Dopo la disfatta afghana a Washington è l’ora dello scaricabarile
“La vittoria ha moltissimi padri, la sconfitta è sempre orfana”, diceva 200 anni or sono il poeta britannico John Keats e la disfatta subita in Afghanistan da Stati Uniti e Alleanza Atlantica non fa eccezioni. Una sconfitta ancora lontana dall’essere metabolizzata ma che già oltre Atlantico ha scatenato la corsa allo scaricabarile delle responsabilità.
Una partita che vede protagonisti i vertici militari, auditi nei giorni scorsi dalle commissioni del Congresso, ma che in realtà è tutta politica con i democratici intenti a scaricare ogni responsabilità sugli accordi di Doha firmati da Donald Trump con i talebani e i repubblicani impegnati a rilanciare le accuse al Presidente Biden di aver trascurato la reale situazione sui campi di battagli afghani, con l’obiettivo di indebolire un’Amministrazione già per molti versi opaca.
Il capo di stato maggiore congiunto Mark Milley (nella foto sotto), massima autorità militare statunitense, ha riconosciuto davanti alla commissione Difesa della Camera, che gli Stati Uniti hanno “perso” la guerra dei 20 anni in Afghanistan.
“E’ evidente per tutti noi che la guerra in Afghanistan non è terminata nel modo che volevamo, con i talebani al potere a Kabul.
Questo “fallimento strategico” è stato “la conseguenza di decisioni strategiche che risalgono al passato”: le fallite occasioni di catturare o uccidere Osama bin Laden poco dopo l’intervento in Afghanistan nel 2001, l’invasione dell’Iraq nel 2003 che ha drenato numerose truppe, l’incapacità di Washington di impedire che il Pakistan diventasse un “santuario” per i talebani e infine il ritiro dei consiglieri militari dai battaglioni afghani.
Circa la gestione dell’ultima fase del conflitto afghano, il sito statunitense Axios ha reso noto che il generale Milley avrebbe accusato esplicitamente, durante l’audizione a porte chiuse, il dipartimento di Stato per il fallimento dell’evacuazione dall’Afghanistan, affermando che i funzionari “hanno aspettato troppo a lungo” per ordinare le operazioni di ritiro dall’aeroporto di Kabul.
Milley ha ammesso che “la nostra credibilità è stata danneggiata dal ritiro dall’Afghanistan” e ha poi aggiunto che l’intelligence aveva previsto il collasso delle forze di sicurezza afghane dopo il ritiro statunitense ma senza intuire che sarebbe stato così rapido, al punto da verificarsi prima ancora che venisse completato il ritiro delle forze alleate.
Per il generale Frank McKenzie (nella foto sotto), alla testa del Central Command competente per il teatro operativo afghano, il collasso del governo e delle forze militari di Kabul che ha portato al trionfo dei talebani è dipeso dall’accordo del 29 febbraio 2020 concluso dall’amministrazione Trump con i miliziani, che impegnava il governo americano al completo ritiro delle truppe entro il 21 maggio 2021 in cambio della fine degli attacchi contro il contingente internazionale.
In audizione davanti alla Commissione Forze Armate della Camera dei Rappresentanti, McKenzie ha chiarito che una volta che il numero delle truppe statunitensi è sceso sotto le 2.500 unità – come voluto da Joe Biden in aprile per completare il ritiro entro settembre – lo sgretolamento delle autorità di Kabul ha subito una forte accelerazione.
”La firma degli accordi di Doha ha avuto un effetto molto nefasto sul governo e sui militari afghani, soprattutto psicologico, ma noi abbiamo fissato una data oltre la quale sapevano che non avrebbero più ricevuto assistenza”, ha dichiarato.
Tra le cause della sconfitta il segretario alla Difesa, Lloyd Austin, ha citato la rinuncia ai raid aerei, che “ha permesso ai talebani di rafforzarsi, intensificando gli attacchi sull’esercito di Kabul” e causandogli pesanti perdite.
In realtà l’Amministrazione Trump non aveva interrotto i raid aerei ma, al contrario, li aveva potenziati di fronte ai reiterati attacchi condotti contro le forze governative di Kabul dai talebani che violavano così gli accordi firmati in Qatar.
In base a quel trattato infatti, al ritiro delle truppe statunitensi avrebbe dovuto corrispondere anche l’impegno dei talebani a non ospitare gruppi terroristici come al-Qaeda sul territorio afghano e a cessare le attività belliche e a negoziare con il governo del Presidente Ashraf Ghani per offrire un futuro pacifico alla nazione.
Impegni che i talebani non hanno mantenuto, incoraggiati anche dall’iniziativa assunta da Trump alla vigilia delle elezioni presidenziali di gennaio, quando ridusse a soli 2.500 militari la presenza in Afghanistan (e anche in Iraq) con l’obiettivo “elettorale” di riportare a casa il maggior numero possibile di soldati.
Un ulteriore incoraggiamento i talebani lo hanno incassato dalla fermezza con cui Biden, insediatosi alla Casa Bianca, ha insistito nel confermare il completo ritiro delle truppe americane e alleate entro l’11 settembre di quest’anno, nonostante i talebani avessero accentuato gli attacchi alle forze di Kabul: scadenza poi anticipata alla fine di agosto in seguito alla rapida vittoria talebana.
Non a caso i generali Milley e McKenzie hanno affermato nelle audizioni di aver raccomandato alla Casa Bianca di mantenere in Afghanistan almeno 2.500/3.500 militari per sostenere il governo e le forze di Kabul, avvertendo che il ritiro completo e incondizionato ne avrebbe provocato il collasso.
Un avvertimento giunto all’Amministrazione Biden dai vertici militari ammesso anche da Austin e che è destinato ad avere un forte impatto politico dal momento che Biden ha sempre negato che i capi della Difesa avessero suggerito di mantenere contingenti militari a Kabul.
Milley è giunto ad affermare che anche il punto principale degli accordi di Doha, cioè l’impegno dei talebani a non accogliere milizie qaediste sul territorio afghano, è stato di fatto disatteso poiché “i talebani erano e rimangono un’organizzazione terroristica e non hanno ancora rotto i legami con al-Qaeda”. Il generale ha valutato che esiste la possibilità che al-Qaeda si ricostituisca in Afghanistan in un periodo compreso tra 6 e 36 mesi.
La responsabilità politica della disfatta subita in Afghanistan è quindi principalmente attribuibile a Biden, che ha di fatto ignorato gli sviluppi sul terreno, ma anche a Trump ha raggiunto un accordo con i talebani senza interrompere il ritiro delle truppe a fronte del mancato rispetto delle intese da parte dei miliziani islamisti.
In termini strategici, la responsabilità andrebbe attribuita anche a Barack Obama che avviò i negoziati con i talebani ma che molto prima, nel 2010, quando i talebani cedevano terreno e subivano perdite spaventose in seguito alle pesanti offensive alleate, annunciò che dall’anno successivo sarebbe iniziato il ritiro delle truppe.
Un messaggio che indicò chiaramente la volontà statunitense di disimpegnarsi dal conflitto e che incoraggiò i talebani a resistere, riorganizzarsi e attendere la drastica riduzione delle forze alleate sul terreno per riprendere l’offensiva.
In ultima analisi la sconfitta è figlia dell’incapacità degli USA e dell’Occidente di sostenere un conflitto prolungato, anche se a bassa intensità, e di sopportarne le relative perdite, anche se estremamente contenute rispetto alle guerre del passato. Su questi temi dovrebbero forse concentrarsi analisi e valutazioni di cui al momento non vi è traccia.
Foto US DoD e Twitter
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane" e “Immigrazione, la grande farsa umanitaria”. Dall’agosto 2018 al settembre 2019 ha ricoperto l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza del ministro dell’Interno.