Summit NATO: una scatola vuota?
Il 25 maggio, in fretta e furia, tra un incontro di Trump con la leadership dell’Unione Europea e il volo che aspettava i “grandi“ per portarli a Taormina, ci si è ritagliati anche un paio d’ore per il Summit NATO.
Ovviamente, il protocollo ha i suoi imperativi e i tempi ristretti tra un impegno e l’altro non potevano far immaginare che l’incontro fornisse anche l’opportunità per una franca discussione sul merito degli argomenti. Tra l’altro, ci si attendeva che a Taormina gli argomenti di contrasto tra USA e Europei sarebbero stati numerosi e nessuno voleva ampliare il confronto anche ad un “teatro” ritenuto secondario da tutti come la NATO.
Con l’arrivo di Capi di Stato e di Governo a partire dalle 14,30 e poi una serie di inaugurazioni (ben 3 memoriali, per l’11 settembre, per l’Articolo 5 e per il muro di Berlino!) seguite da foto di gruppo e visita della nuova faraonica sede dell’Alleanza (inaugurata per l’evento – vedi foto d’apertura), sembrava quasi che nel redigere il programma si volesse ridurre al minimo qualsiasi possibilità per i Capi di Stato e di Governo di accennare, sia pure di sfuggita, a qualsivoglia problema serio. Problematiche, queste, che di fatto potevano essere affrontate solo nelle tre ore scarse dedicate alla “cena di lavoro”.
L’impressione è che si volesse solo garantire una “photo opportunity” senza il rischio di confronti di idee che avrebbero potuto essere fonte di imbarazzo.
I funzionari del Segretariato Internazionale, come al solito, hanno fatto del loro meglio per portare sul tavolo un documento che fosse accettabile alle diplomazie di tutti i 28 membri e soprattutto ai rappresentanti dell’Amministrazione Trump.
Il documento doveva essere approvato all’unanimità (sia per le procedure dell’Alleanza sia per fugare ogni possibile dubbio su un allentamento del legame transatlantico, dubbio tutt’altro che peregrino alla luce delle passate dichiarazioni del presidente Trump).
Tale documento, pertanto, poteva essere nel migliore dei casi solo il massimo comun denominatore tra le posizioni nazionali, peraltro, con un occhio di particolare riguardo ai potenziali ritorni mediatici e politici interni dei governanti dei paesi membri a cui bisognava distribuire contentini utili per la “propaganda” nazionale, in viste delle imminenti tornate elettorali.
Sembrerebbe invece essere stato ritenuto secondario che tale documento potesse essere politicamente rilevante anche per l’Alleanza, in un momento in cui la NATO fatica a ritagliarsi un ruolo significativo e a destreggiarsi tra le visioni totalmente divergenti in materia di sicurezza internazionale dei suoi membri.
In conclusione, certo non era questa l’occasione in cui ci si potesse attendere un rilancio dell’Alleanza Atlantica. Però, forse, il risultato è stato più povero di contenuti di quanto si potesse ambire anche nel difficile contesto delineato.
Non mi pare, infatti, che sia stato conseguito alcun risultato in merito a molti punti essenziali per il futuro dell’Alleanza che sono rimasti in sospeso (in primis, i rapporti con la Russia, ma anche cosa fare in Libia, quale futuro per la politica di deterrenza verso Est, quale futuro in merito alla politica di “projecting stability” dell’Alleanza che appare un po’ vaga al momento, eccetera). Senza piangere ulteriormente su ciò che non è stato fatto, vediamo che cosa è venuto fuori.
Awacs contro l’Isis?
Il titolo sul sito ufficiale dell’Alleanza è : “I leader della NATO concordano di fare di più per combattere il terrorismo e garantire più equa ripartizione degli oneri” . Prometterebbe bene. Nel testo si legge che “Questo incontro è stato una forte dimostrazione di unità transatlantica e risolutezza,” e più oltre che “la NATO diventerà membro a pieno titolo della coalizione globale, in cui tutti i 28 alleati già prendono parte…..
Ciò consentirà alla NATO di essere parte delle decisioni politiche (a monte dell’intervento NdA), comprese quelle attinenti al coordinamento delle attività addestrative e di capacity building (nei paesi dove si combatte l’ISIS NdA).
“L’Alleanza si impegna ad aumentare il proprio sostegno alla coalizione, con l’impiego di aerei AWACS della NATO, contribuendo a migliorare la gestione dello spazio aereo.
Abbiamo anche deciso di stabilire una cellula di terrorism intelligence all’interno della nostra nuova Divisione di Intelligence. Ciò permetterà di migliorare la condivisione delle informazioni tra alleati, comprese quelle relative ai foreign fighters,”.
Le dichiarazioni ufficiali continuano: “I leader della NATO si sono anche impegnati a fare di più per garantire una più equa condivisione degli oneri in ambito Alleanza. Oggi abbiamo deciso di sviluppare piani nazionali annuali, che stabiliscano come gli Alleati intendano soddisfare l’impegno di investimento per la difesa che sottoscritto nel 2014. I piani nazionali dovranno considerare tre aree principali: fondi, capacità e forze messe a disposizione “
Fin qui le dichiarazioni ufficiali dell’Alleanza. In pratica, ne escono due punti. Il primo è che la NATO diventerà membro a pieno titolo della coalizione globale contro l’ISIS e il terrorismo in generale. Il secondo è la ripetizione della solita tiritera sul burden sharing. Vediamoli uno alla volta.
La NATO entra nella coalizione anti-terrorismo. Oddio…in quale? Quella a guida statunitense o quella a guida russa (solo per citare le più note)? La risposta sembrerebbe scontata (anche se mi pare che la Turchia oggi come oggi stia forse gravitando più intorno a quella russa).
Sorvoliamo in merito alla credibilità degli USA nel contrastare l’autoproclamato califfato sunnita (soprattutto dopo le recenti prese di posizione di Trump in merito ad Arabia Saudita e Iran).
Concentriamoci solo su cosa potrebbe fare la NATO nel quadro della composita Armata Brancaleone che (a parole) proclama di combattere l’ISIS.
Intanto subito viene chiarito che la NATO non parteciperà ad operazioni di combattimento (sic!) e qui mi sorge il dubbio che i nostri diplomatici siano riusciti ad “italianizzare” l’Alleanza.
Si citano espressamente gli AWACS per il controllo/gestione del traffico aereo (AWACS che sono sotto Comando NATO, ma di cui di fatto solo un gruppo di 17 nazioni, tra cui l’Italia, sostengono oneri di personale e costi) e la costituzione di una “terrorism cell” nell’ambito della Divisione Intelligence del NATO HQ.
Entrambe iniziative positive, ma assolutamente non risolutive e, forse, neanche veramente significative.
Intanto, tali impegni non coinvolgono quelli che sono i veri punti di forza dell’Alleanza. In primis due:
- la capacità di esprimere un indirizzo politico-strategico condiviso tra tutti i paesi membri (il “decision making process” dell’Alleanza)
- la disponibilità di una rodata catena di comando e controllo multinazionale permanente, che si snoda dal livello politico-srategico a quello tattico.
In merito al decision making process, questo consente ad ogni paese membro di essere parte dell’iter decisionale, intervenendo sia nelle fasi di pianificazione che di condotta delle operazioni. In questo nuovo ruolo sussidiario così non sarà più. L’obiettivo dichiarato dal Segretario Generale sarebbe quello di consentire alla NATO di essere parte delle decisioni politiche. Mi chiedo in base a cosa l’Alleanza otrebbe aspirare ad esserlo?
Un ruolo marginale
La strategia di una “coalition of the willing” si decide, da sempre, nella capitale del paese guida. Tale nazione fornisce agli altri componenti informazioni in relazione al loro “need to know” e li coinvolge nel processo decisionale, di volta in volta esclusivamente, in base a convenienze del momento. Si tratta di coalizioni per loro natura a “geometria variabile”. Penso che le esperienze di “Enduring Freedom” e “Iraqi Freedom” siano state abbastanza chiare al riguardo. Inoltre, l’attuale amministrazione statunitense appare molto più restia a qualsiasi forma di multilateralismo di quelle che la hanno preceduta.
La NATO non porterà alla campagna anti-terrorismo propri assetti (a parte gli AWACS) e, comprensibilmente, le singole nazioni NATO (soprattutto quelle che forniranno contributi più significativi) continueranno a voler dialogare in merito ai propri contributi direttamente con la nazione guida, senza farsi rappresentare da Bruxelles.
In merito alla “fusion cell” sul terrorismo, non si può fare a meno di osservare che nel mondo dell’intelligence si siano spesso viste abortire iniziative del genere. Sappiamo che il mondo dell’intelligence è tutt’ora molto più propenso a scambi d’informazione bilaterali che non a far convergere i propri contributi (sempre gelosamente custoditi) in un centro di fusione aperto a 28 utenti (tra poco a 29 con il Montenegro), di cui peraltro si ignora l’affidabilità. Tra l’altro sappiamo che gli USA e il Regno Unito (che si avvalgono delle strutture di intelligence forse più capaci in ambito NATO) prediligono il ristretto “Five eyes club” rispetto allo scambio in ambito Alleanza.
Soprattutto, però, l’intelligence assolve funzioni strettamente connesse con gli interessi delle singole nazioni e dei loro governi. Interessi che travalicano il puro settore della sicurezza nei confronti di minacce militare o terroristiche, per abbracciare campi ben più vasti, spesso connessi anche agli interessi economici e commerciali dei paesi.
Se non si può immaginare una vera difesa comune senza una politica estera comune, per un’intelligence comune, anche questo non basterebbe. La condivisione di informazioni resterà sempre soggetta ad una regola non scritta del do ut des. Buona parte delle “barbe finte” continuerà a pensare “se condivido “gratis” informazioni preziose con gli altri 27 partner NATO che cosa ci guadagna la mia nazione o il mio servizio?”.
Non credo che alcune recenti iniziative USA nel settore abbiano in realtà creato eccessivo imbarazzo nei rapporti tra CIA e omologhi stranieri, ma confermano come la politica del do ut des risponde a interessi prettamente nazionali.
In merito alla catena di comando della NATO, che è un altro suo punto di forza, a cosa servirebbe in questo ruolo ancillare in cui dovrebbe limitarsi a fornire sostegno alla “vera” catena di comando della coalizione? Verrebbe avvilita nelle funzioni, in modo da poter essere successivamente svuotata di significato e di risorse.
Ancora più grave se alcuni ingranaggi di tale catena di comando venissero semplicemente transitati sotto la direzione politico-militare della coalizione a guida USA.
In questo vago impegno contro il terrorismo vedo scarsi benefici per la NATO, ma sicuramente, grandi rischi. L’esperienza, a mio avviso fallimentare (dal punto di vista politico più che militare), dell’intervento NATO in Afghanistan dovrebbe consigliare l’Alleanza dall’evitare di ripetere simili avventure. Come noto, infatti, Enduring Freedom (a guida USA) incominciò ad operare in Afghanistan subito dopo all’attacco alle Torri Gemelle. La NATO, che probabilmente all’epoca avrebbe partecipato, non era parte dell’intervento in Afghanistan. Ciò in quanto Bush non voleva confrontarsi con gli “impicci” della pastoie decisionali multilaterali.
Solo nell’agosto 2003, su pressione USA, la NATO incominciò ad assumere un ruolo in relazione all’Afghanistan. Ruolo inizialmente limitatissimo, ovvero il supporto al Corpo d’Armata Tedesco-Olandese che doveva assumere la responsabilità di ISAF (la cui are di responsabilità era all’epoca limitata alla sola Kabul).
Nel 2006 la NATO estenderà la propria responsabilità sull’’intero Afghanistan, assumendo su pressione statunitense e britannica responsabilità e compiti sempre più estesi per l’operazione. Occorre, peraltro, rilevare come le tempistiche dell’intervento in Afghanistan (che ricordano quelle della tessitura della mitica Penelope – con un susseguirsi di incrementi e di riduzioni di forze impegnate) erano spesso dettate dalle esigenze elettorali di Washington. Però il discredito per l’inconcludenza di tale operazione grava ora anche su Bruxelles.
L’Alleanza in Afghanistan si è giocata tutta la credibilità che aveva acquisito nei Balcani. L’errore sarebbe da non ripetere con la partecipazione in ruolo poco chiaro ad una guerra al terrorismo che l’Alleanza non potrebbe gestire e dove sarebbe ostaggio delle scelte di Washington.
Le spese militari
L’altra grande decisione assunta nel Summit riguarda il burden sharing. Si continua a ribadire questo teorico impegno a dedicare il 2% dl PIL alla Difesa, assunto nel 2014 nel corso al Summit di Cardiff. Non voglio entrare in merito alla congruità o meno di tali percentuali, che lascio discutere a esperti del settore.
Mi limito, invece, a rilevare alcune incongruenze di natura politica in tale impegno che dovrebbe teoricamente essere a favore dell’Alleanza.
Intanto, forse su pressione di paesi (come il nostro) più propensi a mandare soldati ovunque ci vengano chiesti, piuttosto che spendere per equipaggiarli adeguatamente, Stoltenberg ha dichiarato che gli impegni “dovranno considerare tre aree principali: fondi, capacità e forze messe a disposizione “. Dichiarazione diplomatica, che però è il seme di future contestazioni. Quali saranno i parametri per paragonare quanto messo a disposizione in questi tre settori non comparabili?
“Chissene frega” avranno pensato gli “sherpa” che sono riusciti faticosamente a raggiungere l’accordo su tali dizioni. “Quando sorgerà il problema l’affronteremo, per il momento dobbiamo fornire qualcosa al Segretario Generale da dare in pasto alla stampa”. Comprensibile! Peraltro, non è forse questo il punto importante.
Mi pare che sia il concetto stesso di fissare un obiettivo di spesa per la difesa connesso con il PIL ad avere ben poco senso per l’Alleanza.
Gli USA spendono ben più del 2 % per la Difesa. E allora? Tutti quegli investimenti sono connessi a teatri e contesti di sicurezza rilevanti per la NATO? Quanto pesano gli interessi puramente statunitensi nel Pacifico, in Asia e in Africa su tale spesa? Quanto, ad esempio, l’impegno USA in Sud Corea è nell’interesse degli altri membri della NATO? Ne sarebbe possibile andare a distinguere nel coacervo di spese per la difesa USA quali riguardano interessi comuni con l’Alleanza e quali nulla hanno a che fare con la NATO.
Quanto della spesa per la difesa della Grecia è finalizzata al contrasto di rischi esterni all’Alleanza e quanto per salvaguardarsi da un chiassoso e prepotente vicino di casa, che guarda caso è anch’esso membro del club atlantico?
Quanta parte del budget della Difesa italiana va per l’Arma dei Carabinieri (che assolve quasi esclusivamente compiti di polizia) o per finanziare forze militari impegnate in compiti, comunque, di sicurezza interna (ad esempio, l’ormai permanente operazione “strade sicure”, il naviglio impiegato nelle varie attività di assistenza ai migranti, l’acquisizione di assetti “dual use” per pubbliche calamità)?
Se poi si va a tentare di differenziare le spese per l’investimento da quelle, ad esempio, per gli stipendi, il discorso evidenzierebbe ancora più incongruenze.
Peraltro, occorre evidenziare che chi ci fustiga chiedendoci di spendere di più per la Difesa è anche il presidente – piazzista che già abbiamo visto brillantemente in azione a Riad. Il presidente cioè della nazione che detiene tutti i primati nel settore della produzione della difesa, il cui comparto industriale non potrebbe che beneficiare di un incremento dei budget della difesa di quei paesi europei, che nonostante gli sforzi dell’EDA (European Defence Agency) continuano a far comprare oltreoceano.
In conclusione, la NATO non poteva aspettarsi molto dal Summit in questo frangente internazionale, ma se per evitare contenziosi era necessario annacquarlo a tal punto, forse poteva essere il caso di non farlo proprio.
Foto: NATO, AP, Youtub e Globalnews.ca
Antonio Li GobbiVedi tutti gli articoli
Nato nel '54 a Milano da una famiglia di tradizioni militari, entra nel '69 alla "Nunziatella" a Napoli. Ufficiale del genio guastatori ha partecipato a missioni ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul. E' stato Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI) e, in ambito NATO, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di SHAPE e Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Ha frequentato il Royal Military College of Science britannico e si è laureato con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Trieste.