Trump, Netanyahu e l’atomica iraniana

Eccezionale la performance di Benyamin Netanyahu in merito alle presunte bugie di Teheran relativamente ai programmi nucleari iraniani (guarda il video). Il premier israeliano, come un abile prestigiatore, ha scoperto una alla volta tutte le menzogne di Teheran! Bello e di grande effetto mediatico ma forse non così convincente.

Guardando Netanyahu la prima immagine che torna prepotentemente alla mente è quella dell’intervento alle Nazioni Unite, ormai15 anni fa, del Segretario di Stato Colin Powell che assicurava di aver visto prove inconfutabili delle armi chimiche di Saddam Hussein. Oggi la stessa sensazione si prova nei confronti delle rivelazioni di Netanyahu.

vediamo cosa ha dichiarato Benjamin Netanyahu. Il Mossad avrebbe raccolto svariatai documentazione (55mila pagine di documenti e 55mila file su CD) che attesterebbero che l’Iran, nonostante gli impegni assunti nel quadro dell’accordo siglato con i “5+1”(ossia i 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU più la Germania), stia continuando la preparazione di ordigni atomici.

Teheran continua di nascosto a procedere sulla via che potrebbe portarla a disporre di armi nucleari? Possibile, forse probabile, ma sono la tempistica e i protagonisti della vicenda che suscitano perplessità.

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Trump ha più volte dichiarato di voler uscire dall’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA- Joint Comprehensive Plan Of Action), sottoscritto da Obama nel 2015.Forse perché genuinamente ritiene che tale accordo non imponga a Teheran vincoli abbastanza stringenti ma vuole uscirne soprattutto per altri motivi.

I maggiori alleati di Washington nella regione (Israele e Arabia Saudita) sono, per motivi diversi, da sempre estremamente critici verso tale accordo.

Israele perché, comprensibilmente, vede in qualsiasi programma nucleare iraniano un passo verso l’acquisizione di ordigni nucleari e, conseguentemente, una minaccia diretta e tutt’altro che potenziale alla propria sopravvivenza.

L’Arabia Saudita è da sempre il maggiore avversario geo-politico dell’Iran nella regione. I contrasti riguardano non soltanto le rispettive zone d’influenza, ma sono anche di natura confessionale ed economica. Ovvio che veda con preoccupazione qualsiasi potenziamento (economico o militare) iraniano.

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Inoltre, l’uscita dall’accordo consentirebbe agli USA di ripristinare in toto le sanzioni economiche contro l’Iran (in parte rimosse da Obama), con grande gioia di Israele, Arabia Saudita e dei competitors economici di Teheran.

Da ultimo, ma forse prioritario per alcuni circoli della Segreteria di Stato e del Pentagono, colpire l’Iran significa colpire il maggiore alleato di Mosca nella regione.

Invece, per il nuovo Consigliere per la Sicurezza Nazionale, il falco John Bolton (che già fece ingenti danni durante la presidenza di Bush junior in qualità di ambasciatore all’ONU), l’Iran sembra continuare a rappresentare il male assoluto.

Altri motivi, non meno rilevanti per Trump, sono invece di politica interna. L’accordo è stato siglato da Obama e, come tutto ciò che è stato realizzato dal suo predecessore, sembra che debba essere disfatto “a prescindere” (vedasi “Obama Care”, accordi di Parigi sul clima, ecc). Intendiamoci, l’accoppiata Obama Hillary Clinton ha fatto danni innumerevoli ed incommensurabili in politica estera. Forse però l’accordo sul nucleare iraniano non rientra necessariamente in tale novero.

Trump potrebbe quindi ritirare unilateralmente gli USA dall’accordo e ha dichiarato che renderà nota la posizione USA entro il 12 maggio. Anche dai recenti colloqui con i leader europei è apparso chiaro che nessuno degli altri firmatari intenda ritirarsi tout-court dall’accordo. Forse qualcuno (Macron) vorrebbe rinegoziarne alcuni aspetti (che Teheran difficilmente accetterà di rimettere in discussione), ma nessuno sembra condividere il desiderio di Trump di far saltare in toto l’accordo del 2015.

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Trump appare isolato nel contesto internazionale in questo suo progetto. L’opposizione interna alla sua politica continua ad essere virulenta e il tornaconto nell’uscita dall’accordo sul nucleare iraniano è difficile da spiegare all’elettore medio americano.

A pensar male, potrebbe esserci bisogno di trovare la “pistola fumante” che consenta a Trump di uscire dall’accordo senza dover fornire troppe spiegazioni.  E proprio nel momento più opportuno, ecco che arriva l’amico Benyamin a fornirgli le “prove inoppugnabili” della truffa iraniana!

Come in tutti questi casi, non potrà mai esserci una valutazione indipendente e super-partes di tali “prove”, perché si “comprometterebbero fonti di intelligence”, “si metterebbero a rischio le vite degli agenti che le hanno procurate” e così via….

Ma tanto basta a Trump per dire (come fecero Bush Junior e Powell) che le prove esistono e sono “inoppugnabili”, come peraltro successo anche in relazione al recente presunto uso di armi chimiche da parte di Assad.

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Sin qui, sia pure in maniera molto succinta, alcune delle motivazioni di Trump. Il contrasto tra Israele e l’Iran è radicato, complesso e multiforme e non può prescindere dal considerare anche l’attività di Hezbollah in Libano e di Assad in Siria (tutti legati a Teheran).

Comprensibile che Gerusalemme supporti qualsiasi azione possa danneggiare o almeno contenere l’espansione militare iraniana. Inoltre, potrebbero esserci anche obblighi di riconoscenza.

Trump, annunciando il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, ha affrontato rischi politici molto seri, non ultimo quello di compromettere del tutto la residua credibilità di Washington quale potenziale mediatore per la crisi israelo-palestinese.

Inoltre, le episodiche azioni militari di disturbo condotte con pretesti vari dagli USA in Siria, per colpire sia Assad sia i suoi alleati iraniani e russi, giovano sicuramente in primis a Israele e vengono concordate con Gerusalemme.

Gli obblighi di riconoscenza di Israele nei confronti di Trump sono evidenti come quelli nei confronti di Riyad. Appare sempre più evidente l’indifferenza della politica saudita nei confronti del problema palestinese, anche in virtù della “strana alleanza” con Israele contro il comune nemico iraniano.

Tra l’altro, fonti di stampa USA (Axios media) hanno riportato che il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MbS), incontratosi a New York con rappresentanti di organizzazioni ebraiche statunitensi, avrebbe duramente criticato il Presidente palestinese Abu Mazen per il perdurante rifiuto palestinese di accettare di negoziare con Israele.

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Comunque, è noto che l’amministrazione di Trump avrebbe lavorato su una soluzione della crisi israelo-palestinese. In tale contesto, Washington ha sempre tentato di coinvolgere Riyad e in particolare il principe ereditario MbS per ottenere una sponda.

L’impressione è quindi che il magnifico “colpo” del Mossad (vero o presunto che sia) costituisca un bel regalo all’amministrazione Trump per consentirle (senza particolari obiezioni interne) di uscire unilateralmente dall’accordo sul nucleare iraniano. In cambio, Israele continuerà ad essere supportato dagli USA nei suoi ormai frequenti attacchi a obiettivi siriani ed iraniani in Siria.

Non entro nel merito dell’accordo e di quanto possa essere efficace o di quanto invece possa essere migliorato (ad esempio con nuove regole per quanto attiene ai missili balistici, come ipotizzato da Macron). Ritengo però opportuno che Francia, Gran Bretagna e Germania non seguano Trump in questa avventura.

Tra l’altro, il saper dimostrare una certa autonomia da Washington in scelte di politica estera potrebbe risultare utile (all’intera Europa) anche su molti altri dossier scottanti in merito ai quali sembrano esserci serie divergenze di punti di vista sulle due sponde dell’Atlantico, dalla crisi siriana a quella ucraina, dalle sanzioni alla Russia al ruolo e ai compiti dell’Alleanza Atlantica.

Foto: AFP, Getty Images e AP.

 

Antonio Li GobbiVedi tutti gli articoli

Nato nel '54 a Milano da una famiglia di tradizioni militari, entra nel '69 alla "Nunziatella" a Napoli. Ufficiale del genio guastatori ha partecipato a missioni ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul. E' stato Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI) e, in ambito NATO, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di SHAPE e Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Ha frequentato il Royal Military College of Science britannico e si è laureato con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Trieste.

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