Il crollo del Califfato allarga la crisi in Medio Oriente
La Coalizione a guida statunitense ha già definito lo scontro in atto nella Valle dell’Eufrate “la battaglia finale contro lo Stato Islamico” per ora manifestatasi con una ampia manovra a tenaglia che sta investendo gli ultimi territori di Siria e Iraq in mano al Califfato. Le forze governative siriane e le milizie Hezbollah appoggiate dai bombardamenti aerei russi avanzano nell’est verso Abukamal, roccaforte dell’Isis nei pressi del confine con l’Iraq.
Le forze di Damasco sono segnalate a meno di 40 chilometri dalla cittadina sulla quale puntano anche le milizie curde delle Forze Democratiche Siriane (FDS) guidate da forze speciali degli USA che hanno il compito di impedire al governo di Assad di riprendere il controllo di tutto il territorio nazionale e soprattutto dei pozzi petroliferi delle regioni orientali.
Abukamal è situata nella provincia di Deir Ezzor e la sua conquista garantire continuità territoriale alla cosiddetta “Mezzaluna Scita” consentendo muovere uomini e mezzi dall’Iran attraverso Iraq, Siria e fino al Libano meridionale in mano a Hezbollah.
Esattamente lo scenario che Washington (nemico giurato di Teheran) vorrebbe scongiurare grazie all’impiego delle milizie curde e arabe delle FDS. Pochi chilometri sud di Abukmal, oltre la frontiera le forze irachene e le milizie sciite loro alleate stanno avanzando verso la località di al Qaim incontrando inizialmente scarsa resistenza.
Le forze governative, composte da 20.000 soldati di Baghdad e miliziani Hashid Shaabi e da 3.500 membri di milizie tribali locali, sono arrivate a circa 35 chilometri da al-Qaim, difesa secondo stime dei comandi militari, da 2.500 o 3.000 jihadisti.
Il 26 ottobre il premier iracheno Haider al-Abadi aveva annunciato il via all’offensiva per liberare le città di al-Qaim e Rawa. “Daesh non ha altra scelta se non morire o arrendersi. Le legioni dell’eroismo e del sacrificio si stanno muovendo per eliminare l’ultimo bastione del terrorismo in Iraq”. Si ritiene che molti jihadisti si siano trasferiti nella zona di al-Qaim nel sfuggire alle operazioni delle forze irachene nel nord del Paese. Il comandante delle operazioni irachene ad al-Anbar, generale Abdul-Amir Yarallah, ha precisato che l’obiettivo è anche mettere in sicurezza il confine tra Iraq e Siria.
Le forze irachene hanno ripreso più del 90% territorio occupato dall’IS nel 2014, con i jihadisti ora confinati in un piccolo tratto della valle dell’Eufrate adiacente ad alcune delle ultime aree desertiche che controllano ancora in Siria.
La sfida dei curdi siriani
La sconfitta dell’IS, ormai inevitabile, ha riacutizzato le tensioni interne a Ira e Siria. Damasco punta a riprendersi almeno parte dei territori occupati dai curdi delle SDF che su input americano si sono spinti a ridosso delle postazioni siriane.
Lunedì il capo della sicurezza siriana, Ali Mamlouk, “ha incontrato responsabili del partito dell’Unione democratica curda (PDY) nella città di al-Qamishli”, nel nordest della Siria, allo scopo di proporgli “l’autogoverno nel nord del Paese in cambio del suo ritiro dalle aree a maggioranza araba” ha riferito l’agenzia di stampa turca Anadolu.
Il PDY “ha rifiutato l’offerta del regime”, chiedendo invece “una regione federale garantita dalla costituzione” e le fonti dell’agenzia turca hanno rivelato che “i miliziani del partito dell’Unione democratica hanno intrapreso lo scavo di trincee e la creazione di muri di terra nelle aree che li separano dalle forze del regime”. Un passo che “alcuni osservatori hanno considerato alla stregua di una definizione dei confini”.
Se i curdi siriani, su pressione degli USA, manterranno il controllo dei vasti territori arabi non abitati dall’etnia curda, rischiano di dover fronteggiare una doppia offensiva militare, siriana e turca.
In Iraq il successo del referendum per l’indipendenza curda ha scatenato la dura risposta di Baghdad che con esercito e milizie scite ha ripreso ampi territori ai curdi, inclusi giacimenti petroliferi e i valichi di confine con Turchia e Iran.
Peshmerga complici dell’Isis?
Ieri Mahdi Taki, un comandante delle milizie di mobilitazione popolare (filo iraniane) ha addirittura accusato i peshmerga di aver aiutato centinaia di miliziani dell’Isis a fuggire da Hawija, nel nord dell’Iraq, durante l’ultima battaglia condotta dall’Esercito iracheno e dalle milizie per riprenderne il controllo. “Abbiamo ottenuto queste informazioni direttamente dai nostri contatti nei peshmerga. Esistono alcuni cattivi peshmerga che amano il denaro più della loro patria, per cui vengono corrotti dai miliziani dell’Isis”, ha spiegato Taki a Middle East Eye.
La città di Hawija è stata ripulita definitivamente dalla presenza di miliziani dell’Isis lo scorso 5 ottobre ma prima che l’Esercito iracheno arrivasse in città buona parte dei centinaia di jihadisti asserragliatisi al suo interno erano già scappati e il monitoraggio delle vie di fuga sembra indicare l’unica via controllata fatta eccezione per una via controllata dai peshmerga che non hanno partecipato alla battaglia pur avendo affermato che la cittadina appartiene storicamente al territorio curdo.
Fonti curde rivelano invece che circa mille miliziani dell’Isis si sarebbero invece arresi ai peshmerga, mentre l’Esercito di Baghdad continuava a condurre l’offensiva in città. Secondo un miliziano dell’Isis intervistato dal New York Times in un centro di detenzione curdo, sarebbe stato il governatore dell’Isis ad Hawija ad aver ordinato ai jihadisti di arrendersi ai peshmerga, per evitare di essere uccisi dalle truppe irachene.
La versione degli alti comandi dell’Esercito iracheno sembra diversa: dei jihadisti si sono effettivamente arresi ai peshmerga ma molti altri, insieme alle loro famiglie, sono riusciti a corrompere degli ufficiali e a passare il confine, trovando rifugio proprio nel territorio del governo regionale del Kurdistan.
“Secondo le nostre fonti di intelligence, sarebbero circa 3.000 i miliziani (inclusi i famigliari) ad essere passati per i checkpoint curdi nell’area di Hawija e Tal Afar”, sostiene un altro comandante delle milizie in forma anonima. “I leader dell’Isis si stanno dirigendo verso Erbil, e le famiglie dell’Isis si sono perlopiu’ dirette verso Kirkuk, dove si confondono tra i civili”.
Alcune altre fonti interne alle milizie con contatti di lunga data tra i peshmerga, hanno reso note addirittura le presunte tariffe per lascia passare i miliziani: 1.000 dollari per un normale combattente, 2.000 per una famiglia e 10.000 per un leader dell’Isis. Ed è proprio da Kirkuk che verrebbe gestito questo sistema di “mazzette”, in un luogo conosciuto come “l’ufficio di Khalid”.
Il governo regionale del Kurdistan non riceve alcun finanziamento da Baghdad da più di tre anni e ai soldati peshmerga attualmente vengono pagati i tre quarti dello stipendio con ritardi nei pagamenti che ormai sono normalità. Non essendo indipendente ma solamente autonomo, il governo curdo per importare le armi deve necessariamente passare da Baghdad – come probabilmente fece nel 2014, quando le ricevette da Teheran, all’indomani della presa di Mosul da parte dell’Isis – che talvolta peraltro è stata accusata di essersi appropriata di equipaggiamenti militari diretti a Erbil.
Curdi in ritirata
I territori strappati negli ultimi giorni da Baghdad ai curdi sono stati riconquistati quasi sempre dopo negoziati che hanno portato al ritiro dei peshmerga, a volte in seguito a combattimenti, spesso in seguito alle forti tensioni che si registrano tra i diversi movimenti politici curdi divisi sulla risposta da dare a Baghdad.
Il 71enne leader curdo Massoud Barzani ha annunciato le dimissioni dalla carica di presidente del Kurdistan, a pochi giorni dalla scadenza del mandato prevista per il Primo novembre, annunciando che non intende ricandidarsi e lanciando un durissimo atto di accusa agli Stati Uniti e a una parte della componente curda.
A Washington rimprovera di aver già scordato il sostegno fondamentale dei peshmerga nella lotta contro lo Stato islamico a Mosul e in altre zone dell’Iraq.
Barzani è il principale artefice del referendum indipendentista, e alla tv curda Rudaw (che Baghdad vuole chiudere per “incitamento all’odio”) ha affermato di voler continuare a “essere un peshmerga nelle fila del popolo curdo” e che “difenderà sempre le vittorie ottenute dai curdi”.
Barzani ha accusato il governo di Baghdad di aver violato la tregua e la Costituzione occupando Kirkuk con la forza. E non ha risparmiato attacchi – pur senza riferimenti espliciti – ai rivali dell’Upk (Unione Patriottica del Kurdistan) per il “tradimento” che ha portato alla perdita di Kirkuk e dei suoi pozzi petroliferi, risorsa essenziale per le casse di Erbil. I miliziani dell’UPK infatti si ritirarono dalle loro postazioni in città senza avvisare gli altri peshmerga, consentendo così alle milizie scite di Baghdad di penetrare a Kirkuk.
Dai territori ripresi dagli iracheni sono in fuga verso il ridimensionato Kurdistan Iracheno 175 mila profughi. Fughe in massa si sono registrate anche nelle “cittadine cristiane della piana di Ninive” ha sottolineato ad Asianews il primate caldeo Louis Raphael Sako.
(con fonti Ansa, AGI, AFP, Aasianews e Adnkronos
Foto: Isis, SANA, Reuters, AFP, Rudaw
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