Burevestnik: arma decisiva di Putin o tigre di carta?

Un missile da crociera a propulsione nucleare in grado di volare per molti giorni, forse perfino per settimane o mesi, prima di schiantarsi sull’obbiettivo con una testata termonucleare.

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Una temibile arma la cui autonomia di volo indefinita consentirebbe di effettuare larghissime manovre di approccio indiretto, passando, per di più a bassissima quota, al di sopra di oceani poco frequentati, ghiacci polari, deserti, giungle o comunque in genere sopra luoghi spopolati e a bassa “densità” di sorveglianza militare. In tal modo si darebbe nuova forma al concetto di “sorpresa” nella guerra aerea e atomica, aggirando, di fatto, le difese antimissile avversarie e assicurando una capacità di “secondo colpo” di rappresaglia paragonabile, quasi, a quella dei silenziosi sottomarini SSBN.

Con l’inedita differenza che questo tipo di deterrenza sarebbe in tal caso trasposto nell’impalpabile oceano dell’atmosfera, anziché annidato negli abissi marini.

Tutto ciò è rappresentato dal misterioso missile russo Burevestnik, di cui pochissimo si sa nonostante venga sperimentato materialmente da quasi due anni e la cui esistenza sia stata ufficialmente ammessa da Mosca da almeno un anno e mezzo.

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Quanto basta perchè la NATO gli assegnasse il suo bravo nome in codice, etichettandolo SS-C-X-9 Skyfall.

Era il 1° marzo 2018 quando il presidente Vladimir Putin lo presentava al mondo elencandolo insieme a una serie di armamenti strategici, tra cui il veicolo di rientro sub-orbitale manovrabile Avangard, in pratica una testata MARV, e il sottomarino-drone a probabile testata “tsunami” da 100 megatoni Status 6 Poseidon, del quale ci siamo recentemente occupati nello specifico su Analisi Difesa.  L’esistenza del missile a raggio d’azione indefinito, su cui di tanto in tanto sono stati solo sussurrati scarni dettagli e ipotesi, è tornata prepotentemente all’attenzione dei mass media a causa di un incidente verificatosi poche settimane fa.

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Per la precisione l’8 agosto 2019 in una base sperimentale nei paraggi di Severodvinsk, a seguito della quale si sono susseguite notizie di fughe radioattive attribuite presumibilmente al sistema propulsivo del vettore.

L’episodio, per inciso, ha una curiosa analogia con un altro recente incidente, verificatosi poco più di un mese prima, il 1° luglio, a bordo del sottomarino abissale AS-12 Losharik (di cui Ad si è occupata con un ampio articolo). Anche in quel caso si trattava di una macchina da guerra segretissima, su cui i russi sono avari di informazioni, ma che a causa di un’avaria, nella fattispecie un incendio a bordo con la morte di 14 uomini, è balzata sotto i riflettori del mondo nonostante il comprensibile riserbo del Cremlino.

 

Una piccola Chernobyl?

Secondo l’interpretazione più credibile emersa nelle ultime settimane, l’8 agosto un prototipo del Burevestnik sarebbe esploso, forse all’avvio di una prova di lancio, su una “piattaforma marittima”, o forse perfino su un’unità navale, presso il villaggio di Nyonoska, a 30 chilometri da Severodvinsk.

In tale località si trova fin dai tempi sovietici un “Poligono centrale di Stato per le prove della Marina”, o, per dirla alla russa, Gosudarstvennij Zentralnij Morskoi Poligon.

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La deflagrazione avrebbe ucciso cinque persone, scienziati addetti allo sviluppo tecnico del vettore, e, pare, anche due militari, ma comunque per ora sono state rese pubbliche le generalità dei soli accademici, tutti esperti di sistemi nucleari e di isotopi radioattivi, di età compresa fra la quarantina e la settantina: Alexey Vyushin, Evgheny Korataev, Vyacheslav Lipshev, Serghei Pichugin e Vladislav Yanovsky.

La gravità della perdita, non solo umana, ma anche in termini di competenza ed esperienza per i programmi nucleari russi, si intuisce considerando che gli scienziati sono stati seppelliti con tutti gli onori mediante solenni funerali a cui hanno partecipato migliaia di persone il 12 agosto a Sarov, centro nevralgico dell’industria atomica russa, e definiti “veri eroi” dal capo dell’agenzia atomica statale Rosatom, Alexei Likachev.

Secondo la stampa russa, in riconoscimento del loro sacrificio nel testare un’arma evidentemente ancora imperfetta e pericolosa, lo Stato verserà a ogni famiglia dei caduti un risarcimento equivalente a circa 120 salari mensili degli scienziati, oltre a occuparsi del mantenimento agli studi dei loro figli minorenni fino al raggiungimento dell’età adulta.

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Presso le loro tombe, al centro ricerche di Sarov, verrà realizzato un monumento a imperitura memoria, anche perchè, stando al direttore del centro, Valentin Kostyukov: “avevano tentato di riprendere il controllo della situazione, ma non ci sono riusciti”.

Una teoria alternativa sull’incidente è stata tardivamente diffusa tre settimane più tardi, il 29 agosto, dalla rete americana CNBC, che appellandosi alle sue indefinite “fonti di intelligence”, ha fatto dire ad alcuni anonimi: “Non era un nuovo lancio dell’arma, ma una missione di recupero di un missile perduto in un precedente collaudo. C’è stata un’esplosione su una delle navi impiegate nel recupero, che ha causato una reazione nel nocciolo nucleare del missile portando alla perdita radioattiva”.

Come vedremo più avanti, la CNBC già da tempo parlava spesso di “test falliti” del Burevestnik, ma non si è in grado di stabilire fino a che punto ciò sia plausibile o rientri in una guerra informativa per screditare le capacità dell’avversario.

 

Radioattività in aumento

L’incidente, sulla cui precisa causa forse non si saprà mai nulla, sarebbe potuto passare sotto silenzio se, come sembra, non avesse implicato una certa dispersione nell’ambiente di sostanze radioattive.

Rosatom ha rilevato a partire dal giorno dell’incidente, e almeno fino all’11 agosto, un sensibile aumento dei livelli di radioattività ambientale fino a Severodvinsk e ad Arcangelo, dai circa 0,11 micro Sievert/h a 2 micro Sievert/h.

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Anche l’istituto meteorologico russo, detto Rosgidromet ha parlato per il periodo dell’incidente di “livelli di radiazioni gamma da 4 a 16 volte superiori alla quantità naturale nell’area di Severodvinsk”.

Nei medesimi giorni, inoltre, il centro di rilevamento radiazioni di Svanhovd, nella confinante Norvegia, ha registrato aumenti molto limitati dei livelli naturali, che però non è sicuro siano da legarsi all’incidente.

Uno dei primi indizi su quanto accaduto è costituito da un’immagine satellitare resa disponibili da PlanetLabs, che mostrava il giorno stesso dell’incidente una nave specializzata della Marina russa, la Serebryanka, nelle acque della zona di Severodvinsk.

Ciò ha messo in allarme per primi esperti americani come Jeffrey Lewis, che hanno ipotizzato un probabile test del Burevestnik andato storto. Come vedremo, infatti, non sarebbe la prima volta, secondo gli americani, che il missile fa cilecca e alcuni suoi rottami finiscono nell’Oceano Artico per poi essere recuperati grazie alle sofisticate attrezzature della Serebryanka, unità dedicata proprio al trattamento di materiali nucleari.

Dalla Russia, mentre i media Isvestija negavano qualsiasi correlazione col nuovo missile, l’agenzia Rosatom dichiarava il 9 agosto, senza dare dettagli, che “l’incidente è accaduto durante il collaudo di una sorgente di energia a isotopi per un motore a razzo con carburante liquido”.

Una frase sibillina, probabilmente mezza verità, mezza menzogna, architettata giocando sul fatto che i russi, storicamente, sono stati fin dal tempo dell’Unione Sovietica i principali utilizzatori di piccoli generatori termoelettrici a radioisotopi imbarcati soprattutto sui loro proverbiali satelliti Cosmos e su svariate sonde spaziali.

Sull’aspetto radioattivo dell’incidente, sebbene limitatissimo rispetto alla tragedia di Chernobyl del 1986, le autorità russe non potevano più negare, anche perchè gli abitanti del villaggio vicino alla base del test sono stati evacuati e perfino nella grossa città di Severodvinsk, gran parte della popolazione si è precipitata nelle farmacie a fare incetta di iodio, elemento che assunto aiuta a limitare i danni da esposizione a radiazioni superiori alla norma.

La prova del nove sembra essere la chiusura alla navigazione di un ampio tratto nella zona di mare interessata. Il 12 agosto, lo stesso presidente americano Donald Trump non poteva esentarsi da uno dei suoi commenti su Twitter, citando il missile russo nel codice nominativo NATO: “Gli Stati Uniti stanno apprendendo molto sull’esplosione del missile nel test fallito in Russia. Noi abbiamo una tecnologia simile, ma più avanzata. L’esplosione dello Skyfall russo ha fatto preoccupare la gente a proposito dell’atmosfera attorno alla base e ben oltre. Non è una cosa buona!”.

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Per un mese, dal 9 agosto e fino al 10 settembre, la baia della Dvina, larga 130 km e lunga 93, è stata vietata alla navigazione civile, a maggior ragione ai pescherecci, e solo le navi militari possono accedervi, specie la citata Serebryanka.

In tal modo, si evita che navi straniere possano ficcare il naso, riuscendo magari a carpire nuovi elementi sul favoleggiato missile a motore nucleare. Anche se, ripetiamo, la diffusione radioattiva nell’atmosfera e nelle acque circostanti pare davvero poca cosa rispetto all’esplosione della famosa centrale nucleare sovietica di 33 anni fa, assurta a simbolo e termine di paragone di ogni incidente nucleare, non v’è dubbio che il clima sia stato parzialmente simile.

Da un lato per l’ovvia reticenza di Mosca nel parlare dell’episodio, dall’altro per le gravi condizioni in cui si trovavano gli almeno tre feriti causati, oltre ai suddetti morti, dall’esplosione a Nyonoska. I testimoni hanno riferito alla stampa che i feriti sono stati trasportati d’urgenza in un ospedale di Arcangelo, dove sono arrivati “completamente nudi e avvolti in sacchi di plastica traslucida”, probabilmente a seguito di una qualche sommaria opera di decontaminazione radioattiva effettuata prima del ricovero, rimuovendo in primo luogo gli abiti e poi isolando i corpi dall’ambiente esterno.

Il ricovero sarebbe stato seguito passo per passo da agenti dell’FSB, il servizio segreto interno russo, che avrebbero concordato con pazienti e medici l’estrema riservatezza sui dettagli.

 

Segreti da difendere

E si capisce, poichè dalla natura dei radioisotopi le potenze straniere potrebbero arguire il segreto tecnico del mini-reattore atomico che sarebbe stato impiegato per la propulsione del missile super-segreto.

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Il sospetto che i russi avessero montato sul Burevestnik non un vero reattore nucleare a fissione, bensì un più semplice generatore termico a radioisotopi, come quelli spesso alloggiati su satelliti spaziali, sembra essere stato poi definitivamente fugato il 27 agosto, quando ancora l’istituto Rosgidromet ha elencato gli elementi radioattivi rilevati nella zona nell’arco di tempo “fra l’8 e il 23 agosto” nell’area tra Severodvinsk e Arcangelo.

La nuova nota dell’ente meteorologico russo recita: “La composizione ha mostrato la presenza di radionuclidi a vita breve Stronzio 91 (emivita 9,3 ore), Bario 139 (emivita 83 minuti), Bario 140 (emivita 12,8 giorni) e del suo radionuclide sussidiario Lantanio 140 (emivita 40 ore)”.

Sono tutti elementi che indicano l’esistenza di un vero reattore a fissione, come hanno commentato esperti del calibro del fisico norvegese Nils Bohmer: “La presenza di prodotti di decadimento come il bario e lo stronzio deriva da una reazione nucleare a catena. Si tratta di una prova che quello che è esploso era un reattore nucleare”.

A riprova, non sono stati rilevate invece tracce di altri radionuclidi tipici invece dei generatori a isotopi, ovvero Plutonio 238, Stronzio 90, Americio 231 e Polonio 210, quest’ultimo famoso per l’oscuro avvelenamento dell’ex-spia russa Alexander Litvinenko nel 2006.

 

La “procellaria” di Putin

Come ribadivamo all’inizio, il Burevestnik sarebbe propulso da un motore nucleare che lo renderebbe un’arma davvero rivoluzionaria. Il nocciolo della sua realizzazione sarebbe ovviamente la capacità di realizzare un motore nucleare sufficientemente miniaturizzato per essere accolto all’interno della fusoliera di un piccolo missile da crociera.

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E’ un’impresa tecnica non da poco, a dispetto del fatto che Trump, nel suo commento Twitter abbia sostenuto che gli americani sarebbero a un livello più avanzato dei russi su questa strada. Ma i dubbi espressi da molti analisti, secondo cui il missile russo potrebbe essere solo una sorta di “bluff”, poco diverso da quello messo in piedi nel 1983 da Ronald Reagan con le “guerre stellari”, indicano che un apparecchio del genere non è affatto scontato, probabilmente nemmeno per gli stessi USA.

Trump si riferiva forse al fatto che gli americani per primi avevano progettato, ma poi abortito, un missile a propulsione atomica fin dagli anni Sessanta, lo SLAM/Project Pluto di cui parleremo fra poco, ma si trattava di un velivolo assai grosso e ingombrante.

Vediamo ora di ripercorrere la genesi e le caratteristiche, peraltro solo stimate, del Burevestnik. Le poche fonti disponibili danno a intendere che l’idea di tale missile da crociera sarebbe germogliata in Russia dopo il ritiro unilaterale degli Stati Uniti dal trattato ABM che limitava le difese contro i missili balistici intercontinentali annunciato nel 2001 dal presidente George Walker Bush e divenuto effettivo dal 2002.

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Era già un pericoloso precedente rispetto alla recente questione del Trattato INF che vietava in Europa i missili a medio raggio, da cui gli americani si sono ritirati quest’anno, facendo temere ai russi che Washington voglia far decadere anche il New START che limita il numero delle armi nucleari strategiche, in scadenza nel 2021.

Come si sa, il trattato ABM, firmato nel 1972 a Mosca da Richard Nixon e Leonid Brezhnev, riduceva all’osso le armi antimissile americane e sovietiche per non compromettere la deterrenza e il timore reciproco di una rappresaglia atomica, unico reale freno alla guerra nucleare tra USA e URSS.

L’uscita dell’America dal trattato trent’anni più tardi pose alla Russia il problema della crescita indiscriminata delle difese antimissile, con conseguente rischio di diminuzione dell’efficacia del proprio arsenale nucleare nell’assicurare la deterrenza.

Anche se nessuna difesa antimissile può essere impenetrabile, soprattutto nel caso di lanci multipli di decine di vettori e centinaia di testate multiple MIRV, la sola speranza di poter arrestare, se non tutte, almeno gran parte delle armi nucleari in arrivo può ingenerare la, a nostro parere falsa, convinzione che sia possibile vincere un conflitto in cui venissero impiegate armi nucleari strategiche.

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Perciò, fra le tante nuove armi studiate per aggirare il problema dello scudo antimissile statunitense, efficace soprattutto nei confronti dei veicoli di rientro balistici provenienti dall’Eurasia tramite parabole abbastanza intuibili sopra gli oceani Pacifico e Artico, si è pensato a un missile da crociera a lunghissima autonomia, talmente ampia da risultare imprevedibile nella rotta d’avvicinamento e anche nei tempi di arrivo.

E quale soluzione migliore di un vettore che, una volta lanciato, inizia una vera circumnavigazione del globo per via aerea, vagabondando giorni e giorni con continue correzioni di rotta sopra regioni remote, per poi dirigere a sorpresa verso le zone meno protette degli Stati Uniti, o di qualsiasi altro eventuale avversario?

Così iniziò il lavoro sul missile in seguito chiamato Burevestnik, nato negli uffici di progettazione della Novator di Ekaterinburg con la sigla 9M730. Al lavoro parteciparono fin dall’inizio scienziati dello stabilimento nucleare di Sarov, fra i quali presumibilmente potevano essere compresi anche i cinque sfortunati caduti dell’incidente dell’8 agosto scorso.

Non è chiaro se un primo prototipo del missile fosse già stato provato nel 2016 al poligono di Kapustin Jar, ma appare più sicuro, da fonti d’intelligence della stampa americana parzialmente confermate dalle dichiarazioni dello stesso Putin, che almeno quattro collaudi iniziali si svolsero fra novembre 2017 e febbraio 2018, sempre a Kapustin Jar e anche in una zona deserta della fredda isola artica della Novaja Zemlja.

Poco dopo, il 1° marzo 2018, Putin annunciava ufficialmente l’esistenza dell’arma nel corso del suo solenne discorso all’Assemblea Federale russa, dichiarando: “I nostri nuovi sistemi d’arma sono basati su risultati unici raggiunti dai nostri scienziati, progettisti e ingegneri. Uno di questi è la creazione di un generatore di energia nucleare di piccole dimensioni, alloggiato all’interno di un missile da crociera similare al nostro Kh-101 o al Tomahawk americano, ma al tempo stesso in grado di farlo funzionare per un tempo dozzine di volte superiore, con un’autonomia di volo praticamente illimitata. Un missile da crociera a basso profilo di volo, difficilmente rilevabile, trasportante una testata nucleare e con una gittata illimitata, con una traiettoria di volo imprevedibile e con la possibilità di scansare le linee difensive d’intercettazione è invulnerabile a tutti i sistemi, esistenti e allo studio, per la difesa aerea e antimissile”.

Putin ha dato molta enfasi all’arma, come anche alle altre presentate in tale occasione, proprio per lanciare un preciso messaggio politico agli Stati Uniti, che oltre a proseguire l’espansione delle loro basi antimissile avanzate in Romania e Polonia, già meditavano di ritirarsi anche dal trattato INF, come poi avrebbero fatto nel 2019.

La valenza del missile imprevedibile a raggio illimitato come risposta alla voglia di unilateralismo americano, senza riconoscere da parte di Washington alla Russia di oggi quella parità di dignità diplomatica riconosciuta de facto, a suo tempo, all’Unione Sovietica, è lampante.

Nel suo discorso, il presidente russo ha poi accennato oscuramente alla sperimentazione del Novator 9M730: “Alla fine del 2017 un lancio riuscito del nuovissimo missile da crociera russo a propulsione nucleare ha avuto luogo presso il poligono centrale della Federazione Russa. Nel corso del volo, il generatore di potenza nucleare ha raggiunto il livello di potenza impostata, ottenendo la spinta necessaria. Il lancio del missile e una serie di prove a terra ci permettono di procedere con un tipo fondamentalmente nuovo di armi, un complesso strategico di armi nucleari con un missile equipaggiato con un motore nucleare”.

E chiudeva: “Come sapete, non esiste ancora nulla di simile nel resto del mondo. Un giorno, forse, apparirà, ma durante questo periodo i nostri ragazzi penseranno a qualcos’altro”. Poche settimane dopo il discorso di Putin, il 22 marzo 2018, a seguito di una sorta di concorso pubblico, i russi sceglievano per il Novator 9M730 un nome dalla notevole potenza simbolica, Burevestnik, appunto, che significa Procellaria, l’uccello che col suo volo sopra i mari annuncia ai naviganti l’arrivo di terribili tempeste!

 

La propulsione nucleare

Sui primi test del missile si sa ben poco, se non che sono stati di durata molto limitata e hanno coperto, a dispetto delle ambizioni globali del Burevestnik, al massimo 40 chilometri di gittata. Non è chiaro se, come suggerisce il think tank americano Global Security, ci possano essere legami con tracce di isotopi di Rutenio 106 rilevate nell’autunno 2017 al di sopra dell’Europa, portate da venti provenienti dalla Russia e rilevate dall’istituto nucleare francese IRSN.

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La natura esatta del propulsore nucleare del missile resta segreta, ma sul suo principio di base gli esperti concordano. Si tratterebbe di un piccolo reattore atomico a ciclo aperto la cui funzione è quella di riscaldare ad altissima temperatura l’aria inghiottita da una presa d’aria anteriore e poi espulsa ad altissima velocità e con conseguente espansione termodinamica dall’ugello di scarico del motore.

Dal punto di vista puramente meccanico si tratterebbe nient’altro che di uno statoreattore, o ramjet, quel tipo di motore a reazione totalmente privo di parti rotanti mobili come compressori e turbine. Ridotto all’essenziale, questa sorta di “tubo di scarico propulsivo” non fa altro che riscaldare l’aria captata dalla presa d’aria e accelerata dalla variazione di diametro del condotto secondo il principio del “tubo Venturi”, ossia divergente-convergente.

I classici ramjet sono noti almeno dagli anni Cinquanta e utilizzati soprattutto per i missili. Fra i pionieri del loro uso su aeroplani è doveroso ricordare il francese Renè Leduc, che aveva completato già 70 anni fa il suo primo importante prototipo Leduc 010, collaudato in volo il 21 aprile 1949 dopo essere stato sganciato in quota da un aereo-madre, un quadrimotore a elica Languedoc.

L’utilizzo di un velivolo a ramjet puro come aeromobile parassita sganciato in volo, sia esso aereo o missile, è sempre stato un passo obbligato per un motivo molto semplice: lo statoreattore, senza alcuna componente girante, non può aspirare l’aria autonomamente a velocità zero, ma, perchè si inneschi la propulsione, deve già usufruire di una corrente aerea in entrata, pari a una velocità relativa dell’ordine di almeno 300 km/h.

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Per la scarsa praticità in termini di decollo autonomo, il programma di sviluppo degli aerei pilotati a statoreattore venne bloccato per sempre dalla Francia nel 1958, con gran dispiacere di Leduc, pioniere tutt’oggi dimenticato.

Nel motore a ramjet del Burevestnik il reattore nucleare ha la funzione di rendere incandescente il flusso d’aria propulsiva, sostituendosi meramente a una tradizionale camera di combustione alimentata a kerosene o ad altri combustibili fossili.

Ma con la rivoluzionaria differenza di assicurare un tempo di funzionamento lunghissimo, pari alla durata delle barre, o pastiglie, di materiale fissile utilizzato nella reazione controllata. Che poi non abbia la forza di partire autonomamente da fermo, non è un problema.

I russi avrebbero appunto dotato il missile di un non meglio specificato booster a razzo, a normale combustibile liquido, utilizzato per il decollo e per la prima fase di accelerazione, finchè non venga raggiunta la velocità necessaria a far entrare lo statoreattore in regime di propulsione efficace.

Potrebbe essere questo il motivo che il pur laconico comunicato della Rosatom emesso il 9 agosto sull’incidente parlava di “sorgente di energia a isotopi per un motore a razzo con carburante liquido”.

Non si tratta affatto del primo tentativo di adottare la propulsione nucleare per macchine volanti, ma molti esperti occidentali sono assai scettici sulla possibilità di realizzare effettivamente un reattore nucleare di apprezzabile potenza del diametro compatibile per essere montato dentro la fusoliera di un missile da crociera, grossomodo fra i 60 e i 70 centimetri.

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In mancanza di dati diffusi dai russi, il professore americano Jeff Terry, dell’Istituto di Tecnologia dell’Illinois, ha dichiarato che, da suoi calcoli approssimativi, la potenza del reattore del Burevestnik dovrebbe aggirarsi sui 766 kiloWatt, pari alla forza necessaria per far volare un oggetto del peso e dell’ingombro di un classico “cruise” a velocità subsoniche a bassa quota.

Certamente un gran contributo nel rendere possibile questo ordigno lo offre il risparmio di peso dovuto al fatto che il reattore nucleare non ha alcuna pesante schermatura al piombo, per cui durante il volo l’ugello di scarico del missile si lascerebbe dietro una spettrale scia di elementi radioattivi che l’aria propulsiva trascinerebbe con sè strappandoli al “nocciolo” che l’ha riscaldata. Il missile avrebbe quindi lo stesso effetto collaterale che già mezzo secolo fa fu il principale motivo dell’annullamento di un progetto per certi aspetti (ma non tutti) simile, sviluppato però dagli americani.

 

“Il Project Pluto”

Per ironia della sorte il Burevestnik può essere considerato una sorta di erede odierno di un missile a propulsione nucleare che gli USA tentarono di sviluppare in piena Guerra Fredda, a cavallo fra le amministrazioni Eisenhower e Kennedy, per poi rinunciarvi a cagione di una serie di problemi pratici.

Si trattava del massiccio SLAM, da Supersonic Low Altitude Missile, che spesso è però più noto come “Pluto” o “Project Pluto”, nonostante questo secondo nominativo fosse in verità riservato al programma di sviluppo del suo solo reattore nucleare.

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Fu nel 1957 che il Project Pluto venne avviato, su richiesta dell’US Air Force e della Commissione per l’Energia Atomica, che incaricarono dell’incombenza i laboratori Lawrence Radiation, sotto la guida del professor Theodore Merkle. Senza dilungarci troppo, ricorderemo che la progettazione del propulsore si indirizzò subito verso il suddetto principio del ramjet con flusso riscaldato da un reattore atomico, esattamente come nell’odierno missile russo.

Per il velivolo vero e proprio, lo SLAM, dopo studi di fattibilità realizzati da varie industrie aeronautiche concorrenti, come North American, Convair e LTV Vought, nel settembre 1959 l’USAF assegnò l’incarico principale alla terza azienda.

Il progetto di massima sviluppato da Vought prima dell’abolizione del programma si presentava comunque concettualmente diverso rispetto alla “Procellaria” di Putin. Era più una specie di bombardiere altamente supersonico, lungo oltre una ventina di metri, e in grado di volare per un’autonomia stimata di 182.000 chilometri effettuando larghi giri di approccio verso l’Unione Sovietica in caso di impiego bellico.

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La velocità prevista doveva essere favolosa, e non solo per quei tempi. Si pronosticavano Mach 4,2, ovvero circa 4300 km/h, ad alta quota, fra 9.000 e 10.000 metri, e fra Mach 3 e 3,5, oltre i 3500 km/h, a bassissima quota, intorno ai 300 metri.

Lo SLAM, nei pochi disegni preparatori realizzati, appare come un missile con ridottissime superfici alari e direzionali, fra cui alette canard nel muso. Era dotato di un’ampia presa d’aria ventrale destinata ad alimentare il flusso che sarebbe stato riscaldato dal reattore nucleare. Il decollo, trattandosi comunque di un velivolo a statoreattore, sarebbe avvenuto sotto la spinta di booster ausiliari poi sganciati.

Lo SLAM, tuttavia, a differenza del Burevestnik, sarebbe stato più che altro un vettore di testate nucleari, destinato solo a missione compiuta a schiantarsi in territorio nemico aggiungendo ulteriori danni ai suoi bombardamenti, quelli radioattivi prodotti dalla distruzione finale del proprio stesso reattore.

Di questo colosso si sa che lunghezza calcolata dagli ingegneri della Vought doveva toccare 26 metri e il peso complessivo doveva essere di ben 27 tonnellate, anche perchè si era pensato di impiegare per la costruzione soprattutto acciaio ad alta resistenza, anzichè leghe d’alluminio, per resistere al calore dell’attrito nel volo altamente supersonico a bassa quota.

Il carico bellico doveva consistere in ben 16 testate nucleari da 1,2 megatoni ciascuna da sganciare in sequenza una volta entrato in territorio nemico. In questo aspetto, lo SLAM/Pluto era più simile a un drone che a un missile propriamente detto.

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Sarebbe stato lanciato nell’imminenza di un attacco all’URSS, tenendosi ad alta quota e alla velocità massima nelle fasi di avvicinamento, per poi abbassarsi alla quota di attacco su preciso segnale dallo Strategic Air Command dell’USAF. A partire da un certo punto, avrebbe proseguito lungo una rotta preprogrammata seguendo un sistema TERCOM di confronto radar con i territori sorvolati sulla base di mappe memorizzate, e portandosi di volta in volta sopra i 16 obbiettivi prescelti.

Il nucleo del Project Pluto, ossia il motore, procedeva più speditamente della parte meramente aeronautica. La squadra del prof. Merkle mise a punto entro l’inizio degli anni Sessanta un reattore il cui ingombro era concentrato in appena un metro e mezzo di lunghezza, per un diametro di poco più di un metro.

Caricato con quasi 60 chili di uranio, sembra che fosse così “spinto” da assicurare una potenza di 600 Mega Watt, lavorando su una temperatura critica di 1.200 gradi centigradi. Aveva margini così ristretti che sarebbe stato perfino a rischio di incendio. L’aria veniva riscaldata in modo capillare attraverso una fitta rete di condotti che attraversava il “nocciolo”.

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E lo scarico, assolutamente non schermato, era composto da una pericolosa scia di sostanze radioattive. Il primo reattore Pluto, assemblato insieme al relativo complesso ramjet e battezzato Tory-IIA, venne sperimentato per la prima volta il 14 maggio 1961 su una rotaia posta nel poligono sperimentale di Jackass Flats, nel Nevada.

Le prove statiche e dinamiche del motore, poi perfezionato come Tory-IIC, proseguirono fino al 1964, quando la nuova amministrazione Johnson pose fine al programma. Nel frattempo la realizzazione della cellula dello SLAM era pure incompleta, tanto che il primo collaudo in volo dell’ordigno era previsto non prima del 1967.

Molti furono i dubbi che portarono alla fine ufficiale dello SLAM/Pluto, decretata il 1° luglio 1964. Anzitutto una bilancia costi-efficacia, rispetto al fatto che erano ormai disponibili vari missili intercontinentali ICBM in grado di raggiungere il territorio sovietico in meno di mezzora e senza, all’epoca, possibilità di intercettazione.

Poi il timore che la realizzazione di un’arma così imprevedibile potesse spaventare i sovietici facendo loro temere che gli USA si stessero preparando a un’aggressione, lanciando così un segnale diverso da quello voluto che era invece il mostrare svariate risorse di rappresaglia, senza contare che i russi avrebbero potuto in poco tempo realizzare essi stessi qualcosa di simile.

E infine, ma non era certo una questione di secondo piano, il fatto che il missile a propulsione atomica avrebbe seminato lungo il suo passaggio, anche sopra molti paesi alleati degli Stati Uniti, sia in Europa, sia in Asia, un inquinamento radioattivo di per sè pericoloso.

 

I vantaggi del Burevesntik

Il Burevesntik, pur in parte ispirato allo SLAM/Pluto, ne differisce anzitutto per essere non un bombardiere senza pilota, ma un piccolo missile da crociera, e per trasportare una singola testata, di potenza non dichiarata.

E’ invece simile dal punto di vista dei criteri d’impiego e la sua realizzazione pratica è dovuta al fatto che oggi, con l’espansione delle difese antimissile, il contesto strategico avvantaggia molto questo tipo di arma rispetto ai troppo prevedibili missili balistici.

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Sulle caratteristiche aeronautiche del Novator 9M730 si possono solo fare supposizioni sulla base di un filmato di lancio da terra in cui l’arma è vista da lontano, con la poderosa scia di fuoco del booster di lancio, ma senza poter apprezzare la sua sagoma.

In un’altra sequenza si nota un ingrandimento del missile ripreso da lontano e si può intravedere la sagoma di un classico “cruise”, un po’ più acuminato del solito e con quella che sembra una vistosa appendice, o pinna, nella parte ventrale della coda.

Molto più nitide, ma altrettanto criptiche sono invece immagini diffuse nel luglio 2018, sempre dal governo di Mosca, in cui, all’interno di un capannone lindo e asettico, che potrebbe essere parte del complesso Novator di Ekaterinburg, si vedono alcuni tecnici che inscenano un armeggiare indaffarato attorno a presunti Burevestnik.

Alcuni di essi sono contenuti in vistosi moduli di lancio, o “canister”, nel classico colore verde scuro, dalla cui apertura anteriore fa capolino solo l’ogiva rossa del missile.

Un altro missile è invece fuori dal modulo, ma ricoperto da teloni sotto cui si indovina la vaga sagoma delle ali aperte e della fusoliera, e da cui spunta, anche in tal caso, solo la prua. Si può ben vedere che il muso del missile non è una classica ogiva a sezione tonda, ma piuttosto un elissoide schiacciato, probabilmente per aiutare a ridurre la traccia radar frontale, oltre che, come conseguenza non prioritara, generare forse una piccola porzione di portanza supplementare, a integrazione delle ali.

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Nel video, i tecnici della Novator vestono tute bianche e appaiono intenti a controlli di imprecisata natura. Il filmato è ovviamente una sorta di messa in scena, nel senso che i russi non potrebbero certo mostrare lavori e controlli reali, da cui esperti ingegneri stranieri potrebbero trarre informazioni utili a capire almeno alcune caratteristiche della macchina.

Del resto, in una sequenza si vede uno dei tecnici che sembra “avvitare” qualcosa lungo la fiancata destra del muso di un Burevestnik, la quale però, almeno a giudicare dalle immagini, e compatibilmente con la distanza, sembra perfettamente liscia, mentre invece in un’altra scena, è sulla fiancata sinistra, e non destra, del muso che si notano dettagli come viti, bulloni o prese di cavi, su cui si potrebbe realisticamente condurre un lavoro manuale, anzichè solo “fingere” di farlo.

Le dimensioni del Burevestnik sono state stimate, con molta approssimazione, in una lunghezza iniziale di 12 metri al momento del decollo, compreso il booster a razzo per l’accelerazione iniziale, poi ridotta a 9 metri nel volo di crociera una volta espulso il booster e innescato lo statoreattore a nocciolo nucleare.

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La sezione frontale del muso, per come si vede dal suddetto filmato, misurerebbe circa 1 metro in spessore e 1,5 metri di larghezza. L’ingombro del velivolo è quindi abbastanza limitato e lo rende, teoricamente, in grado di decollare da rampe terrestri, come finora sperimentato, e col proseguire dei test probabilmente anche aeree e marittime.

Sebbene troppo grosso per essere sganciato da un caccia, potrebbe essere facilmente trasportato da un bombardiere strategico Tupolev, per non parlare di unità navali di superficie o subacquee, una volta eseguiti i vari lavori di adattamento.

L’orizzonte della sua entrata in servizio potrebbe essere attorno al 2020-2021, come indicato da Putin un po’ per tutta la serie di nuove armi strategiche annunciate lo scorso anno. E proprio per questo, molti ritengono che possa trattarsi di una operazione di facciata per spingere gli Stati Uniti, se non a riconsiderare la decisione di uscire dal trattato INF, almeno di confermare il prossimo rinnovo del trattato New START, che scade proprio nel 2021.

 

L’inganno di Mosca

Stando a quanto scritto a suo tempo da Foreign Policy, l’intelligence americana ha osservato alcuni dei primi test del Burevestnik per via satellitare nella Novaja Zemlja, almeno fino all’estate del 2018: “Il sito di lancio stesso era molto distinto.

Consisteva in un rifugio ambientale in cui gli scienziati potevano preparare il missile prima del suo lancio. Il rifugio è stato montato su rotaie in modo da poter essere ritirato quando la squadra era pronta a testare il missile. E, per qualche ragione, tutte le attrezzature sono apparse in diversi container blu”.

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Gli Stati Uniti hanno ripetutamente sostenuto, a partire da un reportage della rete CNBC che si basava su indiscrezioni da fonti d’intelligence, che i primi test del Burevestnik sono semplicemente “falliti” essendosi conclusi dopo pochissimi chilometri di volo.

E’ presumibile però che il missile non imbarcasse ancora il reattore nucleare e che si trattasse solo di prove di lancio della cellula aerodinamica grazie al solo booster a razzo. Il 22 maggio 2018 un ingegnere del complesso militar-industriale russo, Victor Murakhovsky, così ribatteva, intervistato dai media statali Novosti: “E’ chiaro da dove hanno ricevuto queste informazioni. Probabilmente hanno ottenuto le immagini satellitari dell’NRO (il National Reconnaisance Office che gestisce l’osservazione spaziale americana, n.d.r.). Tuttavia questa pubblicazione non ha idea del programma di test, di quale fase dei test si sta discutendo”.

Murakhovsky corroborando l’ipotesi che i test “falliti” fossero solo prove di lancio col booster, ha spiegato: “Un prodotto a grandezza naturale decolla, vola per diversi chilometri, ma non accende i suoi principali motori di marcia e cade a terra. Dopo, la telemetria analizza il funzionamento del meccanismo di lancio e del razzo stesso”.

Eppure i media internazionali hanno ancora parlato di test falliti e di missili da recuperare sul fondo delle acque artiche. Così, il 22 agosto 2018, ancora CNBC parlava di una squadra di navi russe, fra cui la Yantar, specializzata in recuperi sottomarini, e la già citata Serebryanka, scortate da almeno due sottomarini d’attacco, nella zona fra il Mare di Barents e il Mare di Kara.

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In tale contesto, l’acquisizione di informazioni sul missile e su sue eventuali parti inabissatesi, vedrebbe un silenzioso e oscuro confronto fra la Marina Russa e la US Navy, che regolarmente invia nella zona sottomarini della sua unità Submarine Development Squadron Five, composto dai tre sottomarini d’attacco classe Seawolf :USS Seawolf, USS Jimmy Carter e USS Connecticut (nella foto a lato).

Col passare del tempo, comunque, sembra resistere l’interessante supposizione che il Burevestnik faccia parte di un congegnato piano di “maskirovka”, ossia di mascheramento e inganno, portato avanti deliberatamente dal Cremlino per far credere di avere armamenti che in realtà non possiede.

Se fosse davvero un inganno come quello di Reagan col suo SDI, si tratterebbe però di un inganno pericoloso, sul filo del rasoio, poichè l’esistenza di simili armamenti non lascerebbe indifferenti gli Stati Uniti, spingendoli a reagire ulteriormente.

Sembra invece più probabile che non si tratti di un bluff di Putin, ma di una delle reali contromisure adottate per mantenere la parità strategica con un’America che si sta disfando via via dei vincoli ereditati dalla Guerra Fredda, soprattutto in tema di difesa antimissile. E quindi che sia un mezzo, quantomai singolare, per “salvare” la deterrenza, non meno che il pauroso siluro-drone Poseidon da 100 megatoni.

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Negli ultimi mesi, le fonti russe avevano dato per ripresi con successo i test del missile. In particolare, un dispaccio emesso il 21 febbraio 2019 dall’agenzia TASS, diceva: “La fase principale dei test del missile da crociera Burevestnik, che riguarda l’unità di propulsione nucleare, si è conclusa con successo lo scorso gennaio in una delle strutture di produzione.

Durante le prove sono state mantenute le specifiche di funzionamento del reattore che gli assicurano un raggio d’azione illimitato”.  Poche parole che potrebbero essere interpretate come segue. Durante tutti i test di lancio effettivamente condotti all’aria aperta con la cellula aerodinamica del missile, ci si è limitati a perfezionare la tecnica del decollo fino al momento in cui viene sganciato il booster del razzo.

Perciò sono stati tutti lanci brevi, in termini di tempo e gittata. Nei primi lanci il motore nucleare non era ancora imbarcato, ma può essere stato aggiunto già una fase successiva per testare la transizione dal volo a razzo al volo a ramjet atomico.

Anche in questi test, però, la distanza percorsa è stata breve, evidentemente per lasciare meno tracce radioattive possibili, nonchè per esporre il meno possibile il missile all’osservazione radar, ottica e termica della ricognizione statunitense.

Pare infatti chiaro che ben difficilmente si arriverà in tempi brevi a un possibile collaudo del Burevestnik mantenendolo in crociera nucleare per lunghi periodi e facendogli percorrere, magari sopra la Siberia, circuiti di migliaia di chilometri in tondo, tantopiù che si rilascerebbero in atmosfera inquinanti radioattivi che potrebbero anche mettere sull’avviso gli americani circa il “segreto” di un reattore atomico così compatto.

 

Conclusioni

La cosa sicura è che le conseguenze radioattive dell’incidente dell’8 agosto 2019 indicano che si è già passati alla fase in cui il Novator 9M730 Burevestnik è completo di motore nucleare a bordo, che evidentemente è destinato a entrare in funzione propulsiva, appena esauritasi la fase del booster.

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Il test a Nyonoska, eseguito su una “piattaforma marittima” potrebbe preludere a un dispiegamento del Burevestnik su vettori navali anche prima di quanto pronosticato. L’esplosione potrebbe indicare però che ci sono ancora molti problemi, forse connessi con le alte temperature in gioco.

Può darsi che quel drammatico giorno si fosse deciso di accendere il reattore nucleare a terra per verificarne il funzionamento prima di un lancio e che un imprevisto aumento di temperatura si sia accidentalmente trasmesso al propellente chimico del booster causando lo scoppio, ma non lo sapremo mai.

Ciò che conta è che quanto quest’arma entrerà in servizio, muterà decisamente lo scenario operativo strategico. Un missile simile, dicevamo, potrebbe restare in volo, giorni o perfino mesi. Ciò significa ampliare enormemente lo spettro di un’azione condotta per via aerea consentendo un approccio lento e massimamente indiretto come quello che, finora, ha potuto essere attuato solo nella guerra terrestre e navale.

Tutti gli aeroplani, e poi i missili, costruiti dall’uomo a partire dal XX secolo hanno sempre avuto un’autonomia misurabile in ore, o al limite in minuti, e per quanto crescente sia stato il raggio d’azione delle macchine volanti, i fortissimi limiti in termini di carburante chimico imbarcato hanno sempre ridotto la portata dell’approccio indiretto a operazioni di piccola scala.

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La durata limitata del tempo di volo costringe necessariamente a un approccio aereo relativamente diretto e qualsiasi deviazione imprevista, se troppo prolungata, rischia di far precipitare un velivolo per esaurimento del carburante, esclusi i casi in cui si ricorra al rifornimento in volo, il quale però resta una misura costosa e poco frequente.

Nessuna squadriglia da bombardamento, per fare un esempio, ha mai potuto restare in volo per una settimana ininterrotta, avendo tutto il tempo di architettare una rotta d’attacco imprevedibile passando sopra regioni remote. Oggi, o meglio fra un paio d’anni, prendendo per buona la tabella di marcia per l’entrata in servizio operativo, ciò potrà essere possibile per il Burevestnik, che non avendo limiti definiti di autonomia può applicare nel senso più completo anche nell’aria la massima strategica di Sun Tzu secondo cui va sferrato un colpo laddove non è atteso.

Lunghissimi tempi di volo possono introdurre con il Burevestnik e forse in futuro con nuovi eventuali velivoli nucleari, una flessibilità finora ignota tra gli ordigni volanti, pilotati o no che siano, grazie a una gradualità di approccio che si traduce in flessibilità e maggior capacità di reagire alle nuove situazioni, scansando gli ostacoli “duri” per “infiltrarsi come acqua fra le crepe”, come avrebbe potuto dire Sun Tzu nel suo linguaggio poetico.

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Sarebbe, in altri termini, come appianare molte differenze fra la strategia aerea e quella navale, introducendo perfino la possibilità che un veicolo aereo si “nasconda” per giorni e faccia scalo in zone segrete, ovvero attenda mettendosi a volare in circuito. Ma questi ulteriori sviluppi, con l’ipotetica nascita di “aeronavi” nel senso più completo del termine, sono ancora di là da venire.

Tornando a limitarci a Burevestnik, per quanto grandi e potenti, anche gli Stati Uniti possono avere notevoli varchi nella loro difesa aerea, soprattutto se riferiti a oggetti che sbucassero a bassissima quota improvvisamente lungo i loro confini.

Il Burevestnik obbligherebbe gli americani a investire molte più risorse nella difesa antimissile, fino a un livello che forse il governo di Washington non è in grado di affrontare, per garantire una capillarità di sorveglianza finora impensabile.

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Ma anche se la US Navy ponesse in stato d’allarme numerosi incrociatori antimissile in perenni pattuglie nel Pacifico e nell’Atlantico, assistiti da navi picchetto-radar supplementari, il missile russo potrebbe, ipoteticamente, seguire una rotta quasi interamente continentale, scendendo lungo tutta l’Africa, “saltando” al di sopra del Sud America e volando poi verso Nord, seguendo grossomodo la catena delle Ande, dove di certo non abbondano postazioni in grado di rilevarlo con sufficiente precisione, fino ad arrivare sul Messico e infine sugli Stati Uniti, andando eventualmente a colpire una qualsiasi delle moltissime città americane che non hanno una copertura antimissile efficace contro “cruise”.

Del resto, l’efficacia delle difese ABM è massima se riferita a ordigni in traiettoria balistica a quote stratosferiche e orbitali, che possono quindi essere avvistati in anticipo da grande distanza, mentre nel caso dei missili da crociera a bassissima quota, l’avvistamento anticipato è molto più problematico e le probabilità di abbatterli sono cospicue solo se una postazione antimissile è già relativamente vicina alla rotta dell’oggetto nemico.

Oltretutto, sapere che un missile nemico può arrivare in un momento ignoto celato nell’arco di molti giorni a venire, obbliga le difese aeree del paese bersaglio a logorarsi in un’attesa indefinita.

Sarebbe come una vera e propria “spada di Damocle” invisibile e perennemente sospesa sopra la testa di chi non sa, fino all’ultimo momento, in che direzione girare il suo “scudo”. Tutto da capire, peraltro, è il tipo di sistema di guida del Burevestnik, che potrebbe essere, almeno parzialmente, autonomo nella fase finale dell’attacco, per evitare che si possano neutralizzare col jamming eventuali segnali di radiocomando provenienti dalla Russia stessa o, via ripetitori, da satelliti o sottomarini in area d’operazioni.

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Perchè il missile possa effettuare lunghe manovre evasive anche quando è ormai in territorio ostile, il suo cervello elettronico dovrà necessariamente incorporare tutte le ultime novità in fatto di ricerche sull’intelligenza artificiale che anche in Russia sono state compiute, come dimostra del resto l’esistenza del robot-cosmonauta Fedor inviato recentemente nello spazio su una navicella spaziale Soyuz MS.

Certo, se è vero che la Russia ha ancora operativo un sistema di rappresaglia automatica a un attacco nucleare nemico, il famoso Perimeter concepito in tempi sovietici e basato sul lancio di missili speciali che ritrasmettano l’ordine immediato di lancio a tutte le basi della “triade nucleare” anche in caso di distruzione dei vertici politici del paese, un’arma come il Burevestnik sarà sicuramente asservita ad esso, confermandosi una nuova inquietante componente della “macchina del Giudizio Universale”, come è stato spesso ribattezzato l’automatismo del colpo su colpo in caso di scontro nucleare strategico.

Dovrà essere poi la diplomazia a far intrecciare tra le potenze i giusti segnali di avvertimento, da interpretare correttamente perchè non si originino corse al riarmo e, nel peggiore dei casi, impieghi bellici che nessuno realmente desidera.

Foto: Ministero Difesa Russo, Daily Express, Us Navy, Moscow Times, TASS, Twitter e US DoD

 

Nato nel 1974 in Brianza, giornalista e saggista di storia aeronautica e militare, è laureato in Scienze Politiche all'Università Statale di Milano e collabora col quotidiano “Libero” e con varie riviste. Per le edizioni Odoya ha scritto nel 2012 “L'aviazione italiana 1940-1945”, primo di vari libri. Sempre per Odoya: “Un secolo di battaglie aeree”, “Storia dei grandi esploratori”, “Le ali di Icaro” e “Dossier Caporetto”. Per Greco e Greco: “Furia celtica”. Nel 2018, ecco per Newton Compton la sua enciclopedica “Storia dei servizi segreti”, su intelligence e spie dall’antichità fino a oggi.

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