L’Italia fa un regalo (anzi due) ai jihadisti
(aggiornato alle ore 2.05)
La liberazione di Silvia Romano dopo un anno e mezzo di prigionia nelle mani dei qaedisti somali di al-Shabab è una buona notizia ma il governo italiano l’ha gestita mediaticamente in modo gravemente dilettantesco.
Le polemiche circa il riscatto pagato non ha molto senso. Poco importa che si siano pagati uno, quattro o più milioni di euro ai terroristi somali anche perché tutti gli Stati occidentali hanno pagato per liberare propri connazionali negando pubblicamente di averlo fatto. Hanno pagato anche quegli Stati che sostengono ad alta voce che “non si tratta coi terroristi”.
Persino gli Stati Uniti, che con i britannici hanno spesso scelto la strada del blitz delle forze speciali per liberare i propri ostaggi, hanno pagato riscatti. Washington nel 2014 accettò di negoziare coi talebani e poi di liberarne 5 importanti esponenti detenuti a Guantanamo per farsi consegnare Bowe Bergdahl, militare catturato dai jihadisti in Afghanistan.
Che il riscatto venga corrisposto in denaro o con la liberazione di prigionieri poco cambia: i terroristi liberati tornano a colpire così come il denaro dei riscatti viene impiegato per rafforzare le strutture e compiere altre azioni terroristiche e insurrezionali.
Anche le polemiche circa la conversione di Silvia Romano all’Islam “per sua libera scelta” lasciano il tempo che trovano. Vivere 18 mesi da prigioniera dei jihadisti somali, specie per una giovane donna “infedele”, comporta necessità di adattamento all’ambiente difficilmente immaginabili da chi non ha vissuto esperienze così traumatiche.
Per quanto ne sappiamo, non si può escludere che tali dichiarazioni facessero addirittura parte del riscatto, cioè fossero state imposte dai sequestratori nella trattativa lunga e difficile con i nostri servizi di sicurezza.
Oppure che abbiano a che fare con l’aiuto fornito dai servizi segreti turchi per la liberazione della ragazza, considerato che Ankara ha oggi in Somalia (come in Libia) un’influenza decisamente superiore a quella italiana.
Del resto, dall’immagine diffusa dall’agenzia di stampa turca Anadolu, che ritrae la giovane italiana dentro un veicolo con addosso un giubbotto antiproiettile turco, si potrebbe ipotizzare che siano stati i servizi di Ankara a prenderla in consegna dagli Shabab per poi consegnarla ai colleghi italiani dell’AISE.
Ipotesi se ne possono fare molte e in ogni caso la scelta religiosa appartiene strettamente alla sfera personale.
L’aspetto su cui è invece doveroso esprimere critiche, anche molto accese, riguarda la comunicazione del rimpatrio di Silvia Romano. Quelle immagini della giovane italiana che scende dall’aereo a Ciampino col capo islamicamente coperto, indossando un vestito somalo da donna musulmana, accompagnate dalle dichiarazioni circa la sua libera conversione all’Islam rappresentano un formidabile successo propagandistico per al-Shabab, per al-Qaeda e per tutta la galassia jihadista e dell’estremismo islamico.
Non è difficile immaginare quanto a lungo queste immagini verranno utilizzate dalla propaganda jihadista per dimostrare alla loro opinione pubblica di riferimento, quella del mondo islamico, la loro superiorità ideologica e religiosa.
Dal rapimento di Silvia Romano i terroristi islamici incassano quindi due grandi successi: quello finanziario con milioni di euro da investire nel jihad e quello mediatico incassato con la presentazione di una giovane “infedele” che, dopo essere stata rapita, afferma di essere stata trattata bene e di avere aderito spontaneamente all’Islam.
Eppure gli aspetti che riguardano la propaganda non costituiscono certo una novità dopo 20 anni di guerra ai jihadisti. Basti pensare che i paesi anglosassoni da tempo non diffondono video del ritorno a casa degli ostaggi liberati e persino dei funerali dei propri caduti militari per non far circolare immagini preziose per la propaganda e le operazioni psicologiche del nemico.
Alla fine del 2001 in una lettera che gli statunitensi sostengono di aver trovato in un covo di al-Qaeda in Afghanistan, scritta da Osama bin Laden al mullah Omar, il capo di al-Qaeda sosteneva che “la guerra dei media è uno dei metodi più forti per ottenere la vittoria finale …. Il 90 per cento della preparazione per le nostre battaglie deve essere affidato al bombardamento mediatico”.
Le cerimonie funebri dei nostri caduti, con tutti i maggiori leader politici e istituzionali raccolti davanti ai feretri, sono state utilizzate in tutti i fronti della lotta al jihad come formidabile strumento di propaganda per dimostrare la vulnerabilità e la debolezza dell’Occidente.
Dibattiamo da due decenni sull’efficacia della propaganda di al-Qaeda e dello Stato Islamico, a quanto pare inutilmente, almeno in Italia.
Eventi come il ritorno a casa degli ostaggi in mano ai terroristi islamici hanno un valore strategico e come tali vanno gestiti, non come se si trattasse della serata finale di un reality show.
Per questo il rientro di Silvia Romano, specie in quel contesto e con la simbologia che il suo abbigliamento rappresenta, doveva essere gestito senza immagini, in forma riservata e con i soli famigliari, oppure con la presenza del presidente del Consiglio e del ministro degli Esteri ma senza dichiarazioni ai media e riprese televisive.
Anche perché con i jihadisti e pure con gli al-Shabab siamo in guerra al punto che in diverse occasioni i suoi miliziani hanno colpito i militari italiani della missione EUTM-Somalia (guidata dal generale italiano Antonello De Sio) che addestra l’esercito di Mogadiscio.
L’ultima volta ci hanno provato con un’autobomba il 30 settembre 2019 e solo la protezione garantita dal veicolo Lince ha impedito che ci fossero vittime tra i nostri militari.
La ricerca spasmodica di una photo-opportunity o di qualche minuto sui tg della sera può produrre danni gravissimi ed è per questo che la comunicazione strategica e di crisi dovrebbe venire affidata a professionisti di questo delicato settore, che peraltro non mancano nelle nostre istituzioni, specie quelle militari.
La liberazione di Silvia Romano è stata gestita con grande professionalità ed efficacia da nostri servizi di sicurezza. Purtroppo non si può dire altrettanto della gestione politico-mediatica del suo ritorno a casa.
Foto: Governo.it, Anadolu e Twitter
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane" e “Immigrazione, la grande farsa umanitaria”. Dall’agosto 2018 al settembre 2019 ha ricoperto l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza del ministro dell’Interno.