Un alpino muore a Farah nel settore più caldo
di Gianandrea Gaiani
Il caporale Tiziano Chierotti è il cinquantaduesimo caduto italiano nel conflitto afghano, colpito questa mattina insieme ad altri tre commilitoni del 2° reggimento alpini della brigata Taurinense in un attacco talebano nel villaggio di Siav, nella provincia di Farah. Pur apparendo subito più gravi di quelle degli altri tre militari italiani, le condizioni di Chierotti, ferito all’addome, sembravano escludere il rischio di perdere la vita. Nato il 7 ottobre 1988 a San Remo, in provincia di Imperia, il Caporale Chierotti era effettivo dal 2008 al 2° reggimento alpini di Cuneo. Lo scontro è avvenuto a 20 chilometri a ovest di Bakwa sede della base di “Camp Lavaredo” che ospita quanto resta della Task Force south east, il reparto italiano schierato nei distretti orientali di Farah dimezzatosi dopo il ritiro, nell’agosto scorso, dalla valle del Gulistan dove la base “Ice” è stata ceduta a un piccolo battaglione afghano di 250 uomini affiancato da un pugno di consiglieri militari italiani. Un plotone di alpini in pattuglia insieme a un reparto dell’esercito afghano sono stati attaccati con mitragliatrici e lanciarazzi, a quanto sembra all’interno del villaggio: una tattica utilizzata spesso nelle imboscate talebane per inibire, con la presenza di civili, la maggiore potenza di fuoco delle truppe alleate. Il comando italiano di Herat non ha comunicato se gli aggressori siano stati eliminati o messi in fuga ma ha reso noto che i militari hanno messo in sicurezza il villaggio evacuando i ferriti con gli elicotteri all’ospedale di Farah City. In quel settore le evacuazioni sanitarie sono effettuate da due elicotteri statunitensi Black Hawk, uno dei quali ha poi probabilmente trasportato Chierotti nell’ospedale britannico di Camp Bastion ( a Helmand) più attrezzato di quello di Farah. Una corsa contro il tempo che non ha permesso di salvare la vita al caporale alpino. Non sembrano invece destare preoccupazioni le condizioni degli altri tre feriti, colpiti alle gambe.
Lo scontro di Siav conferma come i distretti orientali della provincia di Farah (Bakwa e Gulistan) restino i più caldi dell’intero Ovest afghano e non a caso da queste parti sono stati uccisi in due anni dieci dei 52 militari italiani deceduti in Afghanistan dal 2002 a oggi, inclusi i morti per incidenti e malori. Paradossale che proprio questi distretti rientrino (insieme al settore di Bala Murghab, a nord) tra quelli dai quali gli italiani stanno ritirandosi o si sono già ritirati. Il Gulistan è stato evacuato in agosto ma la guarnigione afghana lasciata laggiù, in un’area sotto il controllo di talebani e milizie narcos (la valle è ricoperta di coltivazioni di oppio), viene avvicendata e rifornita dagli elicotteri alleati. Il 16 ottobre si è conclusa infatti l’operazione Grasshoppers, che ha visto il trasporto di un intero battaglione del 207° Corpo afghano da Farah alla base “Ice” impiegando ben quindici elicotteri inclusi sei da combattimento apache e Mangusta altrettanti CH-47 cargo messi in campo da italiani, spagnoli e statunitensi. Limitata a soli 2 Mi-17 la presenza afghana il cui esercito nell’Ovest dispone di soli 5 elicotteri nella base di Shindand. L’avvicendamento e il rifornimento delle unità afghane in Gulistan deve essere effettuato per via aerea poiché la strada che congiunge la valle a Bakwa è troppo insidiosa per essere attraversata dai convogli, infestata da ordigni improvvisati talebani e a rischio continuo di imboscate ma è evidente che la riduzione e poi il ritiro delle forze alleate determinerà una cronica carenza di elicotteri che impedirà di rifornire l’avamposto. Del resto gli italiani stanno per abbandonare anche Bakwa da dove il ritiro era previsto nel marzo 2013 ma secondo molte indiscrezioni potrebbe venire anticipato a dicembre anche per ridurre i costi della missione afghana. Un ritiro che lascerà ai talebani maggiori margini di manovra per prendere il controllo delle strade locali difficilmente presidiabili da truppe afghane prive di mezzi protetti e antimina. Dall’anno nuovo le truppe italiane resteranno presenti a Farah City, Bala Buluk e Shindand, di fatto a protezione del tratto di “Ring Road” (la principale arteria stradale afghana) verso Herat che consente i movimenti logistici necessari a far ripiegare progressivamente tutte le truppe verso Camp Arena, la base all’aeroporto di Herat che ospita anche il comando Nato a guida italiana. Nonostante le fonti ufficiali si sforzino di fornire un quadro rassicurante la sicurezza resta precaria in tutto l’Ovest e persino nella provincia di Herat dove le autorità afghane hanno da tempo la responsabilità delle operazioni militari e di polizia e dove martedì i talebani hanno sgominato in un’imboscata un reparto governativo uccidendo una dozzina di poliziotti e catturandone altri dieci.
Il ritiro delle truppe Nato, scese da 130 mila a 90 mila effettivi negli ultimi mesi, favorisce nuove offensive talebane mentre i soldati alleati devono sempre più spesso guardarsi le spalle dagli attacchi degli infiltrati tra le forze governative. I cosiddetti “insider attacks” che dall’inizio dell’anno hanno ucciso una sessantina di soldati alleati e almeno altrettanti afghani. Gli ultimi caduti sono due britannici e due statunitensi uccisi ieri da uomini con l’uniforme della polizia. Il Mullah Omar, in un messaggio scritto diffuso mercoledì, aveva annunciato una recrudescenza degli “insider attacks” definiti “la strategia più efficace per condurre un attacco jihadista all’interno delle forze degli invasori e tra i mercenari afghani a penetrare nelle loro roccaforti e colpirli”. Infiltrati a parte, l’esercito afghano non brilla certo per efficienza. Un rapporto rivelato dal New York Times evidenzia la corruzione degli ufficiali, un tasso di diserzione del 10 per cento mentre il 25 per cento dei militari lascia l’esercito dopo i primi tre anni di servizio. Un terzo dei militari addestrati se ne va ogni anno e viene rimpiazzato da reclute inesperte. Alcuni si riciclano nelle compagnie di vigilanza privata ma il timore è che molti vadano a rimpolpare le milizie talebane grazie all’addestramento ricevuto dai consiglieri militari occidentali e pagato dai contribuenti europei e americani. Nonostante i problemi irrisolti che il ritiro alleato lascerà all’esercito di Kabul anche il presidente afghano Hamid Karzai preme per accelerare la partenza della Nato che , secondo lui, ”porterà stabilità all’Afghanistan”. Karzai si è poi detto certo che il Paese “sta avviandosi verso una fase di sviluppo” che sembra vedere però solo lui mentre think-tank e analisti internazionali prevedono invece il rapido collasso dell’Afghanistan.
Mentre i militari muoiono, i senatori italiani “disertano”. La morte del caporale Tiziano Chierotti e il ferimento di altri tre alpini ha coinciso con l’ennesima, umiliante, brutta figura della politica nei confronti dei militari e della dignità nazionale. Certo non sono mancate le solite, numerose dichiarazioni di solidarietà, cordoglio e vicinanza dal mondo politico e istituzionale ma mentre Chierotti veniva colpito dal fuoco talebano in Senato è mancato il numero legale necessario a ratificare l’accordo tra Roma e Kabul che stabilisce il supporto militare italiano alle forze afghane dopo il 2014. L’Aula è praticamente vuota, i senatori se ne sono andati. Il sottosegretario agli Esteri Staffan De Mistura non ha nascosto sconcerto e amarezza. ”Sono fortemente dispiaciuto e sorpreso e credo di rappresentare lo spirito di tutti gli italiani nel vedere che un giovedì pomeriggio alle 13.45, manchi in Senato il numero legale per poter andare avanti su un’importante ratifica internazionale”. Una sottolineatura ”tanto più significativa nel giorno in cui quattro militari italiani sono rimasti feriti in Afghanistan” ha aggiunto De Mistura poche ore prima che venisse resa nota la morte del caporale Chierotti.
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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane" e “Immigrazione, la grande farsa umanitaria”. Dall’agosto 2018 al settembre 2019 ha ricoperto l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza del ministro dell’Interno.