Kosovo: accordo impossibile ma forse inevitabile tra Belgrado e Prishtina
da Belgrado
Tra smentite e conferme, in questi giorni si rincorrono le voci di un possibile accordo tra Serbia e Kosovo per procedere ad una ridefinizione delle frontiere tra i due Stati e sbloccare l’impasse creatasi nel 2008 in seguito alla proclamazione unilaterale d’indipendenza da parte di Prishtina, avvenuta in violazione alla risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza ONU.
Sebbene le notizie in tal senso siano ancora confuse e contradditorie, è possibile partire da un fatto, ossia la parziale ammissione del Presidente kosovaro dell’esistenza di trattative in tal senso condotte col suo omologo serbo. Come riporta Sylejman Kllokoqi di AP, infatti, Hashim Thaci sarebbe disponibile a supportare una “correzione” dei confini, termine con il quale intende probabilmente fare riferimento alla sua proposta di uno scambio fra il nord a maggioranza serbo e la Valle di Preševo (sud della Serbia) a maggioranza albanofona.
Tale presa di posizione, però, non pare aver trovato l’adesione di molti esponenti politici kosovari, poiché, come si può constatare leggendo le prime pagine dei principali quotidiani locali, quasi tutti tengono a rimarcare quanto sia importante che Priština non rinunci a quanto già ottenuto grazie all’appoggio di USA ed Europa.
Per Kadri Veseli, Presidente del Parlamento, ad esempio, l’integrità e la sovranità del Kosovo sono inviolabili e, pertanto, temi esclusi dal dialogo con Belgrado che, a suo avviso, deve avere come unici obiettivi quelli di far ottenere al paese un seggio all’ONU e garantire l’accesso a UE e NATO. Ancora più duro è stato il “falco” Ramush Haradinaj, attuale primo ministro, secondo cui “i confini si cambiano solo con la guerra”.
Al contrario, un assist a Thaci arriva proprio dalla Serbia che, per bocca del suo Ministro degli Esteri, ha dichiarato che “la situazione attuale è tale che abbiamo buone chance di risolvere con un compromesso la situazione del Kosovo e Metohija”.
La ragione di questa affermazione sembra risiedere nel fatto che, secondo Dačić, l’attuale amministrazione statunitense è la prima ad essere realmente interessata alle questioni balcaniche e disponibile a rivedere il corso voluto da Bush figlio e, soprattutto, Obama.
Oltre a ciò, il nuovo ruolo globale di Russia e Cina, nonché il mutato atteggiamento di Francia e Germania (l’Italia non viene neanche citata) agli occhi dell’esecutivo serbo permetterebbero l’adozione di soluzioni meno “filo albanesi” rispetto agli anni scorsi.
Più sfaccettata, invece, è la posizione dal Presidente Vučić che, nel corso di una conferenza tenutasi lo scorso 7 agosto, aveva voluto ribadire una serie di concetti chiave, ossia la scarsa collaborazione di Prishtina, la posizione di debolezza in cui si trova la Serbia a causa dell’attitudine delle Grandi Potenze (considerazione più credibile rispetto a quella del Ministro degli Esteri) e la necessità che la popolazione confermi (con un referendum?) la perdita dell’ex provincia.
Successivamente, però, il Capo dello Stato è andato oltre, dichiarando di essere favorevole alla “delimitazione” (razgraničenje) con il Kosovo il che, agli occhi serbi, potrebbe ragionevolmente significare il riconoscimento dell’indipendenza in cambio della cessione del nord dell’ex-provincia e la garanzia che le zone definitivamente sotto controllo albanese vengano tutelate adeguatamente.
Al di là del fatto che in particolare quest’ultima richiesta è di difficile attuazione, merita evidenziare come l’opposizione serba abbia gridato al reato costituzionale in quanto la razgraničenje sarebbe contraria alla Costituzione, secondo cui il Kosovo e Metohija sono parte integrante ed indivisibile della Serbia. Per la stesura di questo articolo si è cercato di ottenere dichiarazioni circa la posizione ufficiale dell’opposizione, ma i leader del variegato fronte-antigovernativo non hanno dato seguito alla richiesta.
In ogni caso, forse mai come ora sembrano esserci indizi che qualcosa stia per cambiare o avvenire. In queste settimane, infatti, sui media locali si assiste ad una vera rincorsa tra informazione e disinformazione, con pubblicazione costante di notizie diverse e contrastanti, alcune delle quali palesemente orientate a creare lo scompiglio all’interno degli schieramenti.
Verso la fine di luglio, ad esempio, alcuni quotidiani serbi avevano scritto che nell’ambito del presunto scambio territoriale:
- Vučić avrebbe dato l’ok alla rinuncia di alcune zone della Serbia abitate in maggioranza da albanesi;
- gli americani starebbero accelerando l’addestramento della polizia kosovora al fine di trasformarla in un vero e proprio esercito (il che potrebbe essere coerente con quanto riportato recentemente da Analisi Difesa
- Prishtina avrebbe addirittura sviluppato un piano per prendere il controllo di tutte le infrastrutture strategiche fondamentali alla sopravvivenza della comunità serba in Kosovo.
Per contro, i giornali kosovari e albanesi si sono divisi tra le dichiarazioni più morbide di Thaci e quelle, dure, di Haradinaj e Haziri, dedicando anche ampio spazio a chi sostiene la necessità di annettere il Sud della Serbia per garantire la pace nell’area o accusa il Presidente della Repubblica di alto tradimento per aver solo pensato di poter mutare i confini patri.
Oltre a ciò, e probabilmente non è un caso, da Tirana sono giunte due altre dichiarazioni degne di nota: secondo la prima nel prossimo futuro verrà eliminato il confine tra Albania e Kosovo, creando de-facto un embrione di “Grande Albania”, mentre stando alla seconda, peraltro rilasciata direttamente dal Primo Ministro Rama, la NATO edificherà in loco la prima base aerea dei Balcani Occidentali, con un investimento che “contribuirà allo sviluppo dell’intera regione”.
Davanti a questa crescente pressione non stupisce che a chiamare alla calma siano proprio i rappresentanti della comunità serba in Kosovo, la prima ad essere colpita nel caso in cui le tensioni crescessero ulteriormente o ci fossero delle violenze.
L’Archimandrita Sava Janjic del Monastero di Dečani (uno dei più importanti per i serbo-ortodossi), ad esempio, ha più sfruttato i social network per contestare il tentativo di alcuni tabloid vicini al Presidente Vučić di “scatenare il panico” tra i rimasti ed incrementare l’instabilità, venendo per tutta risposta accusato di essere un “patriota” albanese.
Come visto poco sopra, comunque, non si tratta di un tentativo isolato dei soliti quotidiani Telegraf, Kurir, etc, ma di una campagna organizzata, che cerca di convincere una parte della popolazione serba che solo l’accordo proposto dal governo potrà salvare il paese dal caos e che l’opposizione si è ormai venduta al “nemico”. Contemporaneamente, i pochi giornali contrari al governo hanno pubblicato alcuni articoli nei quali sostenevano che l’esecutivo fosse favorevole a cedere una parte del sud del paese (la già citata Valle di Preševo) a Prishtina in cambio delle municipalità del Nord dell’ex provincia, il che ha chiaramente creato notevole scandalo.
Da parte kosovara, comunque, vi è un gioco uguale e contrario, nel senso che sia alcuni giornali che alcuni leader (tra cui il solito Haradinaj), non hanno escluso l’uso della forza per contrastare e reprimere eventuali proteste da parte dei serbi, date quasi per certe, né lesinato accuse di tradimento a chi propone qualsivoglia tregua/accordo con Belgrado che preveda la rinuncia all’integrità territoriale.
Alla luce di tutto ciò, è quanto mai difficile fare delle previsioni o azzardare delle ipotesi sugli eventi futuri, anche perché la situazione è estremamente fluida ed è impossibile sapere realmente quale sia il punto raggiunto dai negoziati bilaterali (nulla vieta, ad esempio, che ci sia già un accordo, ma manchi il momentum per renderlo operativo).
Ciononostante, è possibile fare alcune considerazioni:
La Germania ha detto no – La forte presa di posizione della Merkel, che si è detta contraria a qualsivoglia modifica dei confini, sembra aver messo una pietra tombale sulla possibilità di raggiungere un accordo. Non va però dimenticato che da quando la leader della CDU è Cancelliera, si è assistito al dubbio referendum sull’indipendenza del Montenegro (2006) e alla proclamazione unilaterale d’indipendenza del Kosovo (2008), come già visto avvenuta in contrasto con quanto stabilito dalla risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Merita comunque sottolineare che, invece, la diplomazia europea non si è fermata, tanto che a breve ci sarà un nuovo incontro tra Federica Mogherini e i due presidenti Vučić e Thaçi.
Una soluzione serve a tutti – Sia per il Kosovo che per la Serbia è fondamentale uscire da questa impasse. Entrambi i paesi, infatti, stanno spendendo troppo (economicamente, politicamente, etc.) nella vicenda, senza aver ottenuto risultati tangibili. Questa guerra di logoramento, paradossalmente, sta vedendo più vittoriosa/meno sconfitta la Serbia che, nonostante l’evidente intenzione di smembrarla e renderla inerte, è riuscita a garantire sostanzialmente i propri confini più “interni” e ha impedito a USA ed EU di concretizzare il piano di un rapido riconoscimento internazionale del Kosovo, che resta de facto un protettorato occidentale incapace di camminare da solo. Parte interessata è anche l’Albania, forse il vero interlocutore di Belgrado a livello locale, visto che è chiaro che l’obiettivo comune di albanesi e kosovari è quello di vivere in un unico stato nazionale.
Lo scambio è la peggiore “migliore idea” Come ha scritto Daniel Serwer su peacefare.net, infatti, un’ipotetica modifica degli attuali confini rischia di avere degli effetti imprevedibili, sia perché lascerebbe de facto i serbi rimasti fuori dalla Serbia alla mercé di uno Stato che non li vuole perché slavi e cristiani (è bene dirlo e riconoscerlo apertamente), sia perché causerebbe a Belgrado la perdita di tutto il suo patrimonio culturale (i principali luoghi di culto sono nel sud del Kosovo).
Oltre a ciò, la soluzione auspicata da Dačić e Thaci, sebbene forse risolutiva nel brevissimo periodo, come visto sopra rischierebbe di causare un effetto domino e favorire realmente aspirazioni espansionistiche. Come si potrebbe infatti negare agli albanesi residenti nelle zone confinanti col Kosovo di ricongiungersi alla loro madrepatria se lo stesso diritto venisse riconosciuto a quelli della Valle di Presevo come chiede furbescamente Thaçi? Il rischio, infatti, è quello di contribuire a destabilizzare il Montenegro e, soprattutto, la Macedonia, paese che non si è assolutamente pacificato proponendo un dubbio accordo sul nome con la Grecia. Oltre a ciò, per lo stesso principio diventerebbe praticamente impossibile negare alla Republika Srpska di unirsi alla Serbia, paese da cui è staccata solo per volontà occidentale e non certo della gente del luogo.
Ecco perché, qualsiasi accordo sul Kosovo non può prescindere da un ragionamento di più ampio respiro, che risulta particolarmente complesso vista la scarsa conoscenza che le cancellerie europee hanno dei problemi locali, e dal riconoscimento che più di qualcuno a Tirana (e non solo) ambisce a creare un grande stato etnico albanese.
L’Italia? non pervenuta – Sebbene storicamente interessata a quanto succede nei Balcani e legata alla Serbia, Roma non ha alcun ruolo nella vicenda. Non viene infatti mai menzionata dai leader locali o dagli analisti come un paese in grado di influenzare le scelte future, né un attore credibile a cui affidare degli eventuali negoziati. Roma ha disperso l’enorme capitale morale acquisito nei confronti dei serbi durante la Prima Guerra Mondiale (e ancora ricordato dalla gente per strada) accodandosi alle politiche pensate e condotte da Stati in competizione diretta con lei, ritrovandosi quindi ad avere un’influenza meramente economica.
L’attitudine a cercare di mantenere un approccio estremamente bilanciato tra le parti, a volte quasi servile nei confronti dell’Albania di Rama, quest’ultimo addirittura invitato nelle nostre TV pubbliche, ha poi rappresentato il colpo di grazia. L’attuale governo, infine, sembra inspiegabilmente più orientato a garantirsi la simpatia del Kosovo che a garantire gli interessi nazionali, una scelta difficilmente comprensibile se si considera che Prishtina resta una zona off-limits per i non anglosassoni e la nostra presenza viene accettata solo finché si esprime nella partecipazione alla KFOR della NATO.
Il ruolo degli USA e della Russia – Chiaramente su posizioni differenti, Washington e Mosca hanno cercato di contendersi l’influenza sui Balcani. In particolare, l’aggressiva politica della Casa Bianca sul tema del Kosovo e della sua indipendenza ha finito per giustificare, agli occhi di parte dell’opinione pubblica mondiale, l’annessione della Crimea da parte di Putin. Il principale successo di Obama, però, è stato quello di persuadere l’Europa e gli attori locali che il Cremlino rappresentasse una minaccia di primo piano, quando invece quest’ultimo si trovava in estrema difficoltà. In pochi anni, infatti, la Russia ha visto diventare filo occidentali anche il Montenegro e la Macedonia, nonché è stata oggetto di una vera e propria offensiva nel campo dell’informazione.
Il confronto voluto dai democratici USA, peraltro estremamente vicini alle posizioni albanesi e musulmane, ha quindi impedito una de-escalation, che paradossalmente potrebbe essere raggiunta proprio da Trump se questi riuscisse a far passare la linea del dialogo con Mosca. Ecco perché il nostro Governo, che pare molto vicino a Washington, dovrebbe cercare di inserirsi nelle trattative e non lasciare che Federica Mogherini sia continuamente vittima dei cambi di umore di Londra, Parigi e Berlino.
La debolezza della Serbia – Belgrado è oggettivamente in una posizione di debolezza. Pur avendo buoni rapporti con Mosca e Pechino, infatti, non riesce ad ottenere il supporto di cui avrebbe bisogno ed ora, come ha confermato lo stesso Vučić nel corso della conferenza del 7 agosto, si trova relativamente isolata.
L’assenza di una valida sponda in Europa (ci sarebbe la Germania, ma i contrasti con gli USA e la presa di posizione della Merkel sembrano aver complicato il tutto) la costringono a subire gli attacchi crescenti di un paese dichiaratamente anti-serbo come il Regno Unito e l’impegno “part-time” e scarsamente rilevante del vecchio alleato francese, nonché a guardare con apprensione alla costante espansione della NATO nell’ex-Jugoslavia (il che dovrà necessariamente portare ad un incremento delle spese militari).
Il problema è accresciuto anche dalla miopia della classe politica locale, troppo impegnata a dividersi e contrastarsi per rendersi conto che una scelta sbagliata sul tema del Kosovo rischia di compromettere il futuro stesso del Paese.
Particolarmente grave, a tal proposito, è il comportamento del Presidente Vučić che, preoccupato di non coltivare potenziali rivali, si è circondato di personaggi inadatti a svolgere ruoli di primo piano nella vita politica nazionale.
Lo stesso si può dire anche dell’opposizione che, al di là di slogan ripetuti allo sfinimento, non ha alcun piano concreto. Ad oggi, infatti, non è chiaro come l’insieme dei partiti del fronte anti-Vučić intendano offrire un’alternativa alla soluzione proposta dal Presidente, né eventualmente migliorarla qualora questa si rendesse l’unica via percorribile.
In conclusione, l’impressione diffusa in Serbia è che qualcosa debba accadere, anche se la popolazione, ancora stremata dalle conseguenze delle sanzioni e dei bombardamenti degli anni ’90, dalla perdita di Montenegro e Kosovo, nonché dall’arrivo di centinaia di migliaia di profughi scacciati da Croazia e Kosovo, sembra più interessata a sopravvivere o ad emigrare all’estero. Ecco perché più di qualcuno, a destra come a sinistra, segretamente pensa che un accordo che permetta di recuperare almeno una parte del “cuore della Serbia” sia l’unica soluzione possibile.
Come sempre, però, ad avere l’ultima parola saranno la UE (leggasi la Germania) e gli USA, ossia gli stessi attori che, con le loro politiche affrettate e ispirate alle divisioni territoriali promosse durante la Seconda Guerra Mondiale, hanno contribuito a far precipitare nel baratro i Balcani.
Foto: AFP, AP, Indipendent Balkan News Agency, Ministero Difesa Serbo, Governo Kosovaro, BBC, Nato e Sputnik
Luca SusicVedi tutti gli articoli
Triestino, analista indipendente e opinionista per diverse testate giornalistiche sulle tematiche balcaniche e dell'Europa Orientale, si è laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche all'Università di Trieste - Polo di Gorizia. Ha recentemente pubblicato per Aracne il volume “Aleksandar Rankovic e la Jugoslavia socialista”.