Quale ruolo per l’Italia tra Trump, Merkel, Macron e la post Brexit

In amore, come in guerra è bene giocare d’anticipo. Chi picchia (bacia) per primo, picchia (bacia) tre volte. Inoltre, se ieri la guerra era la continuazione della politica con altri mezzi, oggi sempre di più è la politica ad essere, se non la continuazione, almeno la simulazione della guerra con altri mezzi. Adattato alla situazione italiana, qui ed ora, tutto ciò potrebbe significare che il nostro Paese dovrebbe riflettere attentamente e presto sui nuovi scenari determinati dai recenti eventi referendari/elettorali in Europa e non solo – e forse rifasare con la giusta dose di intelligente spregiudicatezza la sua posizione relativa rispetto ai tradizionali alleati.

In sintesi: la Brexit e l’elezione del presidente jupiteriano Micron (che è solo all’inizio: se continua così – come ha fatto ad esempio col suo capo di SM della difesa  generale de Villiers– ne vedremo delle belle!) stanno determinando, oltre ad una crescita inquietante delle tradizionali  malagrazie francesi verso il nostro Paese (caso Fincantieri-STX e blocco di Ventimiglia, tanto per cominciare), un rafforzamento piuttosto esclusivo del core carolingio all’interno della UE, rafforzamento dal quale sono esclusi tutti gli altri partner comunitari, compresi quelli che per dimensioni e storia ne avrebbero più diritto. Soprattutto l’Italia, socio fondatore, ma anche, se si vuole,  la Spagna e la Polonia.

Se il buongiorno si vede dal mattino,  il cielo è pieno di nuvoloni. Forse è il caso che il nostro Paese ricominci a ri-esercitarsi nella danza che storicamente ha saputo fare meglio, ovvero  quel valzer che Von Bulow eternò in una suo discorso al Reichstag del 8 gennaio 1902.

Per giustificare la sospetta ambiguità verso la Triplice Alleanza dell’Italia il cancelliere ebbe a dire, con un humor insolitamente teutonico” che in un matrimonio felice il marito non ha ragione di diventare subito rosso se la sua signora una volta fa un innocente giro di valzer con un altro“. Nel corso dei decenni la signora in questione divenne così brava, nella danza viennese, che molti furono i suoi cavalieri nel corso del vorticoso secolo che abbiamo alle spalle. E tutto sommato, Ballando sotto le Stelle, non le andò troppo male…

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Anche oggi i partner potenziali non fanno difetto: innanzitutto gli Stati Uniti, che hanno perso con il Regno Unito brexista il loro lobbista (o cavallo di Troia) all’interno della Unione Europea e con tutta probabilità sono in cerca di un sostituto (o possono essere indotti a farlo). Nel caso, nessun candidato potrebbe essere più adatto del loro storico sodale nel Mediterraneo – tale, come sostiene il Cernuschi, sin dal 1892 (con la sola eccezione di un fugace quadriennio che va dal maggio ’39,  firma del Patto d’Acciaio con la Germania, al settembre ’43) –  il quale sodale peraltro coincide oggi come ieri con la portaerei naturale distesa nel cuore del sistema tricontinentale euro-africo-asiatico, sulla quale è già operante da mezzo secolo il terzo o quarto sistema di basi del Pentagono nel mondo.

Non occorre sottolineare, ad ulteriore conferma della ragionevolezza dell’ipotesi, come dal 1945 la stragrande maggioranza degli eventi strategici cruciali nei quali il nostro Paese abbia giocato un ruolo rilevante, o anche solo presenzialista, ci ha visti strettamente a fianco del grande alleato transatlantico più che con qualsiasi altro alleato europeo, direttamente o con la finzione della Nato.

Dal trattato di pace post bellico, i cui termini furono mitigati dagli americani (gli anglofrancesi pretendevano condizioni molto più dure), all’adesione alla Nato sin dalla prima ora, favorita da Washington, alla crisi di Suez, che ci vide in posizioni critiche verso l’avventura neocolonialista franco-britannica, allineati alle posizioni dell’amministrazione Eisenhower, all’atteggiamento similare verso la guerra  d’Algeria.

A seguire possiamo ricordare l’assegnazione dei comandi Nato nel Mediterraneo, che favorì le nostre forze armate anche a detrimento delle ambizioni francesi e tutti gli eventi successivi, dalla crisi degli euromissili (nella quale l’assenso iniziale dell’Italia fu cruciale), all’intervento joint in Libano, ai boat people del Vietnam, ai peace keeping e peace enforcing dei decenni successivi – Somalia, Timor est, Golfo Persico Uno e Due, Desert Storm, Afghanistan, Balcani, Oceano Indiano.

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Gli interventi più corposi, pesanti e rischiosi delle nostre unità militari sono stati sempre a fianco dei GI, e non sempre a fianco degli altri alleati europei (dei “cugini” francesi, in particolare). E ciò  non solo per ragioni di subordinazione geopolitica,  sulla quale si può fare tutte le ironie “gauche caviar” o “Casa Pound” del caso ma che corrispondono alla ineludibile realtà dei rapporti di forza esistenti all’interno dell’alleanza occidentale, ma anche per un rapporto fiduciario  e relativamente “leale” (parola ardua nei rapporti internazionali, ma a volte succede) che è una costante delle relazioni fra i mondi militari e diplomatici dei due paesi, a prescindere dalle colorazioni politiche dei governi delle varie epoche storiche.

Successe persino nei periodi meno politicamente corretti: F.D. Roosevelt ebbe parole di plauso e di ammirazione per Mussolini e con il New Deal copiò il suo programma di interventi statali per risollevare l’America dalla Depressione, per non parlare degli onori e delle entusiastiche accoglienze che l’establishment Wasp riservò a Balbo e ai suoi trasvolatori.

Il Duce, dal canto suo, ammirava degli USA la capacità di pensare in grande, il progresso materiale coincidente con quello sociale e l’etica del self made man yankee, che poi era proprio la sua. Cercò a lungo un rapporto preferenziale con FDR e per un certo periodo ci riuscì. Mantenne sempre contatti ufficiosi con l’establishment stellato, anche in piena guerra, dopo aver creato il cinema italiano ispirandosi a quella Hollywood che suo figlio Vittorio aveva scandagliato in profondità, non certo su sua personale iniziativa. Da quel grande manipolatore mediatico che era, Mussolini aveva colto acutamente le immense potenzialità promozionali e propagandistiche del mezzo.

Venendo all’oggi, e limitandoci alla nostra sfera di interesse, ovvero quella militare , che poi è il caposaldo delle relazioni italo americane del dopoguerra, è evidente che qualsiasi rapporto fra Italia e Stati Uniti non può prescindere dalla posizione e dal ruolo del nostro paese nell’ Unione Europea, nel cui ambito si sta sviluppando un apparente ancorché indefinito consolidamento delle iniziative di sicurezza&difesa, accelleratosi con l’uscita del Regno Unito dalla costruzione continentale.

Il principale caposaldo concreto di queste iniziative sembra essere un cospicuo fondo comunitario per la R&D militare (a regime 5.5 miliardi Euro, pare) il cui principale usufruttuario sarà con tutta probabilità – ma guarda! –  un gigantesco programma di sviluppo di un caccia di quinta generazione che Francia e Germania – e loro sole – hanno recentemente deciso di lanciare insieme, escludendo gli altri partner. Sotto il profilo simbolico non si capisce se la decisione M-M (Macron-Merkel) sia stata più improvvida o arrogante.

Dati gli enormi investimenti che una iniziativa del genere comporta, è più che probabile che l’ipotesi delineata sia quasi obbligata, anche per il peso che l’Eliseo e la Cancelleria di Berlino hanno sui processi decisionali della UE.

L’Italia non è stata invitata a partecipare al programma, e se questo può importare relativamente poco alle sue forze armate, legate strettamente ai destini dell’F 35 (che per inciso con tutti i suoi problemi si trova almeno un ventennio avanti al suo futuro emulo franco- tedesco) e all’integrazione, più che interoperabilità con le FFAA statunitensi (la distinzione, pur capziosa e per addetti ai lavori, non è di poco conto), importa molto all’industria della difesa, che da almeno un ventennio ha puntato tutte le sue carte e i suoi asset sulla coproduzione paneuropea degli armamenti.

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E’da considerare che nel trentennio precedente la collaborazione della nostra industria con partner esteri aveva riguardato soprattutto i rapporti con aziende statunitensi, soprattutto per forniture su licenza. La coproduzione europea, che si prefiggeva l’obbiettivo di esprimere un salto di qualità nei rapporti governativi, operativi e industriali, è avvenuta e sta avvenendo sia in forma bi-multilaterale che, molto più raramente, in una piena coproduzione europea aperta a tutti i membri dell’Unione.

Per il nostro paese i risultati di tale cooperazioni sono stati importanti, ma ambigui. Il significato simbolico è fuori discussione: si tratta dei traguardi più importanti raggiunti dalla UE nella sua storia, anche se stranamente nessuno lo rileva mai, almeno in questi termini. Dal punto di vista dei costi e dei risultati operativi il discorso è diverso e molto variegato. Si va da indubbi successi, ad esempio nel campo missilistico, a fallimenti, in quello dei materiali terrestri (corazzati e blindati, in particolare) e dell’elettronica, rimasta in gran parte nazionale, ad un mixed feeling nei confronti delle produzioni aeronautiche. Tornado ed Eurofighter sono ottimi aeroplani, anche se forse non eccellenti, ma sono risultati nel contempo spaventose macchine mangiasoldi, sopratutto l’ultimo. Gli Stati Maggiori tremano al pensiero di ripetere l’esperienza. L’A 400 M è per ora più famoso per i ritardi di sviluppo per che per la puntualità degli atterraggi operativi.

In campo navale la coproduzione di caccia e fregate italo francesi e sommergibili italo tedeschi costituiscono gli esempi più cospicui e rappresentativi di programmi comuni. Ma l’U 212, peraltro eccellente, è un sommergibile tedesco al 90, o 95%, e Fincantieri lo costruisce su licenza: in quanto ai cacciatorpediniere Orizzonte e fregate FREMM, un alto responsabile delle Marine interessate ebbe a dirmi, diversi anni fa, che erano stati una delusione.

“Lavorare con i francesi – aggiunse – è tremendo, una fatica terribile” (chi scrive concorda, ricordando il tempo che fu). Infatti i nuovi programmi MMI della Legge Navale 2.0, pur capitalizzando sull’esperienza di Orizzonte e FREMM, nonché  dati in gestione all’agenzia europea (ma multinazionale, non UE)  OCCAR per il procurement, sono di concezione e realizzazione nazionali, anche se imbarcano sensori, sistemi e armi sviluppati congiuntamente.

Quindi, ricapitolando, lo sviluppo europeo di una vera industria della difesa e di veri programmi militari sono in forse, al di là delle ottime intenzioni di M.me Mogherini, con la sua PESCO e tutto il resto. Il programma bilaterale franco-tedesco può essere una mazzata terribile all’industria della difesa europea come tale e vanificare decenni di sudore, lacrime e cospicui danari.

Se questo programma fosse la prima manifestazione concreta di un direttorio carolingio che ha intenzione di procedere a forza di diktat unilaterali e non di cooptazioni concordate è bene che almeno per quanto riguarda il vitale capitolo della sicurezza & difesa si comincino a considerare soluzioni se non alternative (gli errori si possono sempre correggere in corso d’opera), almeno accessorie e di salvaguardia. La relazione speciale ed anche emozionale fra Stati Uniti ed Italia può fornire un porto sicuro nella perigliosa navigazione del nostro Paese verso un Risorgimento Europeo che s’ha da fare, certo, ma nel modo giusto.

E in questo contesto è bene non dimenticare che la Nato esiste ancora, è viva e vitale, almeno come può essere una solida e sana persona di mezza età e non ha mai avuto la vocazione di rappresentare il bambino della tinozza. Prima di fantasticare su improbabili assonanze geopolitiche, vie della Seta, Eurafrica, Atlantico e Urali, Stream nordici o meridionali, ricordiamoci del poderoso bastione nordamericano che neanche un Trump riuscirà a scalfire.

Foto: EPA, Getty Images e AFP

Ufficiale di Marina in spirito ma in congedo, ha fatto il funzionario Nato e il dirigente presso aziende attive nel settore difesa. Scrive da quasi un quarantennio su argomenti navali, militari, strategici e geopolitici per pubblicazioni specializzate e non. Vive a Roma.

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