrispondere ai timori pakistani, poco propensi ad un Afghanistan effettivamente indipendente. Insomma, gli Afghani sanno essere soldati valorosi, espressione di un popolo molto forte, ma da un punto di vista militare sono condannati a vivacchiare.
Quanto pesa oggi il ruolo delle limitate Forze USA/NATO a sostegno di Kabul?
Bisogna distinguere tra il ruolo delle forze US e quelle NATO. Gli USA, infatti, continuano ad operare anche a livello prettamente nazionale, con un ruolo decisamente proattivo nell’Afghanistan orientale e nella fascia tribale pakistana, come dimostrato emblematicamente dallo sgancio della bomba convenzionale più potente al mondo, la GBU-43/B, l’anno scorso nell’area di Nangahar. Le forze NATO, invece, svolgono essenzialmente attività di addestramento a favore delle Forze di sicurezza afghane (ANSF, che includono esercito e polizia) senza attività dirette sul territorio.
Detto questo, ritengo che alla NATO sia ormai riservato un ruolo essenzialmente di presenza a scopi politici, di supporto al GIRoA e agli statunitensi, con limitate possibilità di incidere sull’andamento delle operazioni, mentre gli US continuano – seppur a livello inferiore rispetto al passato – ad esercitare un ruolo operativo diretto.
I 3.800 rinforzi che Trump ha infine promesso saranno sufficienti a contenere l’offensiva degli insorti?
Ricollegandomi alla risposta precedente, bisognerà capire se questi uomini andranno a rinforzare l’operazione nazionale statunitense o quella NATO, la Resolute Support Mission. In ogni caso, tenendo conto che l’Afghanistan è un paese enorme, privo di una rete stradale efficace e molto difficile da controllare senza la disponibilità di forze aeree significative, non saranno numeri del genere a cambiare la situazione. Insomma, mi pare più un rinforzo al presidio statunitense che, a differenza nostra, non se ne andrà mai dall’Afghanistan, che un’immissione di forze per dare una svolta operativa alla situazione sul campo. E’ peraltro indubbio che tale piccolo “surge” potrebbe essere interpretato quale indicatore di una nuova sensibilità da parte dell’entourage US nei confronti dell’Afghanistan.
In base alla sua esperienza quale strategia andrebbe adottata oggi per sostenere l’Afghanistan e combattere gli insorti con efficacia?
Bella domanda. Credo che non ci sia Comandante di ISAF/RSM che non se la sia posta ripetutamente, in questi ultimi 18 anni. Ma tutte le risposte sono state sbagliate, o insufficienti. E’ stato provato l’approccio cinetico puro, con gli strike statunitensi all’esordio dell’occupazione del paese nel 2001; successivamente, contraddicendo solenni impegni in merito, si è passati ai “boots on the ground” con un’operazione su tutto il territorio afghano costata migliaia di vittime civili e caduti militari.
Contemporaneamente, si è inaugurata la stagione del “comprehensive approach”, cooptando fior di intellettuali occidentali nell’identificazione di una strategia e con un’attenzione particolare alla popolazione che diventava “centro di gravità” dell’operazione: si aprirono moltissimi Provincial Reconstruction Teams (PRT) per ottenere il supporto popolare, si iniziò una guerra senza quartiere alla “corruzione”, a suon di bombe GBU, salvianisticamente e a torto ritenuta l’origine di tutti i mali e la “dote genetica” da correggere di un popolo arretrato e vittima di una tradizione oscurantista, anzichè l’ovvia conseguenza di un’assenza di riferimenti statali credibili.
Si iniziarono poi attività di supporto alle Forze di Sicurezza, fornendo addestramento e “mentoring”, vale a dire concorso all’attività di pianificazione e accompagnamento durante l’attività operativa sul campo.
Infine, con RSM venne deciso di lasciare che gli Afghani camminassero sulle proprie gambe, limitando il nostro supporto all’ambito addestrativo. In effetti, quest’ultima scelta operativa derivava ipocritamente dalla volontà di continuare ad essere presenti in una lotta politicamente molto corretta e gradita alle opinioni pubbliche liberal occidentali come il burka, i diritti delle donne, la lotta alla droga, la scuola per le bambine (per i bambini, pazienza) ecc.., senza pagare lo scotto dei Caduti e di una palese ed imbarazzante contraddizione delle interpretazioni a-militari di molte delle nostre Costituzioni, prima fra tutte quella italiana.
Le abbiamo provate tutte, insomma, ma è un fatto che a Kabul nel 2001 si poteva camminare tranquillamente in alcune aree della città, mentre oggi anche il semplice trasferimento dall’aeroporto al Comando RSM viene effettuato in elicottero per paura di attacchi.
Personalmente, nel 2003 mi spostavo giornalmente da Bagram a Kabul con due “scarrafoni” isolati (così chiamavamo il VM90 leggermente blindato dell’IVECO) e andai da Kabul a Gardez con due Toyota, passandovi tutta la giornata in città visitando varie infrastrutture, in mezzo alla gente.
Sei anni dopo, nel 2009, anche i soli movimenti all’interno della Capitale potevano avvenire solo con mezzi protetti e con scorte numerose.
Ed oggi come, ho detto, la situazione è peggiorata. La realtà è che quella in Afghanistan è una guerra americana, alla quale noi contribuiamo senza però avere la possibilità di impostarne l’End State, vale a dire il risultato finale da ottenere. Detto questo, mi consenta di non rispondere.
Foto: Congedati Folgore, AP, AFP, Isaf, Agenzia Pajhwok e Resolute Support
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