Gli interessi nazionali: maneggiare con attenzione
Numerose voci autorevoli si sono levate, negli ultimi anni, a sostenere la necessità che l’Italia si concentri maggiormente sulla difesa dei propri interessi nazionali, anche a costo di abbandonare, qualche volta, l’approccio noto come la “Strategia Partecipativa”, seguita fin dalla fine del secondo conflitto mondiale e che ha fatto di noi un partner tra i più fedeli delle Organizzazioni internazionali cui il nostro Paese ha aderito: in primis la NATO, l’ONU e l’Unione Europea.
Queste voci hanno trovato eco nel Libro Bianco della Difesa del 2015, nel quale si afferma che:
“Il fine ultimo della politica nazionale di sicurezza internazionale e difesa è la protezione degli interessi vitali e strategici dell’Italia. Tale obiettivo richiede che sia assicurata la difesa dello Stato e della sua sovranità, che sia perseguita la costruzione di una stabile cornice di sicurezza regionale e che si operi per facilitare la creazione di un ambiente internazionale favorevole. Sebbene multiformi strumenti d’azione intergovernativa potranno essere impiegati dal Governo per il raggiungimento di tali obiettivi, la capacità delle Forze armate di difendere l’Italia e i suoi interessi rimangono centrali. (LIBRO BIANCO DELLA DIFESA, 2015. Paragrafo 54)
Dato che, da allora, si sono moltiplicate le dichiarazioni politiche nello stesso senso, merita approfondire come il nostro Paese abbia difeso i nostri interessi nel passato, sia quello remoto sia, soprattutto, quello recente, e quali cautele siano necessarie per essere efficaci in questo tipo di azione nel futuro.
Andando indietro nel tempo, è facile infatti scoprire che la Storia si ripete: anche in passato l’Italia, dopo essersi impegnata in alleanze con Nazioni più forti di lei, delusa dagli inconvenienti che queste strategie causavano, ha imboccato la strada della difesa dei propri interessi nazionali, una via che si è rivelata – non meno della precedente – fonte di problemi, delusioni e difficoltà, quando non ci ha portato a dolorose sconfitte. La causa di queste delusioni, come vedremo, è la scomoda posizione del nostro Paese, “socio di minoranza” nelle Organizzazioni cui partecipava, in forza delle sue limitate dimensioni economiche e militari.
Ma cosa sono gli interessi nazionali? Vale la pena di spendere qualche riga per approfondire il loro significato, altrimenti non si sa, fino in fondo, né la loro essenza né, tantomeno quali siano le loro implicazioni.
Le definizioni
Tra le numerose definizioni di “Interesse Nazionale” merita di essere citata quella del manuale di strategia dei Marines USA, noti da decenni per la chiarezza e la semplicità delle loro pubblicazioni:
“gli interessi Nazionali coinvolgono normalmente quattro aree principali: sopravvivenza e sicurezza, integrità politica e territoriale, stabilità economica (nonché il) benessere e (la sua) stabilità”. (US MARINE CORPS. Strategy. MCDP 1-1, 12 November 1997, pag. 38)
Il documento, poi, continua specificando che:
“alcuni interessi che una Nazione vede come essenziali sono definiti interessi vitali. (Essi) si distinguono da altri interessi per il fatto che le Nazioni non vogliono normalmente scendere a compromessi su di essi e sono spesso preparate a ricorrere a conflitti per il loro sostegno.
Fin qui tutto è semplice e chiaro. Ma, nel perseguire gli interessi, bisogna tener presente un’insidia nascosta. Come infatti fu spiegato a suo tempo da uno studioso,
“gli interessi coinvolgono fattori intangibili, come pure quelli tangibili: prestigio, onore, orgoglio e persino atteggiamenti, (e) ciò che potrebbe essere vitale da difendere oggi potrebbe non essere vitale domani. (H. W. BALDWIN. Strategy for Tomorrow. Ed. Harper & Row, 1970, pag. 81)
Perseguire gli interessi intangibili è quindi oltremodo pericoloso: se non ci si riflette a fondo, si rischia di compiere azioni dirompenti, sulla spinta di “sentimenti forti” avvertiti dall’opinione pubblica in un determinato momento storico, per soddisfare un bisogno contingente, con il rischio di compromettere quegli interessi che sono invece più durevoli.
Basti pensare infatti a quello che fece l’Austria-Ungheria, dopo l’assassinio dell’erede al trono, distruggendo il precario equilibrio etnico e sociale sul quale si reggeva la Duplice Monarchia absburgica, per capire quanto insidioso sia un tale percorso. Oltretutto, sentimenti forti, da parte di una Nazione, ne suscitano altri, di intensità simile, in altri Paesi, e si innesca spesso una spirale che è difficile controllare e che non si sa dove porti la Nazione che l’ha avviata.
A questo proposito, uno studioso del passato, Mahan, osservava che, spesso, la difesa degli interessi intangibili è più complessa di quanto appaia a un primo sguardo. Una cosa è il sentimento della classe dirigente, che può essere fuorviante, visto che non sempre viene condiviso dall’opinione pubblica, mentre un’altra è quello del popolo. Solo in quest’ultimo caso, infatti:
“quando il movimento di una Nazione dipende da una profonda emozione che permea ogni individuo di essa, il potente impulso, a causa della sua stessa diffusione, non ha quei centri vitali di potere la cui distruzione paralizza l’insieme. Solo quando il periodo di passione – necessariamente breve, ma in quel periodo irresistibile – avrà ceduto il passo all’organizzazione, cui tende ogni movimento sociale, un popolo si troverà ad avere, come auspicavano i tiranni dell’antichità, un singolo collo da tagliare con un colpo. (A.T. MAHAN. The Influence of Sea Power upon the French Revolution and Empire. ED. Sampson Low, Marston, Searle & Rivington, 1892. Vol. II pag. 407).
In sintesi, Mahan avvertiva che il perseguimento di interessi intangibili è possibile solo quando tutto il popolo si schiera compatto dietro le azioni che un governo intraprende in tal senso, dando a quest’ultimo la forza sufficiente per perseguirli, inclusa la sopportazione delle più grandi difficoltà e il contrasto alle più tenaci opposizioni.
Nell’affrontare analiticamente il problema di quali siano gli interessi essenziali (o, nell’accezione inglese, vitali), alcuni studiosi, consapevoli del pericolo insito nel perseguimento di interessi intangibili, non solo hanno proposto di escludere questi ultimi dal novero degli interessi vitali, ma soprattutto di perseguire i soli interessi permanenti, essenzialmente quelli derivanti dalle limitazioni imposte a un Paese dalla geografia, citando un’espressione ottocentesca del Primo Ministro britannico dell’epoca, Lord Palmerston.
Anche quest’ultimo termine, però, è stato a sua volta contestato da alcuni storici nostrani, sostenitori dell’importanza degli interessi intangibili. Ad esempio, lo storico Federico Chabod affermò che gli interessi permanenti fossero:
“una sorta di divinità ascosa che dovrebbe stare al di sopra di tutto, quando (invece l’interesse) costituisce la vita concreta di un popolo, lotte politiche, ideali e ideologie, cozzar di passioni, per costituire il presupposto e lo scopo della politica estera. (F. CHABOD. Storia della Politica Estera italiana dal 1870 al 1896. Ed. Laterza, 1971. Vol. I pag. 11).
Nel prosieguo del suo argomentare, però, CHABOD attenuava in parte la sua critica, affermando che: “dal fatto, tanto ovvio anch’esso che è banale il ripeterlo e antico quanto il pensare umano, dell’importanza fondamentale che la posizione geografica di un Paese ha agli effetti dei suoi rapporti con l’estero, si è cercato di far nascere un nuovo determinismo su basi geografiche, un meccanismo fatalistico per cui la natura condizionerebbe la storia di un Paese.
Egli, quindi, accettava il fatto, anche per lui ovvio, che la sopravvivenza di un popolo dipenda, tra l’altro, da come esso sa interpretare i vincoli impostigli dalla natura, e quindi dalla geografia, costruendo una società in grado di creare benessere e prosperità, nonostante gli ostacoli derivanti dalla collocazione geografica.
La critica di Chabod contro le esagerazioni nell’attribuire ad essi un peso determinante, non inficia quindi il valore oggettiv o degli interessi permanenti nella ideazione di ogni “Grande Strategia” di un Paese.
Un passato remoto, ma non troppo
L’Italia, nella sua storia post-unitaria, ha spesso dovuto fare i conti proprio con questi due tipi di interesse, quelli intangibili e quelli geografici, uscendone non sempre bene, come vedremo.
Partiamo dall’attenzione alla geografia: malgrado le contestazioni di Chabod, essa è stata spesso un aspetto determinante nel condizionare la “Grande Strategia” dell’Italia, anche prima della sua nascita come Stato unitario. Non a caso uno studioso francese, Hervé Coutau-Bègarie, ricordava che il termine “Geostrategia” era stato inventato dal nostro generale Giacomo Durando, nel suo libro “Della nazionalità italiana” nel 1846, e commentò questo fatto, cui si univa l’introduzione, alcuni anni dopo, dell’analogo termine “Geo-politica” in Germania da parte di alcuni studiosi.
La spiegazione fornita non è certo banale: secondo lui, infatti, il motivo di tale attenzione, nei due Paesi, agli aspetti geografici di una strategia, era dovuto al fatto che “gli Italiani e i Tedeschi si sentivano sfavoriti dalla geografia che limitava le loro possibilità di espansione. (H. COUTAU-BÉGARIE. Traité de Stratégie. Ed. Economica, 1999, pagg. 731-732)
In effetti, già all’indomani dell’Unità d’Italia, i primi governi si accorsero che questa grande opera, per la quale enormi sacrifici erano stati compiuti, non aveva conseguito in pieno gli obiettivi degli unitaristi: come notava Gaetano Salvemini (nella foto sotto), il nostro Paese si ritrovava infatti in una posizione quanto meno incerta.
L’aspetto positivo, secondo Salvemini, era che il nostro Paese poteva godere, rispetto ad altre Nazioni europee, del “vantaggio della sua posizione geografica, (con) la pianura del Po a contatto con i Paesi dell’Europa centrale, (e) con l’isola di Sicilia (che) esercita una funzione militare e politica analoga, potendo intercettare i rifornimenti a tutte le potenze nemiche”. (G. SALVEMINI. La Politica estera dell’Italia dal 1871 al 1914. Ed. Barbera, 1944, pagg. 17-18).
Questi vantaggi, che consentivano una notevole rendita di posizione, a condizione beninteso che i nostri governi fossero in grado di sfruttarla, erano però controbilanciati, secondo lo studioso, da due gravi svantaggi: anzitutto, la nostra Nazione si ritrovava a tenere “un posto intermedio tra le grandi e le piccole potenze: era la più piccola tra le grandi e la più grande tra le piccole. Inoltre, essa non possedeva né ferro né carbone, cioè mancava delle più importanti materie prime”. Salvemini ometteva di citare la nostra dipendenza dall’estero anche sul piano alimentare, che sarà un problema non secondario, negli anni successivi, per effetto della nostra crescita demografica, ma per il resto aveva centrato in pieno il problema.
Infine, lo studioso ci metteva in guardia dal prestare poca attenzione a ciò che accadeva nel mondo, in quanto “questa (nostra) posizione chiave, se è spesso utile all’Italia, è anche, talvolta, incomoda e pericolosa, perché, in grazia (sic!) di questa posizione geografica, tutte le correnti della politica continentale e della politica mediterranea, prima o poi, per un motivo o per un altro, direttamente o indirettamente investono l’Italia”.
A queste limitazioni, che impedivano al nostro Paese di soddisfare appieno le proprie aspirazioni, si contrapponeva peraltro il fatto che queste ultime non erano certo modeste. I desideri di molti si concentravano anzitutto sulle “terre irredente”, il Trentino, Trieste, l’Istria, la Dalmazia, oltre che sul sogno di recuperare Nizza e la Savoia, cedute nel 1860, cui si aggiungevano l’aspirazione ad annettere la Tunisia nonché quella di esercitare un’influenza determinante sui Balcani.
A queste aspirazioni si aggiungeva l’irrealizzabile sogno mazziniano di “emulare i Romani, (che) combinato all’impossibilità di farlo, afflisse il Paese per i successivi sette decenni” (B.R. SULLIVAN. The strategy of the decisive weight: Italy, 1882-1922. In “The Making of Strategy”, a cura di W. MURRAY, M. KNOX e A. BERNSTEIN, Ed. Cambridge University Press, 1994, pag. 311.) e – bisogna ammetterlo – ancor oggi.
Va detto anche che la nostra ambizione smisurata, malgrado noi fossimo ben lontani dallo status di grande potenza, ci portò alla dolorosa sconfitta di Adua, nel 1896, in un’impresa osteggiata dalle Nazioni europee, che armarono l’Etiopia, accelerando la nostra sconfitta. Bisogna ammettere che occupare l’Etiopia, e poi controllarla, era anche allora un’impresa superiore alle nostre forze.
Davanti a questo enorme divario tra le aspirazioni e le effettive possibilità della nostra Nazione, il primo governo post-unitario accettò, con molto realismo, di rinunciare, sia pure temporaneamente, ai sogni di grandezza. Infatti, durante la tensione con la Francia, nel 1864, su chi dovesse avere un’influenza determinante sulla vicina Tunisia, dove viveva da secoli una numerosa colonia di Italiani, Napoleone III, stando a una fonte diplomatica, “avrebbe assicurato che non si sarebbe opposto a che Tunisi fosse divenuta possedimento italiano e che la Francia poteva vedere soltanto con fiducia una colonia italiana in Africa” (M. GABRIELE. Marina e Diplomazia a metà ottocento. Supplemento alla Rivista Marittima, Maggio 1966, pag. 61) , anche se l’Imperatore avrebbe desiderato che Biserta, un porto naturale posto in una posizione dominante nel Mediterraneo Centrale, passasse sotto il controllo francese.
Dato però che questa concessione era legata, secondo l’Imperatore, alla rinuncia italiana a conquistare Roma, e che Napoleone III voleva “addormentare la fastidiosa questione romana distogliendo altrove l’attenzione di Torino” il nostro governo rinunciò a tale possedimento in terra d’Africa, pur di avere le mani libere.
Comunque, pur di ottenere il ritiro delle truppe francesi che presidiavano Roma fin dal 1849, il nostro governo dovette firmare un accordo, la cosiddetta “Convenzione di Settembre” nel 1864, i cui articoli stabilivano che:
“ 1. l’Italia s’impegnava a non attaccare il territorio rimasto dopo il 1860 al Papa e a impedire anche con la forza ogni attacco esteriore contro tale territorio;
- la Francia doveva ritirare le sue truppe a mano a mano che fosse organizzato l’esercito papale, e s’impegnava a completare l’evacuazione entro due anni;
- il governo italiano consentiva all’organizzazione di un esercito papale, anche composto di stranieri, sufficiente a tutelare la tranquillità dello Stato del Papa;
- l’Italia era pronta ad addossarsi una parte proporzionale del debito dell’antico Stato papale. Alla convenzione era unito un protocollo segreto, costituente una ‘conditio sine qua non’ per il valore esecutorio della convenzione stessa: esso stabiliva per il governo italiano l’obbligo di trasportare entro sei mesi la capitale da Torino in altra città del regno”.
Come si vede, il nostro governo aveva finito per concedere una garanzia di sopravvivenza al potere temporale del Papa quasi senza contropartite, anche se, due anni dopo, la Francia avrebbe evitato di opporsi alla conquista di Venezia, sempre nella speranza che l’Italia rinunciasse a Roma capitale.
In forza di tale accordo, dunque, il nostro governo dovette spostare la capitale d’Italia da Torino a Firenze. La decisione causò gravi disordini nella capitale subalpina, senza che questi fatti fossero controbilanciati da un adeguato entusiasmo da parte dei Fiorentini. Un rapporto al Ministro degli Interni dell’epoca, citato da SPADOLINI, sottolineava come “alla notizia della traslocazione della capitale la popolazione in generale si sia poco commossa e quantunque prevenuta da speculatori di altri Paesi, non abbia fatto alcun atto che accenni a ravvivamento d’industrie o ad intraprese al di là della cerchia ordinaria”. (G. SPADOLINI. Firenze Capitale – Gli anni di Ricasoli. Ed. Le Monnier, 1979, pagg. 51-52.)
Pochi anni dopo vi furono prima l’intervento francese, dotato di armi modernissime per l’epoca contro la spedizione garibaldina su Roma del 1867, in violazione della Convenzione, (si ricordi il rapporto che il generale De Failly inviò all’Imperatore, nel quale si affermava che il nuovo fucile “chassepot avait fait des merveilles (P. PIERI. Storia Militare del Risorgimento. Ed. Einaudi, 1962, pag. 780). e quindi la presa di Roma nel settembre 1870, mentre la Francia era impegnata nella disastrosa guerra contro la Prussia.
Questa nostra iniziativa destò una forte ostilità in Francia, la cui opinione pubblica, dimentica del fatto che il governo di Parigi aveva per primo violato la Convenzione, si indignò per quella che riteneva una “pugnalata alla schiena”; la fine dell’idillio con la Francia, unito alla perdurante ostilità austro-ungarica, spinse i nostri governi a perseguire una diversa strategia, quella delle alleanze. In effetti, “dopo il 1870, Italiani colti si sentivano vulnerabili ad attacchi da parte della Francia o da parte dell’Austria-Ungheria”, il nostro “nemico naturale”. (P. PIERI. Storia Militare del Risorgimento. Ed. Einaudi, 1962, pag. 780.)
La priorità era quindi assicurare la sopravvivenza nazionale contro la minaccia delle potenze cattoliche, irritate per l’occupazione di Roma, un’azione che – va detto – oltre a porre fine al dominio temporale dei Papi, aveva permesso l’eliminazione della centrale direttrice del cosiddetto brigantaggio: da Palazzo Farnese, allora residenza dell’ex Re di Napoli, infatti, venivano inviate armi e ingenti somme di danaro, spesso fornite da Paesi terzi, per alimentare la guerriglia nel Sud.
Bisogna riconoscere che nella “Questione Romana” l’Italia aveva saputo tutelare i propri interessi permanenti, anche a costo di dolorose rinunce. Ma la nostra opinione pubblica non seppe accettare il fatto che ogni conquista ha un prezzo, e tale prezzo, in questo caso, si chiamava la rinuncia alla Tunisia.
Infatti, quando arrivò il “redde rationem”, e la Francia, dopo aver ottenuto il via libera da parte delle grandi potenze al Congresso di Berlino, impose alla Tunisia il proprio protettorato, un’ondata di sdegno attraversò l’Italia, causando la caduta del governo, allora presieduto da Benedetto Cairoli, la cui politica delle “mani nette” lo aveva fatto tornare dal Congresso di Berlino con un pugno di mosche.
La voglia di avere “la botte piena e la moglie ubriaca”, manifestatasi in quell’occasione, sarà purtroppo un atteggiamento della nostra opinione pubblica che riaffiorerà periodicamente nei decenni successivi.
La conseguenza della rinuncia alla Tunisia fu la rinascita di quel sentimento anti-francese, già diffuso tra i mazziniani, convinti che ciò fosse giustificato “non solo a cagion di Mentana, bensì per il complesso generale degli eventi, in cui la personalità morale e politica del giovane regno (d’Italia) appariva dominata, umiliata, oppressa da quella della più vecchia, grande, potente Francia”. (F. CHABOD. Op. cit. Vol. I pagg. 12—13)
Numerosi intellettuali, poi, spingevano da tempo per un più stretto legame tra l’Italia e la Germania, vista come il regno della modernità e del progresso.
Il risultato fu la nostra adesione alla Triplice Alleanza, nel 1882, in cui noi eravamo il partner più debole, tanto che dovemmo cedere più volte alle pressioni alleate, come ad esempio nell’assegnazione a un Ammiraglio austriaco, Haus, del comando supremo delle flotte alleate in caso di guerra, malgrado egli fosse a capo di una Marina ben inferiore alla nostra.
La memorialistica di quel periodo, poi, abbonda di resoconti su quante pressioni subimmo da parte degli alleati, a partire da quelle intese a non farci svolgere azioni in Albania, durante la guerra di Libia, fino ai progetti di attacco a sorpresa da parte dell’Austria-Ungheria nel 1904 e nel 1911.
Va detto che i nostri governanti non si erano lasciati trascinare del tutto in questa decisione foriera di ricorrenti difficoltà, dal sentimento popolare, che spingeva sia verso l’amicizia per la Germania, sia per una tutela dei nostri interessi intangibili di affermazione della nostra identità nazionale, specie contro la Francia. Infatti, all’atto della firma di questa alleanza, noi inserimmo una dichiarazione segreta, secondo la quale in nessun caso le clausole del trattato potevano essere considerate come dirette contro l’Inghilterra.
Il motivo era semplice: in caso di guerra contro la Gran Bretagna, il nostro Paese si sarebbe presto ritrovato ridotto alla fame, per il blocco commerciale che la Marina britannica, dalle sue basi di Gibilterra, di Malta e di Cipro, ci avrebbe imposto. Questa consapevolezza della nostra vulnerabilità geografica venne riecheggiata, molti anni dopo, da Antonio Salandra il quale ammise che, a incidere sulla decisione sulla nostra neutralità, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, aveva pesato il calcolo geopolitico.
Infatti, l’allora Presidente del Consiglio, nelle sue memorie, aveva scritto che “non erano venute meno nel 1914 le ovvie ragioni, per le quali a noi era impossibile partecipare a una guerra contro Francia e Inghilterra alleate; non l’estensione delle nostre coste indifese e delle nostre grandi città esposte; non il bisogno assoluto di rifornimenti per via di mare di cose essenziali all’economia nazionale e alla vita stessa: grano e carbone soprattutto”. (A. SALANDRA. La Neutralità Italiana. Ed. Mondadori, 1928, pagg. 92-93).
Come si vede, Salandra era ben consapevole delle limitazioni geografiche cui l’Italia era soggetta, e che non era in grado di aggirare, al di là della sua ben più nota dichiarazione, fatta alla Camera il 18 ottobre 1914, sulla “necessità del sacro egoismo per l’Italia”, (L. ALDROVANDI MARESCOTTI. Guerra Diplomatica. Ed. Mondadori, 1936, pag. 52) un accenno al fatto che il governo intendeva trattare con ambedue le coalizioni avversarie per ottenere il massimo possibile, qualora l’Italia dovesse abbandonare il proprio neutralismo.
Purtroppo, nel governo Salandra vi era chi intendeva tutelare gli “interessi nazionali” ben al di là di quanto fosse ragionevole. La morte del Ministro degli Esteri, Antonino Paternò Castello, Marchese di San Giuliano, un diplomatico esperto e realista, che sapeva fin dove spingere le pretese dell’Italia nelle trattative con l’Intesa, indusse Salandra a nominare a tale Dicastero Sidney Sonnino, un politico che aveva avuto un breve trascorso giovanile in diplomazia, per poi passare al giornalismo.
Questi, appena assunto l’incarico, inviò istruzioni al nostro Ambasciatore a Londra, Imperiali, contenenti una lista di richieste italiane in 16 punti, talmente lunga che l’Ambasciatore, nel riferire l’esito dei primi colloqui, scrisse che “potremmo incontrare qualche difficoltà, giustificata sia dalla teoria delle nazionalità, sia dalle accresciute presenti nostre domande, in paragone di quelle formulate nelle conversazioni anteriori”, cioè da quelle condotte sotto istruzioni del Ministro Paternò di San Giuliano. (L. ALDROVANDI MARESCOTTI. Op. cit. pag. 66)
Il risultato fu che i governi britannico e francese, pur di farci entrare in guerra al loro fianco, promisero di concederci tutto quanto richiesto da Sonnino, malgrado le fiere proteste russe, salvo poi a non confermarlo in sede di trattato di pace. In sintesi, la retorica della “vittoria mutilata” ebbe origine dall’inganno altrui, ma anche dalla nostra mancanza di senso della misura: non potevamo infatti illuderci che l’Intesa avrebbe penalizzato la Serbia a nostro vantaggio, come in pratica noi pretendevamo.
Bisogna però aggiungere che questa triste storia derivava anche da una cesura rispetto al passato. Infatti, l’Italia, nei decenni precedenti al conflitto, oltre a curare la ripresa delle buone relazioni con la Francia (i noti “giri di valzer” comprendenti l’accordo di neutralità del 1902, firmato dal Ministro Prinetti e dall’Ambasciatore francese Barriére) aveva adottato una strategia di graduale allontanamento dai suoi alleati, la Germania e l’Austria-Ungheria, senza tuttavia rompere con loro.
Ma anche questa nuova situazione non fu sfruttata in modo abile, fino in fondo. Infatti, l’Italia, nell’aderire strettamente alla lettera del trattato, ma stringendo accordi anche con le Nazioni dell’Intesa, anche a rischio di suscitare periodicamente le ire del Kaiser Guglielmo II nei nostri confronti, avrebbe potuto porsi come un ponte tra le due coalizioni, esercitando un ruolo mediatore, anziché limitarsi a dichiarare la propria neutralità.
Questo era l’intento di Gioilitti, ma la sua visione del ruolo italiano, quale ponte tra opposti schieramenti, non prevalse a fronte della decisa volontà di coloro, come Salandra, che volevano completare il processo di unificazione dell’Italia, anche al costo di perdite umane, che risultarono però ben maggiori (720.000 morti) rispetto a quanto ipotizzato.
I trattati di Versailles, del Trianon e di Sèvres ebbero quindi un esito deludente, e di questo, tra l’altro, fu fatto carico al Presidente Orlando e alla sua scarsa dimestichezza con le lingue straniere. Il Presidente del Consiglio, infatti, era un facile bersaglio, poiché l’errore era stato commesso ben prima!
Il periodo seguente, caratterizzato da disordini interni che condussero all’avvento del Fascismo, ci mostrò nella nostra totale debolezza, a causa della scarsa coesione nazionale, tanto che non raccogliemmo alcun frutto dagli eventi immediatamente successivi, malgrado avessimo continuato ad aiutare le potenze dell’Intesa a sostenere i Russi Bianchi, una causa persa, e a tentare di esercitare un controllo sull’Anatolia, insieme ai Greci. Fu un bene la nostra rapida rinuncia ai possedimenti che ci erano stati promessi dagli Alleati nel sud di quella penisola, quando l’esercito greco fu sconfitto dai nazionalisti turchi, guidati da Kemal Pascià.
Il Fascismo inaugurò un periodo nel quale la difesa degli interessi nazionali diventò prioritaria, avviando una “Grande Strategia” intesa a “rendere l’Italia il peso decisivo in Europa”. In una sua lettera ad Augusto Turati del 1930, Mussolini scriveva: “tra il 1936 e il 1940 la seconda guerra europea esploderà inevitabilmente. Sarà necessario essere forti e pronti per quel giorno. Per la sua posizione geografica e storica, se l’Italia saprà restare sola, (fuori della guerra, essa) sarà l’arbitro dell’immane conflitto. Quel giorno l’Italia sarà veramente grande” (B.R. SULLIVAN. Op. cit. pag. 349)
Come si vede, anche Mussolini vedeva il ruolo dell’Italia come quello di un ponte tra blocchi opposti, come approccio strategico capace di dare la grandezza al nostro Paese, anche se l’idea di agire da soli era una sopravvalutazione delle nostre possibilità.
I successi, almeno all’inizio, non mancarono: si deve infatti all’Italia la revisione del trattato di Sèvres, l’accettazione di riparazioni, da parte della Grecia, per l’assassinio dei membri della commissione Tellini, dopo la nostra temporanea occupazione di Corfù e, non ultima, la conferenza di Losanna in cui si diede un colpo di spugna alle inique e controproducenti sanzioni finanziarie contro la Germania.
Ma dietro le quinte l’Italia fascista pensava troppo in grande, a similitudine dei governi liberali che l’avevano preceduta. Lo testimoniano alcuni diplomatici britannici, i quali, dopo aver tenuto una serie di colloqui con i loro corrispondenti italiani, nel 1922, “consideravano che l’insieme delle nostre ambizioni fosse sorprendente, dato che l’Italia mancava delle risorse economiche e militari per tali conquiste”.
Infatti, già allora il Fascismo mirava alla conquista dell’Etiopia. Sorprende peraltro il fatto che, malgrado tali mire, con notevole incoerenza, il nostro governo non si oppose a che tale Paese fosse ammesso nella Società delle Nazioni, malgrado vi fosse praticata ancora la schiavitù: la nostra invasione, nel 1936, fu quindi considerata un atto riprovevole, essendo diretto contro un membro di tale Organizzazione, anziché un semplice atto di conquista coloniale, e fu la causa del nostro isolamento rispetto alle potenze occidentali.
Un’ altra decisione criticabile, che compromise i nostri rapporti con Parigi, fu quella di insistere per mantenere la parità navale con la Francia, ottenuta otto anni prima alla Conferenza di Washington sul disarmo, alla Conferenza di Londra del 1930.
A tal proposito, lo stesso Mussolini aveva inviato le sue istruzioni con un telegramma al Ministro degli Esteri GRANDI: “considero un delitto di lesa Patria e una catastrofe politico-morale per il Regime Fascista la rinuncia alla parità navale colla Francia. Rinunciarvi oggi equivarrebbe a diminuire irreparabilmente la statura dell’Italia nel mondo” (G. GIORGERINI. Da Matapan al Golfo Persico. Ed. Mondadori, 1989, pag. 252).
La Francia, infatti, voleva che il tonnellaggio della propria flotta fosse aumentato in termini assoluti, per tener conto del vasto dominio coloniale che possedeva.
Noi ci opponemmo, facendo fallire la conferenza, e la Francia, ancora una volta, se la legò al dito. Peccato che non raggiungemmo mai una dimensione della nostra flotta pari al tonnellaggio che i trattati ci concedevano e che noi pretendevamo in modo tanto perentorio!
Altrettanto accadde nei confronti della Turchia, dato che le nostre minacce nei confronti di quest’ultima, che aveva aderito alle sanzioni, consentirono a Kemal Pascià – nel frattempo diventato eroe nazionale, e fregiato del titolo di Ataturk (Padre dei Turchi) – di uscire dall’isolamento internazionale e di ottenere, nel 1936, la Convenzione di Montreux, che stabiliva un regime per gli Stretti Turchi ben più favorevole alla Turchia rispetto al precedente.
Questi insuccessi, insieme all’isolamento in cui ci trovavamo di nuovo, portarono il nostro Paese a rinunciare alla “Strategia del Peso Decisivo”, firmando invece il “Patto d’Acciaio” con la Germania di Hitler, e successivamente il “Patto Tripartito”, con l’inclusione del Giappone, patto noto dal suo acronimo ROBERTO (Roma, Berlino, Tokyo). Il nostro costoso intervento in Spagna, seguito dalla entrata in guerra nel giugno 1940, malgrado l’embargo carbonifero deciso dalla Gran Bretagna nei nostri confronti avesse messo definitivamente in ginocchio la nostra economia, già esausta per gli sforzi bellici in Etiopia e le conseguenti sanzioni, fu la conseguenza inevitabile di tale rinuncia.
Il passato recente
Nel dopoguerra, il governo italiano optò per quella che oggi è chiamata una “Strategia Partecipativa”, di adesione alle Nazioni occidentali e alla fedele partecipazione alle Organizzazioni che la esprimevano. Singolare è stata, in tutti quegli anni, la nostra aderenza senza alcuna obiezione a quanto veniva deciso dai Paesi più gradi del nostro.
L’unica eccezione si ebbe durante la crisi di Trieste con la Jugoslavia di Tito, nel 1952. Quando infatti la NATO preparò un documento, nel quale si asseriva che “la Jugoslavia, anche se non attaccata direttamente, avrebbe probabilmente partecipato alle ostilità contro il Blocco Sovietico” l’Italia si oppose. (NATO Military Committee Document MC 14/1 del 9 dicembre 1952, pag. 8)
Si trattava della prima presa di posizione dura mai avanzata da Roma alla pianificazione NATO, e gli Alleati cercarono quindi di tenerne conto, sia pure riducendone la rilevanza.
Infatti l’obiezione fu relegata in una nota a piè di pagina, in cui si diceva che “il Rappresentante Militare Italiano ritiene che, nell’evento di una guerra generale, sia probabile che la Jugoslavia, se non attaccata, tenti, almeno all’inizio, di rimanere neutrale”, un modo piuttosto curioso di risolvere la nostra situazione, visto che l’affermazione contenuta nel documento avrebbe potuto spingere gli Alleati a non sostenerci sulla spinosa e dolorosa questione del Territorio Libero di Trieste.
Bisognò attendere la fine della Guerra Fredda, per scoprire che la fine della minaccia sovietica avrebbe dato luogo, all’interno del mondo occidentale, a un’era di “amicizie limitate”, in cui non si escludevano colpi bassi tra amici e alleati. Questa nuova atmosfera fu purtroppo confermata da una serie di episodi, il più clamoroso dei quali ha riguardato l’implosione della Libia di Gheddafi nel 2011, durante la quale siamo stati “indotti” a concedere le basi per bombardare il territorio libico, malgrado noi fossimo legati alla ex “Quarta Sponda” da accordi commerciali che ci privilegiavano rispetto ad altri.
Questa concessione di basi aeree per colpire i nostri partner commerciali, a dire il vero, non era una novità: durante la crisi del Kosovo del 1999, un altro governo italiano, di diverso colore politico, aveva anch’esso fornito le basi aeree per bombardare la Serbia, con la quale avevamo stretto rapporti privilegiati.
La recente insistenza sulla necessità di difendere gli interessi nazionali può essere quindi vista come una reazione a tali avvenimenti, che ci hanno fornito più di un indizio della scarsa solidarietà, nei nostri confronti, da parte di amici e alleati.
L’aspetto da mettere in particolare rilievo, però, è che l’Italia aveva finalmente scoperto il ruolo che le conferiva maggior prestigio, rispetto alle sue limitate potenzialità economiche e militari, e precisamente quello di ponte tra mondi opposti, anche se questo atteggiamento poteva essere fonte di diffidenza e disistima dell’Occidente nei nostri confronti, pur bilanciate dalla nostra più che comprovata solidarietà atlantica ed europeista.
La nostra partecipazione all’Ostpolitik tedesca, con la fabbrica di auto installata nella città di Togliattigrad in Unione Sovietica, i nostri buoni uffici per stabilire un collegamento tra Washington e Hanoi, preludio al ritiro statunitense dal Vietnam, nonché la nostra apertura nei confronti della “Galassia Islamica”, che ha incluso concessioni generose, come quella in materia di delimitazione delle Zone Economiche Esclusive con la Tunisia, ci hanno meritato il posto che occupiamo nel G7, oltre a garantirci la benevolenza delle fazioni islamiche in lotta tra loro.
Anche in Europa abbiamo svolto un ruolo moderatore, almeno finché la nostra opinione pubblica non si è stancata delle continue piccole rinunce ai nostri interessi. Basterà citare la nostra pacatezza nel rinunciare a difendere fino in fondo i nostri interessi, pur di trovare compromessi accettabili, nelle discussioni che hanno portato alla definizione delle direttive comunitarie in materia di “quote latte”, in quella della smilitarizzazione delle Forze dell’Ordine e in quella relativa alla separazione delle carriere dei magistrati, a fronte dell’intransigenza di altri Paesi membri, promotori di tali iniziative che ci danneggiavano.
In sintesi, l’Italia ha svolto un ruolo moderatore in Europa, nel convincimento che la costruzione dell’Unione fosse il nostro bene più prezioso, e che per ottenerlo bisognasse accettare alcuni sacrifici, anche se questi hanno alienato parte della nostra opinione pubblica nei confronti dell’Europa.
Conclusioni
L’Italia, nella sua posizione di “potenza regionale di medio livello”, gravemente indebitata sul mercato internazionale, si troverà spesso, come nel passato, a subire pressioni da parte dei più potenti di noi, e dovrà sia cedere talvolta sui propri interessi, almeno in parte, pur di garantire quello che un tempo veniva chiamato “il Bene Superiore” sia, soprattutto, evitare di sostenere con troppa foga quelli che, secondo l’opinione pubblica, sono i nostri “Interessi intangibili”.
La nostra adesione al mondo occidentale, e le nostre necessità di sopravvivenza economica, quale Nazione trasformatrice di materie prime importate, nonché non autosufficiente sul piano alimentare, ci impongono una strategia di appeasement nei confronti dei molti Paesi più forti del nostro, al fine di prevenire e contenere i conflitti, dato che solo la pace e la stabilità garantiscono il nostro benessere economico.
Infatti, come nota un nostro valente studioso, il nostro sistema economico possiede caratteristiche specifiche, che dipendono da un andamento del commercio mondiale libero da opposizioni:
“I flussi di materie prime convogliati nel nostro Paese, nella massima parte per via marittima, vengono in parte consumati, ma in gran parte trasformati e successivamente riesportati. Nasce quindi un nuovo «sistema» economico, che ha portato l’Italia a essere una delle prime potenze economiche del mondo, il secondo apparato produttivo in Europa, in cui il mare, come abbiamo visto, acquisisce un ruolo centrale per l’economia e la sicurezza del nostro Paese. Il nostro sistema di import-export costituisce un formidabile «unicum» italiano, davvero ammirevole sul piano tecnico e finanziario, che ha dato al nostro paese la chance di esercitare un ruolo nel mondo, che la natura gli aveva negato” (P. CASARDI. Riflessioni sul concetto di interessi strategici nazionali. In “Geopolitica del Mare”. Ed. Mursia, 2018, pag. 29.).
Non siamo i soli a dover garantire, anzitutto, la nostra sopravvivenza economica in questo modo: il Giappone ha avuto il coraggio di affermarlo, nel documento “Strategia Nazionale di Sicurezza” del 2013, che inizia con parole non equivoche: “mantenere la pace e la sicurezza del Giappone e assicurare la sua sopravvivenza sono le responsabilità primarie del governo giapponese” (JAPAN’s NATIONAL SECURITY STRATEGY, 17 December 2013, pag. 1).
Anche per l’Italia, la prima preoccupazione – e il nostro interesse primario – deve essere questa, e va riconosciuto apertamente. Un tale approccio, però, deve portare, più che a una lunga lista di interessi, non sempre perseguibili, alla definizione di alcune “Linee del Piave”, comprensibili e condivise dalla nostra opinione pubblica, che il nostro Paese deve difendere a oltranza, cedendo invece sulle questioni non propriamente esistenziali. Queste “Linee del Piave”, però, non possono includere sempre la difesa dei nostri interessi intangibili, altrimenti rischiamo di compromettere, come avvenuto in passato, il precario equilibrio del mondo che ci circonda e di isolarci, indebolendoci sempre più.
Il prestigio e l’importanza del nostro Paese sono invece dipendenti dalla nostra capacità di “essere un ponte” tra opposti schieramenti, in un mondo sempre più turbolento e conflittuale. Lo aveva capito persino MUSSOLINI, anche se poi non mise in pratica i suoi intendimenti fino in fondo, e lo ha capito la nostra diplomazia, un attore-chiave che, insieme alle Forze Armate con le loro missioni di pace, ha più di altri contribuito al prestigio di cui gode il nostro Paese.
Non si deve dimenticare però che, per poter mantenere il rispetto altrui e influire sugli eventi, è necessario migliorare la nostra situazione economica, abbattendo il nostro debito pubblico. Questa non è una novità: ben 2.400 anni or sono, uno studioso cinese, SUN BIN, scriveva:
“Il re Wei chiese a Sun Bin: “i letterati dello Stato di Qi che mi insegnano la maniera di rinforzare l’esercito, possiedono ognuno un modo diverso. Alcuni mi parlano di rettitudine, altri di distribuzione e di approvvigionamento. Alcuni mi consigliano di tenere l’animo tranquillo. Quale insegnamento devo mettere in pratica?”
Sun Bin rispose: “tutto ciò non è (la cosa) più importante. Per ottenere un esercito potente, arricchite il Paese” (SUN BIN. Le Traité Militaire, Economica, 1996, pag. 57)
Il primo fattore di potenza è la buona salute della nostra economia. Ci siamo indebitati per garantire, bene o male, un livello di benessere adeguato alla nostra popolazione, e ora è giunto il momento di consolidare questa conquista riducendo il nostro debito pubblico, in modo da contenere i pesanti condizionamenti che subiamo, nella nostra azione esterna. Solo in tal modo potremo esercitare appieno il ruolo benefico da noi svolto nelle crisi internazionali degli ultimi decenni, e acquisire in modo definitivo il prestigio cui aspiriamo.
Foto: Ansa, Archivio Rossi-Salvemini, Difesa&Sicurezza e Istituto Luce.
Ferdinando Sanfelice di MonteforteVedi tutti gli articoli
Ammiraglio di Squadra, è attualmente docente di Storia delle Istituzioni Militari presso l'Università Cattolica di Milano e di Strategia presso l'Università di Trieste – Polo di Gorizia. E' stato Rappresentante Militare per l'Italia presso i Comitati Militari NATO e UE e Comandante dell'operazione navale della NATO Active Endeavour. Autore di numerosi libri e saggi di argomento strategico e militare, pubblicati su riviste italiane, francesi e americane, è membro del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Storia Militare, dell'Académie de Marine di Francia e della Giuria del Prix Davéluy.