La minaccia jihadista in Spagna
Alla vigilia di Pasqua, il Foreign Office britannico metteva in allerta i cittadini inglesi in Spagna sulla possibilità di attentati jihadisti durante la settimana santa. Il governo di Theresa May si diceva in possesso di “informazioni sulla minaccia terroristica” in territorio spagnolo: nel mirino le famosissime, e numerose, processioni cattoliche e le chiese di tutto il Paese.
Se è vero che la Spagna non ha dovuto vedere altro sangue lungo i marciapiedi durante la settimana santa, è altrettanto certo che già a febbraio il ministero dell’Interno spagnolo, attraverso il Segretariato generale delle istituzioni penitenziarie, aveva lanciato un nuovo strumento di monitoraggio per i prigionieri jihadisti, uno “strumento per valutare il rischio di radicalismo violento”. Ad oggi ci sono più di duecentosettanta detenuti che si trovano in carcere per crimini legati al terrorismo jihadista e il progetto del ministero dell’Interno è tenerli sotto controllo insieme a tutti i detenuti con profili violenti, per evitare che questi ultimi vengano poi ‘catturati’ dall’ambiente jihadista.
Sono stati troppi, infatti, i terroristi che si sono radicalizzati nelle carceri spagnole. Come Abdelbaki Es Satty, la mente degli attentati dell’agosto 2017 di Barcellona e Cambrils. Il marocchino, già nominato imam dalla Comunidad islamica, che tra il 2010 e il 2014 soggiorna nel carcere di Castellòn per traffico di droga e finisce col fare amicizia con alcuni dei terroristi islamici della strage alla stazione di Atocha del 2004. Ma soprattutto è allarmante lo stato di anarchia islamica in cui versa il Paese.
Ad aprile 2017, la polizia spagnola ha arrestato nove individui con probabili legami con gli ultimi attentati di Francia e Belgio, e altri due uomini sospettati invece di reclutamento per gruppi terroristici islamici e di aiutare i combattenti a tornare in Europa. Ad un anno esatto di distanza, dieci membri di una cellula jihadista sono stati condannati a circa 100 anni complessivi di galera per aver tentato un complotto per bombardare e decapitare infedeli a Barcellona. E la cellula composta da cinque marocchini, quattro spagnoli e un brasiliano, non era la medesima del gruppo jihadista che ha fatto il suo bottino di morti ad agosto 2017.
Elementi presi a campione e che tutti concorrono a delineare l’inquietante stato di ‘jihad continua’ in cui versa la Spagna. Paese che, sebbene se ne parli davvero poco, continua ad essere obiettivo primario della furia islamica.
La storia recente racconta di una Catalogna che già negli anni ’80 inseguiva l’immigrazione di massa dai paesi musulmani al punto da indurre gli Usa a proporre l’istituzione di un centro di intelligence presso il Consolato degli Stati Uniti a Barcellona per contrastare la crescente minaccia.
E’ un rapporto diplomatico diffuso dall’ambasciata di Madrid, e datato 2 ottobre 2007, a descrivere nei dettagli il legame tra immigrazione di massa in Catalogna e l’ascesa dell’islamismo radicale nella regione.
“L’immigrazione pesante – sia legale che illegale – dal Nord Africa (Marocco, Tunisia e Algeria) e dal Sud-Est asiatico (Pakistan e Bangladesh) ha fatto della Catalogna una calamita per i reclutatori di terroristi”, si legge.
“La polizia nazionale spagnola stima che ci possano essere 60.000 pakistani che vivono a Barcellona e nella zona circostante, la stragrande maggioranza sono uomini, non sposati o non accompagnati, e senza documentazione legale. Sono ancora di più gli immigrati del Nord Africa. […] Vivono ai margini della società spagnola, non parlano la lingua, sono spesso disoccupati. […] Individualmente queste circostanze forniscono terreno fertile per il reclutamento di terroristi. […]
Jihad e indipendentismo catalano
Non c’è dubbio che la regione autonoma della Catalogna sia diventata una base fondamentale per le attività terroristiche: le autorità spagnole dicono che temono la minaccia di queste comunità di immigrati inclini al radicalismo. […] Trafficanti di droga, riciclaggio di denaro e tratta di prostitute gravitano nella regione. La minaccia in Catalogna è chiara. Barcellona è diventata un crocevia di attività preoccupanti, un punto d’incontro naturale e punto di transito di persone e merci che si spostano verso e attraverso la regione da tutti i paesi che si affacciano sul Mediterraneo occidentale”.
Ma la fotografia che veniva scattata dieci anni fa non è stata capace di fare da argine alla degenerazione.
Nel 2010 l’ambasciata degli Stati Unitia Madrid riteneva che la Catalogna fosse il punto nevralgico dell’islam in Spagna. L’irruenta e violenta radicalizzazione della comunità pakistana e marocchina a Barcellona e l’effervescente attività degli islamisti in luoghi come Tarragona, Hospitalet, Badalona e Reus sono fonte di preoccupazione per i servizi di intelligence americani che trasformano quella comunità nel loro primo obiettivo di ricerca. I documenti segreti del Dipartimento di Stato finiscono con il definire la Catalogna come “il principale centro mediterraneo degli islamisti”.
Ma è stata la Catalogna stessa a scegliere di diventare la nuova Mecca dell’islam radicale. Nel tentativo di promuovere il nazionalismo e lingua catalani, i partiti indipendentisti hanno promosso per decenni l’immigrazione dai paesi musulmani di lingua araba nella convinzione che questi immigrati (diversamente da quelli dell’America Latina) avrebbero imparato la lingua catalana piuttosto che parlare spagnolo.
Il fine giustifica i mezzi, insomma. Anche perché nel frattempo, come denunciato dal principale analista del terrorismo spagnolo, Fernando Reinares, il movimento separatista in Catalogna ha ostacolato la cooperazione a livello nazionale nella lotta contro il jihadismo.
“C’è un problema nella gestione delle comunità musulmane che penso sia stato aggravato dalle tensioni separatiste, un vero problema di cooperazione è nell’individuazione dei processi di radicalizzazione e nella ricerca e smantellamento di cellule, gruppi e reti che è stato anche complicato nel contesto dell’attuale tensione politica in questa comunità autonoma”.
Quando emersero i dettagli dell’attentato del 17 agosto a Barcellona si arrivò alla conclusione che la carneficina poteva essere evitata. Il 20 dicembre 2016, il giorno dopo che il jihadista tunisino Anis Amri si era lanciato contro il mercatino di Natale a Berlino, la polizia nazionale spagnola emise una circolare ordinando a tutti i dipartimenti di polizia centrali, regionali e municipali in Spagna di “attuare misure di sicurezza per proteggere gli spazi pubblici “per prevenire attacchi jihadisti in luoghi con un alto numero di persone”.
Ma le misure a Barcellona vennero sfacciatamente ignorate perché i leader del movimento indipendentista catalano non volevano essere visti come “quelli che prendono ordini dal governo centrale di Madrid”.
E’ in questo ordine di idee che la Catalogna si è trasformata, passo dopo passo, nell’epicentro del jihadismo in Spagna. Oggi è là che la mentalità indipendentista ha invitato e costruito, la più alta popolazione musulmana in Spagna fino ad essere una delle regioni più islamizzate del paese.
La Catalogna conta 7,5 milioni di abitanti, tra cui circa 510.000 musulmani, che rappresentano circa il 7% della popolazione totale e in alcune città catalane la popolazione musulmana arriva a superare persino il 40% della popolazione complessiva.
Una Catalogna indipendente, con la sua capitale a Barcellona, insomma, è la sede della più grande concentrazione di islamisti radicali in Europa, punto di partenza per il salafita-jihadismo nel continente e uno dei migliori incubatori per il terrorismo islamico in Occidente.
Nel 2012 la Catalogna già ospitava centinaia, e forse migliaia, di islamisti salafiti, che, secondo il Centro nazionale di intelligence della Spagna rappresentavano la più grande minaccia alla sicurezza della Spagna. I salafiti appartengono a quel ramo dell’islam radicale che cerca di ristabilire forzatamente un impero islamico (o califfato) attraverso il Medio Oriente, il Nord Africa e la Spagna, paese che considerano uno stato musulmano da riconquistare perché convinti che appartenga ancora a loro.
Al-Andalus e i petrodollari del Golfo
“Oh cara Al Andalus” – così la chiamano-, dice un francese in un video pubblicato all’inizio del 2016. “Pensavi che ti avevamo dimenticato!? No!”
E nel 2016 lo stato islamico, a riguardo, ha diffuso un documento contenente una lista di accuse contro la Spagna per i presunti torti fatti ai musulmani nella battaglia di Las Navas de Tolosa avvenuta il 16 luglio 1212, quando le forze cristiane di Alfonso VIII, re di Castiglia, sconfissero i governanti musulmani almohadi della metà meridionale della Penisola iberica.
Una vittoria chiave nella “Reconquista” della Spagna da parte dei sovrani cattolici e che l’islam non ha mai dimenticato. Nel testo, lo stato islamico diffuso invita, allora, i jihadisti a “perlustrare rotte aeree e ferroviarie per compiere attentati”. Ed esorta anche i suoi seguaci ad “avvelenare cibo e acqua” contro gli infedeli.
Eppure non si può tentare di liquidare ogni cosa come la facile esaltazione di sprovveduti. L’islam è un progetto politico che non lascia niente al caso o all’ignoranza. E sa che non esiste rivoluzione che non sia un processo. E’ per questo che da decenni hanno varato anche un sistema dal solido indottrinamento capace di tenere le casse sempre piene. L’acmè è stato raggiunto nel 2011, quando i paesi musulmani del Golfo Persico e del Nord Africa hanno incrementato l’afflusso di ingenti somme di denaro ai gruppi islamici radicali in città e cittadine di tutta la Spagna.
Un rapporto segreto preparato dal Centro nazionale di intelligence della Spagna (CNI), nel 2011, ammetteva che il governo spagnolo stava lottando per fermare il flusso di decine di milioni di dollari verso la comunità islamica in Spagna dal Kuwait, dalla Libia, dal Marocco, dall’Oman, dal Qatar, dagli Emirati Arabi Uniti e soprattutto dall’Arabia Saudita.
Donazioni che sfuggivano, come oggi, al regolare sistema finanziario. Il governo kuwaitiano ha finanziato la costruzione di moschee nei comuni spagnoli di Reus e Torredembarra (Catalogna), da cui i predicatori islamici hanno diffuso “un’interpretazione religiosa che si oppone all’integrazione dei musulmani nella società spagnola e promuove la separazione e l’odio verso i gruppi non musulmani”.
Il Qatar ha canalizzato la maggior parte delle sue donazioni attraverso la ‘Lega islamica per il dialogo e la convivenza in Spagna’, un gruppo che il CNI afferma essere “legato ai Fratelli Musulmani in Siria” e che controlla il Centro Culturale Islamico Catalano. Donando poi 300.000 euro per rinnovare quel centro che ha sede a Barcellona.
Gli Emirati Arabi Uniti, insieme alla Libia e al Marocco, hanno pagato invece per la costruzione della Grande Moschea di Granada. “Agirà come punto focale per la rinascita islamica in Europa, ed è il simbolo di un ritorno all’islam tra il popolo spagnolo e tra gli europei indigeni”, dichiarò Abdel Haqq Salaberria, portavoce della moschea.
Gli Emirati Arabi Uniti, insieme a Kuwait, Marocco ed Egitto, sono stati anche coinvolti in un progetto per fare di Córdoba la “Mecca dell’Ovest”, trasformando l’antica città in un sito di pellegrinaggio per i musulmani di tutta Europa. E intanto i musulmani di Cordoba hanno chiesto, e continuano a farlo, che il governo spagnolo permetta loro di ‘adorare’ nella cattedrale principale, che era stata una moschea durante il regno islamico medievale di Al-Andalus.
Ma è l’Arabia Saudita il donatore più generoso: il denaro saudita è da sempre destinato alla costruzione di moschee in Spagna. Riyadh, per esempio, costruì il Centro Culturale Islamico di sei piani per 12.000 metri quadrati a Madrid, aperto nel 1992, che è una delle più grandi moschee in Europa. L’Arabia Saudita ha anche costruito il centro culturale islamico da 22 milioni di dollari a Malaga e le “grandi moschee” di Marbella e Fuengirola, note per la promozione dell’islam wahhabita che, per definizione, rifiuta l’integrazione degli immigrati musulmani nella società spagnola.
Le moschee spagnole costruite sull’odio all’Occidente, hanno così iniziato, lentamente e indisturbate, a modificare il Dna di un’intera nazione.
I predicatori salafiti in Catalogna insegnano che la legge islamica della sharia è al di sopra della legge civile spagnola. Promuovono l’istituzione di una società musulmana parallela e sono riusciti a istituire tribunali della Sharia per giudicare la condotta dei musulmani praticanti e non nella regione. Indottrinamento che penetra già nelle scuole.
E’ stato stimato che fino a 10.000 catalani con legami con il movimento separatista si siano convertiti all’islam negli ultimi anni e che due su dieci radicali catalani si siano convertiti all’islam. Convertiti che rifiutano che venga festeggiato il Natale, mangiano solo prodotti halal e leggono il Corano in catalano.
Abdelwahab Houzi, predicatore jihadista salafita a Lleida, già nel 2010 affermava, “i musulmani dovrebbero votare per i partiti indipendentisti catalani, poiché hanno bisogno dei nostri voti, ma quello che non sanno è che, quando ci permetteranno di votare, voteremo tutti per i partiti islamici perché non crediamo nella sinistra e nella destra, questo ci farà vincere i consigli locali e quando inizieremo ad accumulare potere nella regione autonoma catalana, l’islam inizierà ad essere implementato”.
Immigrazione e mancata integrazione
Il resto è storia. Una storia incorniciata da un analista spagnolo in poche battute, “qui non abbiamo ghetti come in Francia. L’integrazione della popolazione musulmana è maggiore e c’è una seconda generazione incipiente”. I cui membri però non hanno difficoltà ad oscurare le loro attività terroristiche.
Da gennaio 2013 a settembre, le forze e gli organismi di sicurezza dello Stato hanno arrestato 222 persone per reati di terrorismo.
Fernando Reinares, direttore del programma sul terrorismo globale dell’Istituto Elcano Royal, ha dichiarato che Catalogna ospita un quarto dei 230 individui radicalizzati (e salafiti), di Spagna e che “l’attuale mappa del jihadismo (spagnolo) riflette un fenomeno che tende a concentrarsi principalmente in quattro province e due città autonome: a Barcellona il 25%, seguita da Ceuta, Madrid, Melilla, Girona e Alicante”.
Allo stato attuale la polizia in Spagna monitora oltre 1.000 persone considerate pericolose, mentre i tribunali stanno indagando su 259 persone e 500 telefoni monitorati. Ma si tratta dei meri dati di cui è in possesso El Paìs. C’è ben altro sotto.
Tra il 1996 e il 2013, quasi il 29% delle persone condannate per reati di terrorismo islamico è stato arrestato nella provincia di Barcellona. E dal 2013 al 2017 niente è cambiato, anzi. Il rapporto del Real Instituto Elcano non lascia spazio a perplessità alcuna. Intanto Madrid vive in un eterno incubo ricorrente, subissata da minacce.
Un ennesimo recente rapporto ha indicato la Spagna come importantissimo centro finanziario per terroristi in Siria e in Iraq. Servendosi del sistema hawala – difficilissimo da tracciare – il denaro è stato trasferito con estrema facilità.
Macellerie e piccoli negozi di alimentari islamici hanno fatto da tramite. “Non avevamo visto nulla di simile dalla guerra afgana”, disse all’epoca un agente dell’intelligence. “Non solo reclutano combattenti qui, ma ricevono anche denaro da casa nostra.”
All’inizio del 2016 le indagini hanno collegato questo genere di attività in Spagna all’ISIS o Al Nusra – gruppo affiliato ad Al Qaeda. In Siria e in Iraq, spacciati per aiuti umanitari, venivano inviati – ed è difficile escludere la possibilità che le cose persistano – vestiti, armi e ogni sorta di materiale utile.
Nel 2016, lo Stato islamico ha diffuso il suo primo video di propaganda con sottotitoli in spagnolo. L’ottima qualità della traduzione, sia per l’ortografia che per la sintassi, ha indotto alcuni analisti a concludere che il traduttore fosse di madrelingua spagnola e che i sottotitoli erano stati realizzati in territorio spagnolo.
E nel frattempo sono bastati una manciata di mesi per iniziare a mantenere la promessa che lo Stato islamico ha divulgato, prima dell’attentato della scorsa estate, in un documento di due pagine interamente in spagnolo. “Uccideremo ogni infedele ‘innocente’ spagnolo che troveremo nelle terre musulmane, e arriveremo nella vostra terra. La nostra religione e la nostra fede vivono in mezzo a voi e anche se non conoscete i nostri nomi e non sapete come siamo fatti, se siamo di origine europea o no, noi vi uccideremo nelle vostre città e paesi secondo il nostro piano”.
Dagli attacchi qaedisti del marzo 2004 ai treni di Madrid le autorità spagnole hanno arrestato più di 750 jihadisti in 243 operazioni antiterrorismo, stando ai dati del ministero dell’Interno.
Foto: Stato Islamico, Reuters, EFE e web
Lorenza FormicolaVedi tutti gli articoli
Giornalista nata a Napoli nel 1992, si occupa di politica estera, in particolare britannica, americana e francese ma è soprattutto analista del mondo arabo-islamico. Scrive per Formiche, La Nuova Bussola Quotidiana, il Giornale e One Peter Five.