Razzi e politica nella guerra di Gaza tra Hamas e Israele

(aggiornato il 21 maggio)

I durissimi scontri degli ultimi giorni fra israeliani e palestinesi hanno assunto soprattutto la forma di un duello balistico a distanza, a suon di razzi, incursioni aeree e artiglieria, sullo sfondo di una nefasta “congiunzione” di circostanze politiche e geopolitiche che hanno fatto sì che troppi attori si trovassero nello stesso momento a potersi avvantaggiare da un aumento della tensione in Medio Oriente. La paventata incursione terrestre nella Striscia di Gaza da parte di truppe e carri armati israeliani, prima annunciata, poi smentita, non si è fino a questo momento verificata, a differenza di quanto accadde in altre precedenti operazioni, fra cui la più recente di grande intensità si era avuta fra luglio e agosto del 2014, nota come “Operazione Margine di Protezione”.

Per adesso, fortunatamente, non è stato ancora raggiunto, in termini di numero di vittime, il picco di violenza toccato nelle operazioni belliche del 2014, che essendo durate per gran parte dell’estate avevano causato circa 2.300 morti ai palestinesi di Gaza e 73 in Israele, ma la situazione odierna è in rapida evoluzione di giorno in giorno. Pur se avvolte nella “nebbia” della guerra che contraddistingue avvenimenti tuttora in pieno svolgimento mentre scriviamo, si possono anzitutto rimarcare almeno due sostanziali certezze emerse fin dalle prime battute della crisi.

 

“Muscoli” balistici

La prima certezza è che l’offensiva con razzi e missili da parte dei militanti palestinesi di Hamas e della Jihad Islamica si è dimostrata molto più massiccia del previsto, come numero di ordigni e anche come raggio d’azione sviluppato, con gittate massime dell’ordine ormai dei 250 chilometri, stando a quanto comunicato il 13 maggio 2021 da Abu Obeida, portavoce dell’ala militare di Hamas, ovvero le brigate Izz al-Din al-Qassam:

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“Colpire Tel Aviv, Gerusalemme, Ashkelon, Ashdod, Beersheba e Dimona, vicine e lontane, è per noi più facile che bere un bicchiere d’acqua. Al nemico diciamo: i tuoi aeroporti ed ogni luogo da nord a sud è alla portata dei nostri razzi”.

E soprattutto ha aggiunto: “Il nuovo razzo Ayyash 250, con gittata superiore a 250 km, è stato lanciato sull’aeroporto di Ramon, 220 km da Gaza”.

In effetti quel 13 maggio un ordigno balistico è arrivato fino alla pista di Ramon, lo scalo aereo della vicina città di Eliat, che è anche base di alcuni dei caccia F-16 Sufa che bersagliano Gaza con missili e bombe guidate JDAM.

Prima di allora, non si era mai saputo nulla di questo ignoto missile, perlomeno sotto quel nome affibbiatogli dai palestinesi in memoria dell’ingegner Yahya Ayyash, che fu tra i fondatori delle proporzionalmente notevoli capacità tecnico-militari di Hamas, prima di essere ucciso nel 1996 dal servizio segreto interno israeliano Shin Bet mediante un telefono cellulare imbottito di esplosivo. L’effetto sorpresa dello svelare un nuovo tipo di missile, che più probabilmente sarebbe un modello iraniano ribattezzato per motivi propagandistici, rientra nella “guerra di nervi” col nemico, per convincerlo che ormai nessun punto di Israele è al sicuro.

Non a caso il comunicato di Obeida menziona anche Dimona, il cuore del programma atomico militare e civile ebraico. Una gittata da 250 chilometri è perfino sovrabbondante per le necessità degli estremisti palestinesi, poiché il territorio di Israele è talmente piccolo da ricadervi interamente. Da Gaza le massime distanze di territorio israeliano sono di circa 200-220 km in direzione Nord, verso la frontiera libanese, e verso Sud, fino al golfo di Eliat, mentre in direzione Est, già a una cinquantina di chilometri si è in Cisgiordania.

I lanci massicci, di cui alcuni con profondità “strategica” rispetto alla scala israelo-palestinese, non sono solo l’indice della volontà di saturare gli apparati di difesa antibalistica israeliani incarnati nel sistema Iron Dome, ma anche l’espressione di un preciso messaggio di forza emanato da Hamas e dalle milizie parallele, che in una sola settimana hanno lanciato un numero di ordigni pari al 60 % di tutti quelli lanciati nei ben due mesi della crisi del 2014.

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Hamas intende in sostanza mostrare platealmente i suoi “muscoli balistici”. Vuole sbandierare, per doppi scopi di confronto strategico con Israele e politica interna infra-palestinese, di aver raggiunto una potenza balistica inedita, quantitativamente e anche qualitativamente. Inedita e, aggiungiamo, molto notevole in proporzione ovviamente alle limitate dimensioni di Gaza e alla sua sostanziale povertà economico-tecnica.

Gittate a parte, una qualità importantissima dei razzi palestinesi, siano essi ordigni autoprodotti, oppure di fornitura straniera, segnatamente iraniana, è il basso costo unitario, che consente di accumulare imponenti riserve e in un secondo tempo, una volta decisa l’azione, sparare salve massive di saturazione.

Sull’ampiezza dell’arsenale balistico di Hamas e della Jihad Islamica non si sono mai avute cifre precise, comprensibilmente, ma solo stime di intelligence. Nel 2014, al tempo dell’Operazione Margine di Sicurezza, gli israeliani lo reputavano attorno ai 10.000 ordigni balistici complessivi, di tutti i tipi.

E all’epoca di quegli scontri i palestinesi ne lanciarono qualcosa come 4.500, intaccando, se le stime erano corrette, il 45% dei loro depositi, ma tanto accadde nel corso di un paio di mesi. Oggi l’ammontare dei vettori di Hamas e affini si è sicuramente ingigantito, sebbene non ci sia accordo condiviso su una stima realistica. Il fatto che solo nella prima settimana della presente crisi, dal 10 al 17 maggio 2021, siano stati lanciati complessivamente più di 3.000 ordigni, fa pensare che l’arsenale palestinese sia molte volte superiore a quello di sette anni fa.

Poichè non è realistico pensare che la dirigenza di Hamas abbia deciso deliberatamente di sacrificare ben il 30% del suo prezioso arsenale balistico in così poco tempo, è intuibile che la sua forza totale va ben oltre 10.000 vettori. Le stime dello Shin Bet parlano di almeno 30.000 fra razzi e missili, ma c’è anche chi propende per numeri ancor più grandi. Per esempio, il noto esperto di strategia americano Edward Luttwak ha dichiarato in un’intervista rilasciata il 14 maggio ad ADN Kronos che l’arsenale balistico di Hamas può aggirarsi su ben “50.000 ordigni, finanziati grazie ai soldi del popolo iraniano”.

Se questa fosse la cifra più vicina alla realtà, allora nelle azioni degli ultimi giorni Hamas avrebbe speso solo il 6% del suo “capitale” missilistico.

O, al più, il 10% dello stock, se avesse invece ragione lo Shin Bet con l’ipotesi dei 30.000 vettori. Luttwak, per inciso, ha sottolineato come, poiché lo scopo dell’offensiva aerea, e di artiglieria, israeliana è proprio diretta alla distruzione, almeno parziale, di questo arsenale, “finchè i raid aerei saranno efficaci non ci sarà alcun bisogno di un’invasione terrestre”.

 

Ragioni politiche interne  

La seconda certezza è che la presente crisi è esplosa in un momento particolarmente travagliato della vita politica sia in Israele, sia nei territori dell’Autorità Nazionale Palestinese. Un momento che ha visto sovrapporsi segnali di instabilità politica interna in entrambe le compagini, talchè si possa dire, in sostanza, che questi episodi di guerra facciano comodo, a dispetto purtroppo delle sofferenze delle rispettive popolazioni civili, ai vertici politici. Per una tragica combinazione, infatti, proprio mentre Israele si dibatteva nella cronica impossibilità di trovare una maggioranza parlamentare alla Knesset, dopo ben quattro tornate di elezioni legislative concentratesi fra aprile 2019 e marzo 2021, in campo palestinese il presidente dell’ANP Abu Mazen, nome onorifico di Mahmoud Abbas, ha deciso di rimandare a data da destinarsi due scadenze elettorali importantissime per i palestinesi, che in pratica non vanno a votare da oltre 15 anni.

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Infatti in questi giorni, il 22 maggio 2021, si sarebbero dovute tenere le prime elezioni legislative palestinesi dal 2006, seguite il prossimo 31 luglio dalle prime elezioni presidenziali dal 2005. Delle nuove consultazioni Mazen/Abbas ha paura per due motivi, ossia la preminenza del movimento Hamas, che domina la Striscia di Gaza, sul suo partito Fatah, più arroccato nei territori palestinesi della Cisgiordania, nonché la candidatura “virtuale” di Marwan Barghouti, il rivale interno a Fatah di Mazen, che pur essendo in carcere in Israele da vent’anni, tanto da essere definito “il Nelson Mandela palestinese”, sta diventando la figura di riferimento di una lista di transfughi di Fatah in polemica col presidente in carica.

Sondaggi preliminari davano Mazen, che intenderebbe cercare la riconferma, perdente, perciò, per conservare, almeno per il momento, il potere, ecco la sua decisione, esternata il 29 aprile scorso, di rinviare le elezioni, sia legislative sia presidenziali, senza indicare date alternative.

E prendendo a pretesto l’impossibilità di partecipare al voto per 300.000 palestinesi residenti a Gerusalemme Est. Ma ciò ha spinto i suoi rivali più agguerriti, quelli di Hamas, a puntare sulla crisi militare, complice il pretesto dell’espulsione di alcune famiglie palestinesi da un quartiere di Gerusalemme Est, per mostrare alla popolazione che, perdurando lo stato di guerra perenne, solo “i duri” di Hamas possono davvero guidare la Palestina.

Per ironia, dall’altra parte della barricata è proprio il premier israeliano Benjiamin Netanyahu a ragionare in termini speculari. Negli altalenanti equilibri politici israeliani, senza una maggioranza solida alla Knesset da ormai due anni, l’aggravarsi dello stato d’emergenza contribuisce a prolungare l’incarico del premier uscente, essendo la sua nomea di “falco” presentata dal suo partito Likud come la più adatta a guidare il paese nel pericolo.

Guarda caso, l’ennesima battaglia israelo-palestinese scoppia proprio dopo che Netanyahu aveva fallito nel formare una nuova coalizione basata sul Likud e dopo che, il 5 maggio, il presidente della repubblica israeliano Reuven Rivlin aveva assegnato il nuovo incarico esplorativo al capo del partito centrista Yesh Atid, ovvero Yair Lapid, che in questi giorni stava imbastendo un’alleanza alternativa al Likud, con il partito Yamina di Naftali Bennett e, in prospettiva, con i partiti dei cittadini arabi di Israele. Ma ora, con razzi, bombe e con i tumulti dei residenti arabi nelle città israeliane, l’ipotesi di un esecutivo anti-Likud sembra davvero tramontata e Bennett valuta di scaricare Lapid e sostenere Netanyahu.

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Gli scontri, in sostanza, fanno comodo a molti. Anche ad attori esterni come Iran e Turchia, che da posizioni pur distanti ne approfittano per fare a gara nel proclamare il sostegno alla causa palestinese, rinfacciando ad altri stati musulmani, specialmente quelli della cerchia egemonica imperniata sull’Arabia Saudita, di essere scesi a patti con Israele nel corso del 2020 con i famosi “accordi di Abramo”, che hanno portato finora alla normalizzazione dei rapporti fra Israele e, nell’ordine, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco, oltre a crescenti contatti preparatori con l’Oman e la stessa Arabia Saudita.

E’ stata una vera e propria “ondata diplomatica”, quella con cui Israele ha fatto sempre più breccia, grazie alla mediazione americana della precedente amministrazione Trump, in un mondo arabo-islamico che fra i pochissimi motivi di reale unità aveva sempre avuto in passato l’opposizione allo stato ebraico.

L’aumento esponenziale, nel giro di pochissimi mesi, del numero di stati arabi amici di Israele, che fino allo scorso anno comprendeva ufficialmente soltanto l’Egitto, dal 1979, e la Giordania, dal 1994, ha rappresentato dunque una rivoluzione geopolitica.

Ciò è evidentemente finalizzato al consolidamento di una alleanza contro l’Iran, paese che negli ultimi anni ha aumentato sempre più il suo sostegno militare, anche con forniture di razzi e missili, ai palestinesi.

A Teheran si sta preparando giusto in queste settimane la campagna elettorale per le presidenziali del prossimo 18 giugno, che vede prevalere numericamente i candidati del fronte conservatore, vicini al clero degli ayatollah e ai miliziani pasdaran.

Fra essi spicca peraltro l’ex-presidente Mahmoud Ahmadinejiad, che già guidò l’Iran dal 2005 al 2013 dando l’impulso più decisivo all’accelerazione del programma nucleare. Lo scoppio della crisi fa comodo anche a tutta la fazione oltranzista iraniana, che fa capo al vecchio e malato ayatollah Alì Khamenei e che, sotto sotto, spera proprio che falliscano i colloqui portati avanti finora a Vienna dal governo relativamente moderato dell’uscente Hassan Rohani per la rivitalizzazione del patto JCPOA con gli USA (e gli altri paesi) sulla regolamentazione dell’accesso all’energia atomica. Attraversando anche l’Iran una delicata congiuntura, le nuove fiammate alla polveriera palestinese sono un’occasione insperata per rilanciare in patria slogan di partito, oltre che giustificare per un’altra generazione il potere e l’influenza dei pasdaran.

 

Guerra di traiettorie

Gli attacchi balistici da Gaza verso il territorio israeliano sono in atto dal 10 maggio 2021, dopo che da quattro giorni i palestinesi e anche gli arabi di cittadinanza israeliana protestavano nelle piazze di Gerusalemme Est, presso la moschea di Al Aqsa, ma anche in città a popolazione mista ebraico/araba, come Lod, dove scontri violenti fra le due comunità hanno spinto il municipio locale a lamentare un vero e proprio clima da “guerra civile”.

Tutto è stato scatenato il 6 maggio da una decisione della Corte Suprema israeliana relativa allo sfratto di famiglie arabe dal quartiere gerosolimitano di Sheikh Jarrah, una questione annosa che è riesplosa nel momento sbagliato. Non è valsa a far sbollire la tensione la decisione il 9 maggio dei giudici israeliani di rimandare di 30 giorni l’esecuzione degli sfratti, anche perchè la comunità palestinese era già ampiamente scesa nelle strade a manifestare, anche con violenza. Hamas, per i motivi politici sopra spiegati, ha deciso così di alzare la posta emanando un ultimatum che intimava alle forze di sicurezza israeliane di ritirarsi dalla moschea di Al Aqsa “entro le ore 18.00 del 10 maggio”.

Poco dopo la scadenza dell’ultimatum è iniziata l’offensiva missilistica, a cui l’aviazione israeliana ha iniziato subito a reagire con centinaia di attacchi aerei quotidiani. Fra i primi bombardamenti a Gaza City, ha suscitato scalpore la totale demolizione l’11 maggio di un palazzo di 12 piani, le cui immagini hanno fatto il giro del mondo, che ospitava uffici direttivi di Hamas.

Le ritorsioni aeree israeliane tendono ad essere molto mirate e già nella notte fra l’11 e il 12 maggio un primo risultato strategico è stata l’uccisione di due eminenti figure dei servizi d’intelligence di Hamas, ovvero il capo dei dipartimenti di sicurezza Hassan Kaogi e il capo del dipartimento controspionaggio Wail Issa.

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Al proposito, è diventato celebre il commento con cui le forze armate israeliane hanno ufficialmente annunciato su Twitter di aver condotto con successo le due uccisioni mirate: “Sembra che la nostra intelligence sia migliore”. Nella giornata del 12, peraltro, Hamas è riuscita a lanciare 15 razzi proprio nella direzione di Dimona, sede della centrale nucleare e del contiguo centro di fabbricazione delle armi termonucleari di Israele, senza però far danni, dato che gli ordigni sono caduti in un’area deserta, ma certo volendo dare all’azione un sapore intimidatorio. Ripetendo, per ironia, un simile episodio, quasi “profetico”, accaduto il 27 aprile scorso, quando un missile antiaereo SA-5 siriano sparato contro un caccia israeliano era finito fuori controllo cadendo a 30 km da Dimona (nella foto sopra), peraltro cogliendo talmente alla sprovvista le difese aeree israeliane da non venire in alcun modo intercettato.

Nello stesso giorno, mentre anche l’esercito di terra israeliano rafforzava il suo schieramento al confine con la Striscia, veniva ucciso con un missile anticarro sparato contro la sua jeep il primo caduto militare israeliano di cui sta stata divulgata l’identità, il sergente, di soli 21 anni, Omer Tabib, della brigata Nahal. Fin dai primi giorni della crisi, Hamas aveva del resto dispiegato lungo la frontiera varie postazioni di missili anticarro, fra cui i più moderni sono i Kornet (nella foto sotto) di produzione russa (arrivati dall’Iran dove vengono prodotti su licenza col nome di Dehlavie) e in grado di colpire fino a distanze comprese fra 5 e 10 km, a seconda delle versioni.

Data la loro pericolosità, le postazioni di Kornet sono state fra gli obbiettivi principali dei raid israeliani, che ne hanno distrutte almeno quattro.

Il 13 maggio si è temuto il possibile aprirsi di un fronte sul confine del Libano, da dove sono stati segnalati in arrivo sulla regione di Misgav Am alcuni razzi, si dice da tre a cinque, senza però che abbiano toccato il territorio ebraico, infatti essi sarebbero ricaduti ancora in territorio libanese oppure nel Mediterraneo. L’episodio è però rimasto oscuro e le forze d’Israele hanno aperto un’inchiesta tuttora in corso.

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Mentre i razzi palestinesi colpivano a più riprese non solo le città israeliane più vicine alla Striscia, ma anche la capitale Tel Aviv, tanto che le sirene ormai risuonano un po’ in tutta Israele, la macchina da guerra di Tsahal, l’esercito ebraico, si è messa in moto mobilitando oltre 9.000 riservisti e radunando carri da battaglia Merkava e cannoni semoventi M-109 Doher, versione aggiornata dello storica famiglia M-109 (nella foto sotto).

L’ammassamento di forze di terra sulla frontiera faceva presagire già la sera del 13 maggio l’imminenza di una invasione di terra di Gaza, come già in precedenti operazioni e a ciò ha contribuito verso mezzanotte un annuncio del portavoce delle forze armate israeliane, Johnatan Conricus, che inizialmente ha diramato il seguente comunicato: “Forze aeree e truppe di terra stanno in questo momento attaccando la Striscia di Gaza”.

Nelle ore successive, lungo la notte tra giovedì 13 e venerdì 14, la stampa mondiale ha così annunciato l’inizio dell’offensiva terrestre, con “stivali e cingoli” sul terreno. Convinzione rafforzata da un nuovo comunicato di Conricus: “Sì, come è stato scritto, forze di terra stanno attaccando Gaza. Significa che sono dentro la Striscia”.

L’invasione terrestre è stata però smentita nella giornata del 14 maggio, sebbene l’artiglieria, semovente e non dell’esercito terrestre sia comunque entrata in azione da oltrefrontiera colpendo con migliaia di granate le strutture di Hamas. Come è stato rilevato da più parti, il balletto delle dichiarazioni sulla “finta” invasione di Gaza da parte delle truppe terrestri ha avuto lo scopo di gettare nel caos le milizie di Hamas, spingendole a rifugiarsi nella rete dei tunnel, in grandissima parte già nota all’intelligence israeliana e nota come “metropolitana di Hamas”, in modo da prenderli in trappola con attacchi mirati sulle gallerie.

Gli attacchi ai tunnel sono proseguiti nei giorni seguenti ed è particolarmente interessante l’accenno israeliano al fatto che, fra i bersagli ci siano anche “siti sotterranei di lancio”. Ovvero una rete di postazioni interrate, collegate da tunnel con altre similari, attraverso le quali è possibile a quanto pare sbucare all’improvviso per lanciare salve di razzi verso Israele, rifugiandosi poi ancora nel sottosuolo.

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Sono comunque le forze aeree della Heyl Ha’Avir a condurre il grosso degli attacchi con aerei da caccia F-15, F-16 ed F-35, che hanno raggiunto un picco il 14 maggio con l’impiego di 160 caccia in un solo giorno.

Fra le squadriglie in prima linea ci sarebbero il 69° squadron di base ad Hatzerim, dotato di F-15I Raam, e il 119° Squadron di F-16I Sufa che decollano da Ramon, che impiegano bombe a guida laser e ordigni JDAM a guida GPS. Proprio con quattro bombe di precisione, il 15 maggio aerei israeliani hanno distrutto interamente, dopo un previo avvertimento onde evitare vittime civili, il “grattacielo” Al Jala, da 15 piani, situato nel centro di Gaza, suscitando un diffuso sdegno per la presenza al suo interno delle sedi di due pilastri dell’informazione internazionale, cioè la televisione Al Jazeera e l’agenzia di stampa Associated Press.

Le fonti militari israeliani hanno così giustificato la distruzione del palazzo Al Jala: “Hamas a Gaza usa edifici elevati per fini militari come la raccolta di informazioni di intelligence, la progettazione di attacchi, operazioni di comando e controllo, e per le comunicazioni.

Quando Hamas utilizza un edificio elevato per fini militari, esso diventa un obiettivo militare legittimo. Il diritto internazionale è chiaro”. Secondo gli israeliani, quindi, il grande palazzo era sede di uffici dei servizi segreti di Hamas, oppure di postazioni importanti per le loro comunicazioni o intercettazioni radio.

Sicuramente è plausibile, dato che da sempre alti o perfino altissimi edifici sono spesso utilizzati a tale scopo, tanto che, per esempio, nella Grande Guerra del 1914-1918 i francesi avevano creato una postazione di intercettazione radio proprio in cima alla Tour Eiffel di Parigi. Vero è anche che la devastazione dell’Al Jala può aver rappresentato un attacco volto a far sloggiare la stampa straniera dalla Striscia, in modo da far diminuire il numero di testimoni sul terreno.

Quel sabato, intanto, il totale dei razzi lanciati da Gaza verso Israele aveva toccato le 2.300 unità, con tendenza all’aumento, sebbene circa 200 di essi, più che altro quelli più artigianali e primitivi, non fossero riusciti, per guasti o difetti direzionali a superare la frontiera, ricadendo nella Striscia.

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Per i cittadini israeliani la folle nenia delle sirene è quindi diventata una inseparabile compagna. E anche se le vittime civili nello stato ebraico sono state, finora, più limitate, rispetto quelle registrate a Gaza, non c’è dubbio che la persistenza psicologica di una specie di stato d’assedio infinito, che condiziona la propria intera esistenza, continuerà a influire pesantemente sulla percezione politica e geopolitica di Israele per ancora diverse generazioni a venire.

Il 17 maggio, un nuovo “centro eccellente” dell’aviazione israeliana è stata l’uccisione di uno dei capi della Jihad Islamica, Hussam Abu Harbid, fra i comandanti incaricati del gestire il lancio dei razzi che affiancano quelli di Hamas. Sempre lunedì 17, l’aviazione israeliana ha comunicato di aver impiegato 54 caccia per colpire un totale di 35 obbiettivi. Lo Stato Maggiore di Tsahal ha inoltre affermato di aver “distrutto ben 15 km di tunnel sotterranei della metropolitana di Hamas”.

Nelle stesse ore, è stato perfino bombardato sulla costa di Gaza quello che i militari israeliani hanno definito, “un sommergibile di Hamas che era pronto a compiere atti di terrorismo in acque israeliane”. Fino al 17 maggio il bilancio, ancora provvisorio, era di 218 morti fra i palestinesi, di cui 58 bambini e 34 donne, e 10 fra gli israeliani, ma gli scontri continuano e il tributo di sangue aumenterà in questi giorni, senza contare che le devastazioni hanno causato finora la perdita delle abitazioni per 40.000 civili.

La notte fra 17 e 18 maggio 2021 è giunta notizia di un nuovo lancio di razzi dal Libano, per la precisione 6 vettori, non si sa ancora se da parte di gruppi palestinesi o degli Hezbollah sciiti loro alleati, ma l’esercito israeliano ha risposto con colpi d’artiglieria. Stranamente questo nuovo episodio sul confine libanese è accaduto appena poche ore dopo che un portavoce di Fatah, Mahmoud Saeed, aveva dichiarato che “l’Autorità Nazionale Palestinese non ha intenzione di utilizzare il territorio libanese come base per attaccare Israele”. L

a posizione di Fatah, rimasta spiazzata dai colpi di testa di Hamas, che ancora una volta è riuscita ad aggiudicarsi il baricentro della questione palestinese, è stata espressa lunedì da Abu Mazen che nel ricevere a Ramallah, in Cisgiordania, l’inviato speciale americano Hadi Amr gli ha ribadito la richiesta, già espressa al presidente americano Joe Biden, affinchè sia la diplomazia internazionale a “fermare l’aggressione di Israele”. Ma anche se gli Stati Uniti promettono di fare il possibile per la risoluzione del conflitto, l’impressione è che da Washington si sia in sostanza data carta bianca a Netanyahu perchè vada avanti il più possibile nel distruggere i depositi di missili a Gaza.

 

I razzi di Hamas e Jihad Islamica Palestinese

Il braccio militare di Hamas, le brigate Izz al-Din al-Qassam, fondate fin dal 1992 dal citato Yahya Ayyash e intitolate a un famoso predicatore palestinese attivo attorno al 1936, sarebbero giunte a contare fino a 30.000 uomini e sono fiancheggiate da altri gruppi più piccoli fra i quali quello di maggior rilevanza è la Jihad Islamica, accreditata di 8000 uomini.

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Nel corso degli anni, oltre a rifornirsi di armi da svariati canali, su tutti la Siria e l’Iran, i miliziani di Hamas hanno progressivamente imparato a costruire armi di semplice ma efficace funzionamento, che, seppure spesso primitive, hanno il vantaggio di poter essere utilizzate in gran numero dati i costi limitati. In questa sede, dati gli eventi di questi giorni, ci interessa soprattutto approfondire la questione dei vettori balistici.

Da oltre una ventina d’anni i palestinesi si riforniscono di razzi campali da una numerosa serie di fornitori, individuando in essi un’arma di semplice impiego adattissima ai casi di un movimento che punta molto sulle tattiche terroristiche, dunque poco curante della precisione nel tiro.

Del resto, l’enfasi data alla quantità, piuttosto che alla qualità, la si nota anche da un confronto proporzionale rispetto alle dimensioni delle milizie di Hamas. Se fosse realistica la citata stima di Luttwak, cioè dell’esistenza di un totale di 50.000 razzi negli arsenali di Gaza, significherebbe che Hamas disporrebbe, in termini statistici, di più razzi che miliziani inquadrati, come a dire circa 1,5-1,6 razzi per ogni singolo combattente.

Hanno via via utilizzato i Grad da 122 mm di origine russa, ricevuti via Siria, oppure la loro edizione cinese arrivata per il tramite dell’Iran. Teheran ha fornito in passato anche una sua copia del Grad, l’Arash da 22 km di gittata, mentre dalla Norinco cinese sarebbero arrivati numerosi WS-1 che arriverebbero fino a 45 km di distanza trasportando circa 20 kg di esplosivo.

Sempre dalla serie dei Grad sono stati derivati gli Al Quds 3, lanciabili da rampa multipla a salve di 10 ordigni e in grado di portare fino a 30 km di distanza cariche esplosive di 17 kg ciascuno. Gli Al Quds 3 hanno debuttato nel 2006 e non sono da confondere con i cosiddetti Al Quds 101, nelle versioni 1 e 2, sviluppati a partire dal 2001 dalla Jihad Islamica.

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La serie più famosa di vettori balistici leggeri sviluppati autonomamente a Gaza è però costituita dai Qassam, intitolati alle omonime brigate e allo storico predicatore. L’origine della serie Qassam si colloca nel 2001, quando venne sviluppata la versione base, Qassam 1, grazie a due ingegneri di Hamas, poi entrambi deceduti e tuttora venerati come martiri, ovvero Nidal Fathi Rabah Farahat (morto nel 2003 per un incidente con esplosivo) e Adnan Al Ghoul (ucciso da un elicottero israeliano Apache nel 2004 in missione per compiere una missione di “omicidio mirato”), ma con la collaborazione anche di altri elementi come il comandante attuale delle brigate di Hamas, Mohammed Deif.

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La prima serie di Qassam era costituita essenzialmente da un tubo lungo solo 79 cm, del diametro di 6 cm e del peso totale di 5,5 kg di cui solo mezzo chilo dovuto alla testata esplosiva. Il raggio d’azione era di soli 3 km ed era chiaro che si trattava del primo gradino di una scala crescente. Già nel 2002, col successivo Qassam 2 si poterono toccare distanze di 10 km, via via aumentate finchè nel 2012 apparve il più ambizioso Qassam M75 tuttora impiegato in questi giorni, la cui gittata si spinge a 75 km dal punto di lancio, sebbene la precisione lasci sempre a desiderare e ne giustifichi l’uso solo contro obbiettivi urbani di grande estensione.

I razzi Qassam, concettualmente, si basano sulla semplice impostazione di un tubo in acciaio, che nelle versioni più potenti è lungo fino oltre 2,5 m, che contiene una carica esplosiva mista di TNT e nitrourea, derivata da fertilizzanti, e in cui la propulsione a razzo è fornita da un propellente solido ottenuto mescolando zucchero e nitrato di potassio, anche questo ricavato da concimi chimici. Nel corso del tempo i Qassam sono stati via via perfezionati, ad esempio passando da un unico ugello di scarico del motore a un complesso di sette ugelli, mentre anche la spoletta a impatto è stata modificata dai primitivi inneschi a impatto costituiti da un chiodo che agiva su una cartuccia di fucile nella testata, la quale a sua volta azionava l’esplosivo principale.

Per quanto riguarda il misterioso Ayyash 250, il nuovo razzo da 250 km di gittata, gli esperti si stanno interrogando, anche a partire da un video diffuso dalla televisione libanese di Hezbollah Al Manar.

Le immagini mostrano lanci di Ayyash 250 e anche del più conosciuto, ma sempre abbastanza nuovo, Badr 3. Si è ritenuto che l’Ayyash 250 possa essere nient’altro che un componente della famiglia iraniana dei missili a breve raggio Fateh 110, la cui gittata arriva fin sui 300 km. Si tratta di missili molto ingombranti, lunghi quasi 9 metri e pesanti 3,5 t, in grado di superare 3500 km/h.

Si possono lanciare da rampe autocarrate, le quali però avrebbero in questi giorni ben poca possibilità di sfuggire ai raid preventivi dell’aviazione israeliana. Il Fateh 110 sarebbe in effetti stato fornito ad Hamas, come lo stesso governo di Teheran ha dichiarato. Ma non sembra essere identificabile con l’Ayyash 250. Ha una sezione di coda totalmente diversa da quella che appare nelle presunte immagini dell’Ayyash.

In dettaglio, ha pinne stabilizzatrici più corte in apertura e di maggior “corda”, nel senso longitudinale. Inoltre esse sono precedute, verso la prua del missile, da altre piccole superfici triangolari, abbastanza inconsuete e che forse sono state escogitate per risolvere problemi di stabilità.

Dell’Ayyash 250, che nel video di propaganda è mostrato dipinto in verde con applicato sulla fiancata il ritratto di Yayha Ayyash, viene inquadrata in primo piano solo la metà posteriore. Nonostante la presenza di alcuni miliziani nel video, non si riesce ad avere un’idea precisa della lunghezza, essendo tagliato fuori il muso, ma solo del diametro del fuso, che potrebbe essere fra 50 e 60 centimetri.

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Le quattro derive stabilizzatrici in coda sembrano essere di semplice lamiera saldata alla fusoliera, il che conferma che si tratterebbe di un semplice razzo e non, propriamente di un missile. A meno che il muso, non visibile, non abbia delle superfici mobili canard, ma pare estremamente improbabile. La prima impressione è che l’Ayyash 250 possa essere un’arma di propaganda, un razzo la cui funzione, eminentemente terroristica, è di arrivare molto lontano per “fare un botto”, ma senza una vera utilità militare essendo di una precisione inesistente, fattore questo che è certamente via via peggiore, proporzionalmente, al crescere della distanza coperta.

Si sa qualcosa di più sul Badr 3, che è stato fornito dall’Iran nel 2019 dapprima agli sciiti yemeniti Huthi e poi ai palestinesi di Gaza. Ben visibile, stavolta interamente, compresa la prua, nel secondo video della tv Al Manar, sarebbe in grado, secondo fonti d’intelligence israeliana come Debka File, di portare una testata da ben 250 kg di esplosivo fino a 160 km di gittata e avrebbe una spoletta simile a quella di uno shrapnel in grado di far detonare la testata non all’impatto col suolo, ma circa 20 metri al di sopra del punto d’impatto, in modo da spargere una micidiale rosa di schegge.

Fra le armi iraniane sparate dalla Striscia c’è anche il razzo Fajr 5, fornito ad Hamas in una certa quantità a partire dal 2012. La versione base è lunga quasi 6,5 metri e pesa 900 kg, di cui 175 kg dovuti alla testata a frammentazione. La gittata normale si aggira sui 75 km e una certa stabilità nel volo è data dalla capacità di ruotare attorno al proprio asse grazie a una leggera divergenza degli ugelli di scarico disposti a corona alla base della coda. La velocità massima del Fajr 5 è stimata in 3960 km/h, molto elevata, e anche se si tratta di un’arma non guidata, l’uso contro obbiettivi urbani estesi in zone ad alta densità abitativa sembra “redditizio” in un’ottica terroristica.

Peraltro, dal 2017 l’Iran ha realizzato una versione dotata di guida inerziale, detta Fajir 5C, ma non si sa esattamente se ne disponga anche Hamas. Quello che è certo è che, fino al 17 maggio, su oltre 3100 razzi sparati da Gaza verso Israele, circa un terzo sono stati intercettati e abbattuti dal sistema di difesa israeliano Iron Dome.

 

Quanto ferro nella “cupola”?

Grande protagonista degli scontri di maggio 2021, come in altre occasioni precedenti, si è confermato il sistema antibalistico israeliano a breve raggio, per la difesa di punto, Iron Dome, cioè “cupola di ferro”, che in ebraico viene chiamato Kippat Barzel. Realizzato dal colosso dell’industria militare Rafael, è entrato in servizio nel 2011 in modo da completare con il segmento inferiore la difesa antimissile-antiaerea a strati di Israele, che conta per i livelli superiori, via via fino ai missili da crociera o ai missili balistici IRBM o ICBM (magari iraniani) sugli antimissile delle serie Arrow e “Fionda di Davide”.

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L’Iron Dome è concepito per intercettare oggetti volanti ostili di piccole dimensioni e anche di limitato inviluppo di volo, in termini di quote e distanze. E’ rivolto specialmente a razzi, missili o anche granate di mortaio, a distanze comprese fra un minimo di 4 e un massimo di 70-72 km dalla posizione della batteria.

Dopo gli stanziamenti iniziali di 200 milioni di dollari fra il 2005 e il 2008 da parte israeliana per avviare il programma di progettazione e sviluppo, il grosso della sua realizzazione è stato finanziato dal più potente alleato di Israele, gli Stati Uniti, per un totale calcolato in 1 miliardo di dollari secondo un rapporto del Senato di Washington (Senate Report 113-211) datato 17 luglio 2014.

Il sostegno economico statunitense al programma Iron Dome è stato giustificato soprattutto con la volontà di avere una contropartita in termini di condivisione delle ricadute tecnologiche utili alla difesa antimissile USA. Del resto, i dollari americani hanno supportato anche le altre fasce di difesa ABM israeliana.

Probabilmente non è stata estranea agli americani l’idea, parallela al comprensibile aiuto all’unico loro alleato che in pratica è sempre in guerra da ormai 73 anni, di utilizzare Israele come un laboratorio per sperimentare “in vitro”, su scala ridotta, la possibilità pratica di un vero e proprio ombrello antiaereo e antimissile integrale, come gli USA sognano fin dal 1960 per sé stessi, ma nel loro caso con il forse insormontabile ostacolo dell’estensione colossale del paese.

In effetti, una prima batteria di Iron Dome è stata consegnata agli USA e attivata alla base US Army di Fort Bliss nel novembre 2020, e nei prossimi mesi dovrebbe essere consegnata una seconda batteria. Dopo i primi collaudi nel 2009, l’Iron Dome è divenuto operativo all’inizio del 2011 nei reparti della difesa aerea, che in Israele sono afferenti all’Aeronautica. La prime intercettazioni in combattimento reale si sono avute fra il 7 e l’8 aprile 2011, quando il sistema abbattè un totale di 5 razzi Grad sparati da Gaza verso Ashkelon.

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Il cuore del sistema è costituito dal missile intercettore Tamir, lungo 3 metri e del diametro di 16 cm. Il peso del Tamir si aggira sui 90 kg, di cui 11 kg dovuti all’esplosivo della testata bellica a frammentazione. Un motore a razzo a combustibile solido è in grado di imprimergli una velocità massima di almeno 2520 km/h, mentre la massima altitudine di ingaggio sarebbe di circa 10.000 metri.

I missili Tamir vengono lanciati da pesanti rampe da 20 elementi ciascuna, grossi moduli a parallelepipedo da 4X5 celle, asserviti a una postazione radar Elta che è in grado di controllare fino a sei potenziali bersagli in simultanea, rimanendo in comunicazione col missile in data link durante il volo. Assai sofisticata è la testata autocercante radar, abbinata a una spoletta di prossimità che comprende un laser che spazza per 360 gradi tutt’intorno all’asse del missile dando poi il comando dell’esplosione quando rileva l’ordigno nemico alla distanza ottimale di circa un metro.

Ciò perchè l’onda d’urto e la rosa di schegge vengono ancora reputate il miglior modo per abbattere un razzo palestinese, anziché un diretto impatto cinetico che richiederebbe ulteriore precisione.

Ogni batteria Iron Dome è formata da tre o quattro blocchi lanciatori (più gli elementi radar, comando e controllo), il che totalizza da 60 a 80 missili per batteria pronti all’uso, escluse le ricariche. Poichè attualmente Israele schiera non più di 12 batterie, non sono più di 720-960 i missili Tamir che il sistema può sparare nello stesso momento. Gli israeliani hanno intenzione di arrivare a 15 batterie operative, così come progettano di aumentare la portata dell’Iron Dome a ben 250 km, ma quest’ultimo obbiettivo non sembra imminente, nonostante se ne parli da anni.

Per ovviare al fatto che Iron Dome possa essere saturato in caso di lanci nemici molto numerosi, il sistema C4I della batteria è programmato per ingaggiare solo i missili o razzi ritenuti in base alla loro traiettoria più pericolosi per i grossi agglomerati urbani. L’azione di intercettazione non viene quindi “spalmata” indiscriminatamente su tutti gli ordigni in arrivo rilevati dai radar, ma si cerca per quanto possibile di razionalizzarla. Ciò nonostante, come tutti i sistemi d’arma, anche Iron Dome è tutt’altro che perfetto e palestinesi e iraniani lo sanno.

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Stando alla diffusione di fotografie sul web, sembra che i palestinesi abbiano potuto catturare almeno una sezione di prua di un missile Tamir, completa di spoletta di prossimità e testa autocercante, un anno e mezzo fa, in occasione degli scontri avutisi dal 12 al 14 novembre 2019 a seguito dell’uccisione in un raid israeliano di uno dei capi della Jihad Islamica, Baha Abu al-Ata. In quei due giorni, la Jihad Islamica lanciò ben 450 razzi su Israele, in massima parte abbattuti da Iron Dome.

Ma uno degli intercettori Tamir, per detonazione incompleta addosso al bersaglio, oppure per guasto nel sistema automatico di autodistruzione previsto in caso di “cilecca”, sarebbe ricaduto sul territorio di Gaza. I palestinesi, non è chiaro se Hamas stessa o la Jihad Islamica, avrebbero quindi ottenuto una spoletta relativamente integra. E’ chiaro che sia i tecnici palestinesi, sia i loro alleati iraniani avranno studiato da cima a fondo il reperto per individuarne limiti e “zone d’ombra”.

In effetti, se secondo le stesse fonti d’informazione israeliane l’Iron Dome avrebbe un’efficacia media fra l’85 e il 90%, significa, per implicita ammissione, che da 10 a 15 ordigni nemici ogni 100 presi di mira dal sistema possono ancora raggiungere città e installazioni ebraiche.

Abbiamo prima precisato che, nella prima settimana della crisi, dal 10 al 17 maggio 2021, su 3100 ordigni palestinesi, Iron Dome ne ha incocciati un migliaio. Ciò però non deve far pensare che il tasso di efficacia intrinseca del sistema sia solo del 30-35 %, poiché Iron Dome, di fatto, seleziona automaticamente i razzi la cui traiettoria viene considerata più pericolosa o più vicina ai centri abitati e si concentra su di essi. Questa procedura è però, implicitamente, anche l’ammissione da parte israeliana della limitatezza numerica del sistema difensivo, che di fatto è impossibilitato a fermare tutti gli ordigni.

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Le fonti iraniane, nel loro spalleggiare i palestinesi, attuano una loro controinformazione volta a ridimensionare l’importanza di Iron Dome. E a quanto pare, non lo fanno senza qualche fondamento di verità, per quanto amplificato dalla propaganda. Il 15 maggio l’agenzia di stampa iraniana Tasnim ha pubblicato un intervento dell’esperto di tecnologie militari Seyed Mohammad Taheri, secondo cui: “Il numero di sistemi Iron Dome disponibili è insufficiente a coprire l’interezza di Israele. Quindi in una guerra su più fronti, il sistema non sarà in grado di rispondere a tutti gli attacchi con missili o razzi e le difese a bassa quota di Israele saranno molto vulnerabili”.

Questo dal punto di vista prettamente numerico, ma anche per quanto riguarda modalità d’impiego e prestazioni, il sistema di difesa di punto israeliano è vulnerabile, considerando che l’Iron Dome ha bisogno di un margine minimo di distanza dal punto di decollo degli ordigni nemici per entrare in azione. Non sarebbe in grado di intercettare ordigni che provengano da una distanza inferiore a 4 km e che abbiano un tempo di volo inferiore a 28 secondi.

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La ricetta più indicata per “bucare” la “cupola di ferro”, quindi, sarebbe quella di sparare da una posizione talmente ravvicinata da non dare al sistema il tempo, per quanto minimo esso sia, di rilevare e tracciare l’ordigno in arrivo. Per l’efficacia del sistema è fondamentale la precisione, poiché, ricorda Taheri: “Le testate utilizzate nei missili del sistema sono equipaggiate con spolette di prossimità la cui distanza ottimale per distruggere il bersaglio è di un metro, altrimenti la possibilità che le sue schegge penetrino il bersaglio e lo distruggano è ridotta”.

Avvicinare in pieno volo un oggetto piccolo come i vettori tattici di Hamas a un metro di distanza è un risultato tecnico che richiede rapidità di calcolo ed esecuzione, che possono essere impeccabili nelle condizioni ottimali dei test e delle esercitazioni, ma che nei reali eventi bellici possono essere imperfette via via che l’avversario modula, per tentativi e con l’esperienza, i suoi metodi, come è il caso di questi giorni, appunto, col salto di qualità in termini di impiego a massa.

Fra le astuzie, a quanto emerso da alcuni video, ci sarebbe anche da parte palestinese l’adozione di un profilo di volo dei razzi assai più basso e “piatto”, dunque cercando di far assumere alla parabola balistica un profilo più simile al volo di un missile da crociera, per cercare di rendere meno prevedibile dai radar la rotta del vettore.

Ora, è vero che l’Iron Dome è comunque progettato anche per abbattere “cruise”, ma è possibile che lanciare razzi con basso profilo consenta, in condizioni ottimali, di ritardare l’avvistamento radar e di “limare” qualche prezioso secondo di tempo nei termini della rincorsa fra la velocità del vettore offensivo e la velocità di processamento dei dati nel sistema di comando e controllo dell’Iron Dome.

Qui, come già dicevamo, aiuta molto l’abisso in termini di costi reciproci. Sempre Taheri ricorda: “In accordo con le fonti d’informazione liberamente disponibili, ogni missile dell’Iron Dome costa fra 40.000 e 100.000 dollari, laddove il prezzo di ogni razzo sparato dai gruppi palestinesi va da 1.000 a 5.000 dollari”. In termini economici, quindi, Iron Dome non potrebbe essere definito apparentemente molto redditizio, sebbene nel conto siano da considerare i danni teorici e le vittime evitate sul proprio suolo.

La questione si inquadra nel generale dibattito che spesso riemerge, sull’opportunità di sviluppare armamenti costosissimi e “intelligentissimi” per distruggere armi molto più stupide ed economiche, le quali però, proprio per questo, hanno il vantaggio di poter essere costruite in un numero astronomico di esemplari e quindi impiegate a massa.

Per evitare di andare fuori tema, ci limiteremo a osservare che un simile dibattito, sugli eccessivi costi di molti sistemi d’arma che non potendo consentire vasti volumi produttivi costringono a eludere, o perfino nascondere, l’indubbia importanza della “quantità” in guerra, dovrebbe forse essere affrontato più apertamente nelle forze armate dei paesi occidentali.

 

Asimmetria e controforza

Le perplessità, comunque, ci sono anche in campo ebraico, tant’è che il 14 maggio sul Jerusalem Post l’esperto di terrorismo Yonah Jeremy Bob, partendo dalla constatazione che il problema di base è capire l’esatta quantità di vettori posseduti da Hamas, e in particolare qual’è la proporzione dei tipi più avanzati in gittata e potenza, si è chiesto: “Ciò significa che Iron Dome non è più efficace?

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No, esso intercetta ancora la maggioranza dei razzi sparati sui centri abitati israeliani, anche se alcuni di essi passano le difese. La domanda più grande è se sono corrette le valutazioni dell’intelligence israeliana secondo le quali Hamas ha solo poche centinaia di missili in grado di raggiungere Tel Aviv”.

E prosegue: “Se tali stime sono accurate, allora Hamas può aver consumato una larga parte di tale arsenale in questa settimana, persino se ha migliaia di razzi in più adatti a colpire Beersheba, Ashdod e altre comunità vicine al confine con Gaza. Ma se Hamas possiede molti più di questi razzi a più lunga gittata, ciò potrebbe avere un impatto sui piani di Israele per l’attuale fase di violenza e in special modo sul quesito su quanto a lungo vuole che duri”.

Già il premier Benjiamin Netanyahu ha ribadito ancora la sera del 17 maggio che “continueremo ad agire per quanto necessario per riportare calma e sicurezza a tutti i cittadini di Israele”, smentendo così le voci delle ore precedenti sulla possibilità di una tregua con Hamas.

Anche il capo di Stato Maggiore di Tsahal, generale Aviv Kochavi, ha annunciato in parallelo che “le operazioni militari proseguiranno, almeno per altri due giorni”. Frattanto negli Stati Uniti è stata appena approvata dal presidente Biden la vendita a Israele di armamenti per 735 milioni di dollari, stampella notevole, anche dal punto di vista politico, per Netanyahu, mentre la diplomazia mondiale è di fatto impotente, specie dopo che in questi giorni il Consiglio di Sicurezza dell’ONU non è riuscito a trovare un accordo serio su un comunicato di condanna.

Sia a Gaza, sia in Israele, i capi non sembrano intenzionati a deporre le armi presto. E’ l’unica cosa che li accomuna, dato che le loro strategie sono diametralmente opposte. Mentre infatti Hamas e la Jihad Islamica conducono operazioni asimmetriche in cui ciò che conta è puntare al terrore e alla tensione con masse di ordigni balistici che piovono sostanzialmente a casaccio, le forze israeliane cercano di fare della precisione il proprio moltiplicatore di potenza (potenza già elevatissima di per sé) soprattutto per attuare quella che, di fatto, è una campagna “controforza”, rivolta cioè a distruggere basi, depositi e postazioni di lancio dei razzi e missili nemici.

E’ una campagna che non è facile, anzi è difficilissima da condurre in un ambiente come quello della Striscia di Gaza, dove la “giungla” è costituita, letteralmente, dal caotico ammassarsi di edifici, anche di grandi dimensioni, in una delle aree più densamente popolate del mondo. L’abilità di lunga data dei palestinesi nel nascondere truppe e materiali sfruttando ogni anfratto, ogni casupola, ogni minima opera di scavo, renderà però impossibile a Israele conseguire una vittoria decisiva. Specialmente contro un nemico infervorato dal culto del martirio e che dunque mette in secondo piano la logica occidentale della rapida vittoria o sconfitta.

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Nemmeno la drammatica eventualità che nei prossimi giorni gli israeliani siano tentati dall’incursione via terra potrà essere risolutiva, come non è stata risolutiva nelle operazioni similari degli scorsi anni. Ad Hamas basta dimostrare di essere portabandiera, secondo il suo punto di vista, dell’orgoglio palestinese che nonostante tutto riesce a terrorizzare il nemico e a instillargli un senso di impotenza. E questo nonostante Israele sia perfino una potenza nucleare, l’unica finora accertata in Medio Oriente. Ma è uno status che di fronte alla recrudescenza del confronto coi palestinesi stride sempre più, proprio in omaggio all’asimmetria, evocando quell’immagine della “bomba atomica tigre di carta” di cui parlava Mao Zedong.

Israele potrà ancora nei prossimi giorni causare notevoli danni alla popolazione, alle milizie e alla dirigenza di Gaza, anche distruggendo una gran parte dei suoi arsenali, ma sempre in misura insufficiente a evitare che, periodicamente, dalla Striscia si alzino pericolosi ordigni, per quanto di prestazioni modeste possano essere.

Logicamente col supporto ininterrotto degli amici stranieri, Iran in testa. Sotto questo aspetto, considerato che perfino l’avere perdite umane più pesanti di quelle nemiche non sembra essere un grosso problema per i palestinesi, una nazione concepitasi come martire fin dal 1948, per Hamas il “compito” si presenta assai più semplice di quello di Israele. Netanyahu lo sa.

Dichiarazioni demagogiche a parte, è consapevole di non poter avere la pretesa di risolvere una volta per tutte il problema rappresentato da Gaza, spina nel fianco dello Stato ebraico da quando, nel 2005, gli israeliani si ritirarono dalla Striscia in base al programma che avrebbe dovuto cedere “terra in cambio di pace” (anche con il ritiro dalla fascia di sicurezza nel Sud del Libano avvenuto nel 2000) ma che invece ha solo posto i nemici di Israele più vicini ai loro bersagli.

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Il 21 maggio 2021, dopo 11 giorni di lanci di razzi e raid aerei, Israele e Hamas nella notte hanno fermato le ostilità annunciando la conclusione delle rispettive operazioni militari, ‘Guardiano del Muro’ e ‘Spada di Gerusalemme’ in seguito ad un accordo mediato dal governo egiziano.

Secondo il Times of Israel, dal 10 maggio – data di inizio dei combattimenti – circa 4mila razzi (4.360 secondo fonti militari) sono stati lanciati dalle fazioni armate palestinesi contro il territorio israeliano ma centinaia di essi sono caduti all’interno della Striscia di Gaza. Le IDF (Israeli Defence Forces) hanno comunicato che il 90% dei razzi diretti contro aeree abitate è stato intercettato dal sistema Iron Dome.

Nello Stato ebraico si contano 12 morti, nove israeliani e tre lavoratori stranieri (due della Thailandia e uno dell’India). Due delle vittime hanno perso la vita a causa delle ferite riportate durante la fuga verso i rifugi, le altre sono morte a cause dell’impatto diretto dei razzi. In aggiunta, oltre 350 persone sono rimaste ferite.

Sul lato palestinese, il ministero della Sanità di Hamas ha riportato il decesso di 232 persone, tra cui 66 minori, ed il ferimento di oltre 1.600 persone in migliaia di raid israeliani sulla Striscia.

Dati successivi, resi noti dal ministero tramite l’agenzia palestinese Wafa, correggono il bilancio in 243 morti, inclusi 66 bambini, 39 donne e 17 anziani, più 1.910 feriti. Di questi, 90 sono gravi e 560 sono bambini.

Secondo alcuni analisti il bilancio sarebbe sottostimato. Le IDF hanno riferito di aver eliminato durante ‘Guardiano del Muro’ 225 operativi di Hamas e della Jihad Islamica. Per l’esercito israeliano, inoltre, diverse vittime civili a Gaza sarebbero state provocate dai razzi lanciati dalle fazioni palestinesi e caduti per errore nella Striscia.

“Se ci fosse stato bisogno di entrare a Gaza con truppe di terra, lo avremmo fatto. Ma credevo che avremmo potuto raggiungere i nostri obiettivi senza farlo” ha dichiarato il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, parlando a Tel Aviv dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco

Foto: IDF, Hamas, BBC, Wikipedia e Twitter

 

Nato nel 1974 in Brianza, giornalista e saggista di storia aeronautica e militare, è laureato in Scienze Politiche all'Università Statale di Milano e collabora col quotidiano “Libero” e con varie riviste. Per le edizioni Odoya ha scritto nel 2012 “L'aviazione italiana 1940-1945”, primo di vari libri. Sempre per Odoya: “Un secolo di battaglie aeree”, “Storia dei grandi esploratori”, “Le ali di Icaro” e “Dossier Caporetto”. Per Greco e Greco: “Furia celtica”. Nel 2018, ecco per Newton Compton la sua enciclopedica “Storia dei servizi segreti”, su intelligence e spie dall’antichità fino a oggi.

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