Coronavirus: natura, incidente o arma?
“Anche quando sono molto inefficaci, con pochi morti, come nel caso delle lettere all’antrace negli USA, le armi biologiche sono considerabili come armi di ‘rottura’ di massa poichè possono gettare un’intera nazione nel caos. Le armi biologiche influenzeranno molti aspetti della nostra vita di routine, mandandoli fuori schema. Porteranno il terrorismo sulla soglia di casa di ognuno di noi”. Così scriveva nel 2004 l’ufficiale indiano Sharad S. Chauhan nell’introduzione del suo libro “Biological Weapons”, tracciando un affresco che parrebbe realizzarsi oggi, sebbene il virus SARS-CoV-2, meglio noto al pubblico col nome della malattia, Covid-19, venga considerato dai più di origine naturale. E vogliamo comunque pensare che lo sia, anche perchè, storicamente, dalla Cina e in genere dall’Asia, si sono sempre diffuse pandemie che hanno raggiunto l’Europa per via di terra o di mare. E’ chiaro però che in sede di riflessioni geopolitiche non ci si può esimere perlomeno dal rilevare alcuni fatti quantomeno curiosi, lasciando il beneficio del dubbio. E del mistero.
Non è facile tracciare una, peraltro parziale, interpretazione dell’attuale pandemia di virus Covid-19 dal punto di vista dei suoi possibili aspetti strategici e militari. Le informazioni liberamente disponibili possono spesso essere intossicate dalle cosiddette “fake news”, o come preferiremmo dire noi “fandonie”, e da ipotesi complottistiche di ogni tipo.
Per ora l’unica certezza assodata è che lo sconvolgimento causato sugli assetti economici mondiali rischia di essere molto duraturo, e forse di mettere pesantemente in discussione il processo di globalizzazione degli ultimi trent’anni, che ha avuto uno dei suoi epicentri proprio nel delegare alla Cina la funzione di “manifattura universale”, attirandovi per decenni investimenti stranieri e delocalizzazioni produttive di ogni risma.
L’emergenza è reale, forse più ancora nelle sue ricadute psicologiche in economia, che nella pur drammatica mortalità, la quale, per fortuna, non è per il momento paragonabile a quella delle grandi pandemie dei secoli passati.
La Peste Nera del XIV secolo uccise nella sola Europa un terzo degli abitanti in appena tre anni, dal 1347 al 1350, mietendo secondo le stime degli storici 25 milioni di morti su un totale di circa 75 milioni di persone che allora vivevano nel nostro continente.
Bilancio terribile fu anche quello, in tempi più recenti, della celebre influenza Spagnola, quella che furoreggiò dal 1918 al 1920, segnando gli ultimi mesi della Prima Guerra Mondiale e i primi mesi del caotico dopoguerra, e che prese il nome non dalla sua origine, in realtà localizzata negli Stati Uniti, ma dal semplice fatto che a darne notizia per prima fu la stampa della Spagna neutrale, non soggetta a censura bellica.
Nel caso della spagnola, che essendo dovuta a un virus influenzale è simile nelle modalità di trasmissione all’odierna epidemia, i morti furono almeno 50 milioni in tutto il mondo, di cui 600.000 in Italia (pari suppergiù al numero dei militari caduti al fronte!), anche se c’è chi propende per i 100 milioni.
Al momento attuale il Covid-19 sembra avere un decorso tragico in una parte minoritaria, seppur cospicua, dei contagiati e le problematiche più critiche nello specifico dell’Italia sono il congestionamento e il rischio di collasso del sistema sanitario nazionale per carenza di posti letto di terapia intensiva, complici gli scriteriati tagli finanziari alla sanità pubblica susseguitisi negli ultimi anni. La guardia non va però abbassata nemmeno sotto l’aspetto della pura mortalità, perchè il virus, nelle sue infinite replicazioni, potrebbe mutare in forme ancor più aggressive, sebbene gli scenari peggiori restino per il momento un’ipotesi degli specialisti in biochimica.
La Cina indebolita
Dal canto nostro possiamo rilevare che l’emergenza si annuncia prolungata nel tempo, avendo anche gli altri Stati dell’Unione Europea varato misure di blocco della vita socio-economica paragonabili a quelle italiane e, prima ancora, cinesi. Poichè la Cina è stato il paese dove prima di ogni altro il virus si è manifestato, e dove l’arginamento registratosi attorno al 15 marzo del 2020 sembra avere avuto un relativo successo, i dati divulgati il 16 marzo dalle autorità di Pechino circa le conseguenze dell’epidemia nei primi due mesi dell’anno possono già dare una vaga idea dello sconquasso.
A parte i lutti, che comunque non hanno prezzo dati gli aspetti spirituali ed emozionali irriducibili alle catene del livello economico, la Cina, come “sistema”, ha subìto un crollo del 13,5 % della produzione industriale e un calo del 20,5 % della domanda interna, cioè i consumi dei cinesi, mentre gli investimenti sono affondati del 24 %.
Nelle stesse ore la Banca Centrale Cinese ha stabilito un intervento di sostegno da 100 miliardi di yuan, oltre 14 miliardi di dollari, per le banche commerciali del paese in modo da assicurare crediti alle aziende in crisi.
E’ presto per dire che la “locomotiva” del mondo sia deragliata, ma non c’è dubbio che l’epidemia sia calata come una mannaia su una Cina che già aveva chiuso il 2019 all’insegna di svariate preoccupazioni strutturali.
Il 17 gennaio 2020, quando ancora l’epidemia era agli inizi, il responsabile dell’Ufficio Nazionale di Statistica di Pechino, Ning Jizhe, divulgava i dati aggiornati a fine 2019 che davano la popolazione del paese a 1,435 miliardi di persone, lamentando tuttavia il continuo calo delle nascite, indizio di un invecchiamento del paese. Rispetto alla gran massa cinese, nel 2019 sono nati “solo” 14,65 milioni di bambini, pari a un tasso di natalità di 10,48 ogni mille persone.
E’ il terzo anno consecutivo di calo delle nascite, dopo che nel 2017 queste erano calate a 17,23 milioni (tasso del 12,43) rispetto alle 17,86 milioni (tasso 12,95) del 2016. Nel 2018 erano poi scese a 15,23 milioni (tasso 10,94), per poi, appunto calare ancora di 580.000 “culle vuote”. Da quando Mao Zedong fondò la Repubblica Popolare nel 1949, non sono mai nati così “pochi” bambini in Cina come nel 2019, e alla luce degli sconvolgimenti che il Covid-19 si lascerà dietro è presumibile che anche nel 2020 e forse negli anni successivi potrebbe consolidarsi un’ulteriore diminuzione di natalità.
E’ chiaro che gli effetti pratici in fatto di calo della manodopera si avranno fra una ventina d’anni, quando i nuovi nati entreranno nell’età adulta, ma la prospettiva di un invecchiamento della società cinese analogo, fatte le debite proporzioni, a quello dei paesi occidentali spaventa già adesso una classe dirigente, quella di Pechino, che già di per sè tende a fare programmi a lunga scadenza.
L’Ufficio Nazionale di Statistica ha anche lanciato l’allarme sul fatto che il rallentamento demografico si sta abbinando a un rallentamento della crescita del Prodotto Interno Lordo. Il 2019 è stato per la Cina non solo l’anno col più basso tasso di natalità degli ultimi 70 anni, ma anche quello con la crescita del PIL più bassa, il 6,1 % contro il 6,6 % del 2018. Il PIL cinese cresce sempre meno per vari fattori, registrati dagli economisti, come il calo dei consumi interni, indice di una minor fiducia nel futuro, e una stagnazione delle esportazioni, che nel 2019 sono aumentate solo dello 0,5 %, come riflesso del braccio di ferro con l’America sui dazi.
Come se non bastasse, incombe il crescente indebitamento della Cina a tutti i livelli, privato e pubblico, arrivato al 155 % del PIL. Le insolvenze dei debiti societari sono arrivate a 130 miliardi di yuan (18,7 miliardi di dollari) nel 2019, rispetto ai 121,9 miliardi di yuan del 2018, quando c’era stato un balzo rispetto ai soli 26,6 miliardi di yuan del 2017.
E’ quindi su una nazione già in affanno che si è abbattuta la “piaga biblica” del Covid-19, questo microscopico essere che minaccia di affossare quello che avrebbe dovuto essere “il secolo cinese”. Al diretto impatto del virus sul tessuto industriale e commerciale cinese, a causa del blocco totale di gigantesche aree come quella dell’Hubei, ma anche altri distretti nevralgici, vanno aggiunte infatti le conseguenze che potrebbe portare sul commercio internazionale.
Cina a parte, se l’emergenza nel resto del mondo dovesse durare troppo tempo, potrebbero levarsi dubbi crescenti sull’opportunità di proseguire con una globalizzazione spinta.
Già di per sè le epidemie pongono ostacoli alla libera circolazione internazionale delle persone, ma in senso indiretto possono coinvolgere anche le merci e la divisione internazionale del lavoro. Prendiamo ad esempio il problema delle mascherine sanitarie di cui si è registrata carenza in Italia, poichè venivano tutte importate dall’estero, tanto che si è iniziato a invocarne una produzione nazionale, leggi “autarchica”.
Discorso simile lo si potrebbe fare per l’arresto della filiera industriale, specie automobilistica, in molti paesi europei per l’interruzione dell’arrivo di parti meccaniche dall’Asia.
E’ plausibile che, per estensione, e per proteggere i posti di lavoro minacciati dalla nuova crisi, col tempo le nazioni occidentali possano ripensare la delocalizzazione, anche con decisi diktat degli Stati, preferendo aumentare la quota di prodotti fabbricati, o almeno “trasformati”, all’interno dei propri confini, a discapito dei prodotti finiti importati dall’estero, e nello specifico dalla Cina (ma lo stesso discorso, almeno in linea di principio, potrebbe valere anche per il “made in Turkey, Bangladesh, India”, eccetera). La tendenza a ritornare, almeno parzialmente, a fabbricarci in patria molti prodotti finiti, a bassa, ma forse anche ad alta tecnologia, finora demandati al “made in China” potrebbe essere devastante per il Dragone, che proprio sulle esportazioni di massa ha fondato la sua uscita dalla povertà, a partire dai timidi esperimenti avviati da Deng Xiao Ping nel 1979 con le prime Zone Economiche Speciali.
In ogni senso, quindi, la Cina potrebbe essere la nazione che più di tutte paga “dazio”, è il caso di dirlo, al virus, nel senso che gran parte dei danni subiti dalle economie occidentali potrebbero, almeno teoricamente, essere ancora “scaricati” sulla stessa Cina invertendo, a poco a poco, la tendenza a far costruire ai cinesi un mucchio di merci, dai cacciavite ai cellulari, che qualsiasi paese occidentale è in grado di produrre sul suo territorio.
In effetti, il gioco dei cambi valutari fra le varie monete che finora ha reso redditizia la delocalizzazione potrebbe entrare in crisi risentendo delle perturbazioni a cascata a cui abbiamo assistito nelle ultime settimane, sempre a causa dell’epidemia.
Il concomitante scenario saudita
Le perdite delle maggiori borse, sia in Europa, sia negli Stati Uniti, e il bisogno di liquidità hanno già spinto il 15 marzo la Federal Reserve a ridurre i tassi d’interesse del dollaro fra 0 e 0,25 %, quasi nulla, e a impegnarsi a comprare ben 700 miliardi di dollari in titoli.
Ma poche ore dopo, il 16 marzo, le borse mondiali seguitavano nonostante ciò a perdere terreno, spingendo il Fondo Monetario Internazionale a impegnarsi per 1.000 miliardi di dollari. Una tempesta del genere è aggravata dalla sovrapproduzione di petrolio che a causa della guerra al ribasso fra Russia e Arabia Saudita, non esclusi gli USA che sgomitano con il loro “shale oil”, ha fatto segnare il 16 marzo un record di soli 29 dollari al barile, dopo una continua discesa. Il brusco calo della domanda di greggio a causa dell’arresto dell’economia e dei trasporti, specie quelli aerei, in tutto il mondo rischia di far collassare il mercato dell’oro nero ponendo in difficoltà soprattutto l’Arabia Saudita, che per pareggiare il suo deficit di bilancio ha bisogno di un prezzo di ben 80 dollari al barile, mentre la Russia inizia a “perderci” solo da quando il prezzo scende sotto i 40 dollari.
E ciò senza contare il fatto che l’economia dell’Arabia Saudita è assai poco diversificata, mentre la sua stabilità politica è un’incognita se si considerano i nuovi arresti ordinati dall’uomo forte del paese, il principe ereditario Mohammed Bin Salman, vicepremier e ministro della Difesa. Il 7 marzo 2020 Bin Salman ha fatto arrestare con l’accusa di preparare un colpo di stato tre suoi parenti della famiglia reale, cioè suo fratello principe Ahmed, l’ex-principe ereditario Mohammed Bin Nayaf, che era designato alla successione dell’anziano re Salman fra il 2015 e il 2017, quando fu “scavalcato” dall’ambizioso Bin Salman, e il di lui fratello Nawaf Bin Nayef.
Non pago, il 16 marzo il principe ereditario ha anche sbattuto in gattabuia, tramite la Nazaha, la Commissione anticorruzione nazionale saudita, ben 298 funzionari governativi, militari, giudici, insomma la “crema” dell’apparato statale saudita, accusati di “corruzione, abuso di ufficio e dell’appropriazione indebita”.
Una simile purga, che ricorda quella attuata da Bin Salman nell’autunno 2017, conferma che a Riad il clima è torbido e che la posizione dell’ambizioso principe è insicura. I contraccolpi economici causati dal virus stanno mandando in rosso i bilanci sauditi mettendo a rischio i sogni di riforma e modernizzazione del paese che Bin Salman pronosticava entro il 2030.
Mentre l’85enne re Salman, suo padre, si avvia al tramonto, il principe e i suoi avversari sono impegnati in una lotta senza esclusione di colpi che potrebbe portare il paese petrolifero a una difficilissima situazione, già aggravata dal crollo dei prezzi del barile.
E’ chiaro che se l’Arabia Saudita, già impegolata nella lunga guerra in Yemen, “saltasse”, in termini di rivolte, golpe, tentati golpe o guerra civile, ci sarebbero fortissimi contraccolpi sul valore del dollaro, la cui forza come massima moneta internazionale è dovuta in gran parte allo status di petroldollaro basato sull’asse fra Washington e Riad. In caso contrario infatti la Federal Reserve non potrebbe stampare montagne di biglietti verdi senza il rischio che il loro valore cali troppo bruscamente. Ecco quindi che, mettendo da parte lo specifico teatro del Medio Oriente, che in questa sede non ci interessa approfondire, per vie indirette, il virus può danneggiare la Cina anche mettendo potenzialmente in discussione (almeno in parte) gli assetti valutari e quelle differenze di valore monetario che avevano fin qui avvantaggiato gli investimenti produttivi nel colosso asiatico.
Attacco biologico?
Fin dal suo erompere alla fine del 2019 nella città cinese di Wuhan e nella relativa provincia dell’Hubei, l’epidemia di Covid-19 ha portato al proliferare di voci non confermabili che, da un lato parlavano di una “fuga”, per errore umano, del virus dal laboratorio virologico della città-epicentro, noto come Istituto di Virologia di Wuahn dell’Accademia delle Scienze Cinese, in cinese Zhōngguó Kēxuéyuàn Wǔhàn Bìngdú Yánjiūsuǒ, che da anni è fra i principali centri di ricerca della Cina, dall’altro insinuavano che alla base dell’evento ci fosse stato un vero e proprio attacco di guerra biologica ai danni della Cina, poi sfuggito di mano e dilagato in tutto il mondo.
Voci che non meriterebbero più di tanto credito, se non fosse che il 12 marzo 2020 perfino un pezzo grosso del Ministero degli Esteri di Pechino ha accusato apertamente gli americani di essere all’origine dell’epidemia. Zhao Lijian, portavoce del ministero e vicecapo del dipartimento informativo del medesimo, ha dichiarato pubblicamente su Twitter che “il virus potrebbe essere stato portato a Wuhan da un soldato americano durante i Giochi Militari”. E a ribadire un’origine statunitense del virus, postava un intervento video dello scienziato americano Robert Redfield, in cui egli sosteneva che alcune morti di polmonite verificatesi in America nelle settimane precedenti erano state a posteriori confermate esser dovute al Covid-19.
Zhao si riferiva a un preciso evento sportivo internazionale tenutosi proprio nella città-epicentro del morbo lo scorso autunno, ovvero la settima edizione dei Military World Games, che fra l’altro era ospitata per la prima volta dalla Cina.
I giochi si sono svolti dal 18 al 27 ottobre 2019 e hanno visto arrivare a Wuhan ben 9300 atleti militari da 140 nazioni diverse. Per inciso, anche le Forze Armate italiane vi hanno partecipato, con una squadra di 165 elementi, fra atleti e staff, che hanno totalizzato buoni risultati, con un bottino di 28 medaglie, fra cui 4 ori, 12 argenti e 12 bronzi.
All’edizione di Wuahn è stato dato particolare significato in quanto doveva contribuire ad abbattere la diffidenza militare fra la Cina e i paesi del campo egemonico americano, perciò verso la fine dei giochi il presidente del Consiglio Internazionale dello Sport Militare (CISM), il colonnello francese Hervé Piccirillo, fra l’altro arbitro di calcio, dichiarava il 25 ottobre: “Questi sono giochi che segneranno la storia delle competizioni militari e svilupperanno nuove pratiche in futuro”.
Piccirillo rilevava che, oltre a essere la prima edizione ospitata in Cina, quella di Wuhan è stata la prima olimpiade militare in grande stile in cui i cinesi hanno investito in notevoli infrastrutture: “E’ il messaggio che viene portato da un intero popolo, perché al di là dei giochi, sono tutti i cinesi a diffondere questo messaggio di solidarietà e di pace, che corrisponde all’amicizia attraverso lo sport”. La squadra degli atleti militari americani, composta da 300 elementi, è arrivata all’aeroporto Tianhe di Wuhan nell’arco di due giorni, fra il 15 e il 17 ottobre, andando ad alloggiare nell’attrezzato villaggio olimpico.
La presenza per diversi giorni di qualche centinaio di militari americani, ancorchè in veste sportiva, in una città ospitante non solo i Giochi Militari, ma anche uno dei maggiori laboratori di virologia della Cina e del mondo, è sicuramente degna di nota, anche solo come curiosa coincidenza, se non di più, considerando poi l’apparire dell’epidemia.
E se l’evento sportivo può aver offerto una copertura perfetta a qualche operazione occulta, a voler dar retta alle accuse di Zhao Lijian, anche la concomitanza della presenza nella città dell’importante laboratorio rappresenta un ideale “alibi” consentendo di incolpare facilmente gli stessi scienziati cinesi per una (vera o presunta) negligenza.
Un regime come quello cinese difficilmente lascerebbe spazio a un alto funzionario di esprimere accuse od opinioni a livello personale e pertanto è probabile che quello del portavoce Zhao non fosse un semplice sfogo, ma una precisa accusa agli Stati Uniti che il governo di Pechino ha voluto affidare a un sottoposto del ministro degli Esteri Wang Yi, per non esporre direttamente il ministro e lanciare a Washington un monito più sommesso: “Noi sappiamo”.
Le accuse circa un militare americano “untore” sono state sufficienti perchè il 13 marzo il Dipartimento di Stato USA convocasse l’ambasciatore cinese a Washington, Cui Tiankai, affinchè David Stilwell, sottosegretario di Stato per lo scacchiere Asia-Pacifico, nonchè ex-ufficiale dell’US Air Force, gli esprimesse “una severa rimostranza”.
Altre fonti del Dipartimento di Stato USA, rimaste anonime, hanno fatto sapere alla stampa che, con l’affondo del portavoce Zhao, “la Cina sta cercando di deviare le critiche per aver dato origine a una pandemia non dicendolo al mondo”. Anche a voler considerare una semplice casualità il passaggio in ottobre di militari stranieri per i giochi di Wuhan, v’è però da considerare un’altra inquietante coincidenza.
Esattamente un mese prima dell’inizio dei Giochi Militari, ovvero il 18 settembre 2019, l’aeroporto Tianhe di Wuhan è stato teatro di un’esercitazione di contenimento biomedico, riguardante, come ipotesi di lavoro, “l’arrivo di un passeggero affetto da coronavirus”.
La notizia di questa esercitazione è passata in sordina, ma fra le poche testimonianze reperibili in rete che la confermerebbero oltre a svariate immagini, c’è un resoconto di Hubei TV che narra: “Nel pomeriggio del 18 settembre le dogane del Wuhan Tianhe Airport hanno ricevuto un rapporto da una linea aerea secondo cui ‘un passeggero non si sentiva bene, avendo difficoltà a respirare, e i suoi parametri vitali erano instabili’.
Immediatamente, le dogane dell’aeroporto hanno iniziato un piano di contenimento e hanno iniziato a trasferire il passeggero in ospedale. Due ore più tardi, il Centro Medico di Wuhan ha reso noto che al passeggero è stata clinicamente diagnosticata una infezione da Coronavirus”.
Il reportage citava anche un secondo tema di esercitazione, che era “un eccesso di radiazioni” dovuto a un passeggero che tentava di trafugare “un minerale dalla Birmania”. E concludeva inquadrando l’esercitazione nella preparazione delle misure di sicurezza proprio in previsione dei Giochi Militari: “A 30 giorni dall’inizio dei giochi, le dogane di Wuhan hanno fatto ogni sforzo per garantire la sicurezza degli scali e salvaguardare i giochi”.
E’ legittima la domanda del perché i cinesi possano aver pensato al rischio di un coronavirus proprio poche settimane prima dell’arrivo di militari stranieri, e nella fattispecie americani.
Ammesso, e non concesso, che i loro servizi segreti si aspettassero qualche contaminazione dall’esterno, potrebbero essere stati preavvertiti? Ed è forse per questo motivo che il governo cinese ha inizialmente tenuto una condotta riservata sull’esplodere dell’epidemia?
Pechino sostiene che il “paziente zero” di Wuhan deve aver contratto il virus per non meglio determinato “salto di specie” da un pipistrello o da un pangolino all’uomo, verificatosi forse per via alimentare al mercato di Wuhan intorno al 17 novembre 2019.
La nuova specie di virus sarebbe stata ufficialmente isolata e classificata nei primi malati gravi di polmonite virale registrati nell’Hubei solo il 31 dicembre come SARS-CoV-2, poi sintetizzato in Covid-19.
Subito è emersa la parentela genetica del nuovo virus con quello della SARS che aveva suscitato paure, per poi essere arginato, a cavallo fra 2002 e 2003, avendo in comune l’appartenenza alla famiglia dei coronavirus.
Il superiore tasso di mortalità, inizialmente calcolato attorno al 2,5 %, e i tempi lunghi di incubazione, che facilitano la diffusione per via degli ignari contagiati asintomatici, hanno fatto capire subito alla sanità cinese che la malattia non era da sottovalutare.
Ma le direttive del regime volte inizialmente a minimizzare, nonchè il fatto che a Wuhan fosse presente il famoso laboratorio virologico hanno indotto a credere il virus si fosse diffuso a partire proprio dall’Istituto per un incidente.
E’ stato assodato ad esempio, poichè confermato il 16 febbraio dalla rivista del Partito Comunista Cinese “Qiushi”, che il presidente cinese Xi Jinping conosceva la gravità della situazione fin dal 7 gennaio 2020, quando nel corso di una riunione a porte chiuse del Politburo del partito ordinò di fermare a ogni costo l’infezione.
Cioè 13 giorni prima che, il 20 gennaio, egli parlasse in pubblico del virus. L’indomani, 21 gennaio, le autorità cinesi ammettevano per la prima volta che era confermata la trasmissione da umano a umano del virus.
Dopo che fin dall’8 dicembre alcuni medici di Wuhan cercavano di dare l’allarme, salvo esser messi a tacere dal regime. Inoltre nel medesimo periodo veniva messo agli arresti domiciliari, per tenerlo lontano dalla scena, l’anziano medico che nel 2003 aveva rivelato i dati reali sull’epidemia di SARS, e che forse Pechino temeva potesse far altrettanto col coronavirus.
E’ il medico militare Jiang Yanyong, 88 anni, in pensione col grado di generale, la cui moglie Hua Zhongwei ha dichiarato il 9 febbraio: “Non è autorizzato a contatti col mondo esterno.
È a casa, la sua salute non è buona. E non sta bene neanche mentalmente. Non sta bene. Scusate, non è opportuno dire di più”. A rincarare la dose, parte della stampa americana pompava sulla possibilità della fuga del virus dai laboratori di Wuhan, specie dopo che il 24 gennaio il “Washington Times” ebbe vagheggiato un “programma cinese di armi biologiche” portato avanti nel centro ricerche di Wuhan e sfuggito al controllo. In verità ciò pare poco probabile per vari motivi.
Il centro virologico di Wuhan, fondato fin dal 1956, si è dotato fin dal 2015 di nuovi laboratori a cui è stato riconosciuto lo standard di sicurezza internazionale BSL-4, del quale si fregiano solo una cinquantina di istituti in tutto il mondo. Inoltre utilizzare un virus di tipo influenzale, per quanto con l’aggressività del ceppo SARS, per caricare testate belliche è militarmente insignificante data la mortalità comunque bassa, non paragonabile a quella di germi ben più letali, come il virus Marburg o il batterio del Botulino.
E allora perchè il governo cinese voleva minimizzare? Solo per prestigio nazionale? Forse solo per non mostrarsi vulnerabile a quello che potrebbe essere stato un attacco “lieve” portato in segreto.
Un duello segreto
Immaginiamo, pur senza dar loro eccessivo credito, che siano verosimili le accuse nei confronti dell’America. Se nel settembre 2019 i cinesi già conducevano un’esercitazione per fermare un ipotetico contagio da “coronavirus” arrivato dall’esterno all’aeroporto di Wuhan, è probabile che si aspettassero qualcosa.
Qualcuno della loro fitta rete di spionaggio negli Stati Uniti potrebbe averli avvisati di un qualche piano per sconvolgere l’economia cinese proprio nel pieno della battaglia commerciale dei dazi.
A riprova della quantità di “antenne” che la Cina mantiene in Nordamerica, non è forse un caso che proprio nel periodo dell’irrompere dell’epidemia il Dipartimento della Giustizia USA si sia mosso in tre direzioni diverse. Il 10 dicembre 2019 è stato arrestato da agenti dell’FBI all’aeroporto Logan di Boston il giovane cinese Zheng Zaosong, che tentava di trafugare in Cina “21 fialette di ricerche biologiche” nascoste in un calzino.
Zheng era entrato negli USA con una visa nell’agosto 2018, poi ha lavorato come ricercatore a Boston, al Beth Israel Deaconess Medical Center, dal 4 settembre 2018 al 9 dicembre 2019, quando ha rubato le fiale venendo però “pizzicato” in aeroporto. In galera già da varie settimane è stato formalmente accusato di contrabbando e frode il 21 gennaio 2020.
Una settimana dopo, il 28 gennaio, è stata accusata pure di frode e spionaggio una ragazza cinese, Ye Yanqing, che entrata negli USA quasi tre anni fa spacciandosi per studente, ha frequentato dall’ottobre 2017 all’aprile 2019 il Dipartimento di Fisica, Chimica e Ingegneria Biomedica dell’Università di Boston.
Solo il 20 aprile 2019, interrogata dall’FBI all’aeroporto Logan, Ye ha ammesso di essere tuttora un tenente dell’Armata Popolare Cinese, nonchè membro del PCC.
Attualmente si trova in Cina. Sempre il 28 gennaio è stato arrestato perfino un “guru” dell’Università di Harvard, il dottor Charles Lieber, preside del Dipartimento di Chimica e Biochimica, nonchè mago delle nanotecnologie, per contatti poco chiari con la Cina, segnatamente per “conflitto d’interessi” avendo collaborato, dietro lauti compensi, dal 2012 al 2017 con l’Università della Tecnologia di Wuhan (ed ecco rispuntare Wuhan!) senza informare adeguatamente Harvard.
Chiaramente non è assolutamente provato che questi tre personaggi abbiano a che fare con le ipotesi relative al Covid-19, ma le loro vicende sono emblematiche della presumibile rete di studenti e accademici cinesi, o prezzolati da Pechino, che sorveglia l’attività scientifica, e dunque anche biochimica, degli americani. E senz’altro la sorveglianza è reciproca.
Per i cinesi, cercare di far finta di nulla nei primi tempi del contagio potrebbe essere stato un modo di lasciare gli americani nell’incertezza circa l’esito di una qualche operazione segreta. E il riserbo potrebbe anche essere dovuto alla cautela necessaria a non dare indizi che porterebbero allo scoperto preziosi informatori negli USA. Ricordate cosa avevamo scritto nelle prime righe di questo scritto, citando le parole di Chaunan?
“Anche quando sono molto inefficaci, con pochi morti, come nel caso delle lettere all’antrace negli USA, le armi biologiche sono considerabili come armi di ‘rottura’ di massa poichè possono gettare un’intera nazione nel caos. Le armi biologiche influenzeranno molti aspetti della nostra vita di routine, mandandoli fuori schema. Porteranno il terrorismo sulla soglia di casa di ognuno di noi”.
Detto in altri termini, seminare una forte polmonite in un paese avversario può sconvolgere quel tanto che basta il tessuto socio-economico nemico, lasciando gli avversari in un eterno dubbio, se si sia trattato cioè di un evento di origine naturale oppure artificiale. Ben difficilmente ci potrà essere infatti una prova definitiva dell’origine di questo virus. Il fatto che la pandemia si sia poi diffusa in tutto il mondo e che stia facendo breccia anche negli Stati Uniti potrebbe essere la riprova che, in realtà, si tratta solo di complottismo.
Il “fronte” europeo
E’ vero però che gli eventi di questi ultimi mesi stanno mettendo in ginocchio anche un altro importante concorrente economico degli USA, ovvero l’Unione Europea, i cui paesi stanno andando in ordine sparso, rischiando peraltro di sovraccaricare la Banca Centrale Europea con richieste di liquidità d’emergenza. Quanto agli Stati Uniti, se anche la paura dilaga e si annuncia uno stato d’emergenza, non va dimenticato che oltreoceano la sanità pubblica è una chimera e la salute in senso generale tende a essere considerata un fatto più privato che collettivo.
Trattandosi di una influenza più aggressiva del normale, la cui mortalità non è catastrofica, potrebbe esistere la possibilità, per quanto remota, che le élites che governano gli Stati Uniti, per certi aspetti paragonabili al patriziato dell’Impero Romano, possano aver pensato che rischiare il trabocco del Covid-19 anche nei propri confini potesse essere un prezzo adeguato per azzoppare Cina e Unione Europea, contando sul diverso approccio, anche come mentalità, che cinesi ed europei hanno in relazione alla salute pubblica.
Quanto ai suddetti rischi economici per l’Arabia Saudita, si tratterebbe di un rischioso effetto collaterale dovuto a volontà indipendenti da Washington, cioè la “lotta” al ribasso fra Riad e i russi, che probabilmente gli stessi americani potevano non aver previsto nella loro portata.
La prova del nove la si avrà osservando i rimedi che Washington potrà eventualmente attuare per salvare il proprio mercato azionario e petrolifero, oltre all’eventuale comparsa di un vaccino proprio in America, e magari in tempi brevi. Diversamente, apparirebbe invece plausibile un’origine naturale, o per incidente, della pandemia.
Certo, l’ipotesi naturale, che contempla il passaggio del Covid-19 alla specie umana per un fenomeno di “zoonosi”, da pipistrello o altro vertebrato, complice la diffusa abitudine alimentare cinese, e in genere orientale, di “mangiare tutto ciò che si muove”, resta a prima vista la più credibile per una serie di fattori. Anzitutto gioverà ricordare che la diffusione di epidemie influenzali a partire dalla Cina è un fatto storico di lungo periodo, basti pensare all’influenza detta “asiatica” del 1957 e a quella “di Hong Kong” del 1968 giunta in Europa nell’inverno del 1969. In genere, poi, dall’Asia sono venute anche pandemie assai più distruttive.
Citavamo all’inizio la Peste Nera che arrivò in Europa nel 1347 dopo essere scoppiata in Asia Centrale e trasmessa ai genovesi della base di Caffa, in Crimea, dai cavalieri mongoli che l’assediavano.
Si potrebbe anche citare il colera, che partì lentamente dall’India attorno al 1816, ma si diffuse in tutto il mondo fra il 1840 e il 1870, quando l’introduzione della navigazione a vapore e delle prime ferrovie, in un periodo in cui le città europee ed americane non avevano ancora fogne efficienti, formò una combinazione esplosiva, paragonabile nel caso odierno alla potenzialità del trasporto aereo di massa nella trasmissione di virus e batteri.
Nello specifico della zoonosi, peraltro, è interessante notare che, per fare un singolo esempio, il batterio della peste, lo Yersinia Pestis, era in origine endemico nei roditori della steppa chiamati dai tartari “tarabagan” e che Marco Polo, nel Milione, chiamava “ratti del faraone”.
Si tratta della specie oggi classificata Marmota Sibirica, una specie di marmotta steppica cacciata e mangiata dai cavalieri nomadi, oltre che infestata di pulci che potevano contaminare gli esseri umani col loro morso. L’apertura di grandi vie carovaniere nell’Eurasia a causa del consolidamento dell’Impero Mongolo, a partire dal 1206 a opera di Gengis Khan e dei suoi successori, aprì vere e proprie corsie preferenziali alla diffusione della peste nel secolo successivo, tantopiù che la Yersinia Pestis, a un certo punto cominciò a esser trasmessa sia attraverso la puntura delle pulci, che saltavano dai roditori all’uomo, sia, nella forma polmonare, da uomo a uomo, in modo simile a quello influenzale.
Il primissimo focolaio di Peste Nera si sarebbe registrato, pare, presso una comunità di tartari nestoriani presso il lago Issyk Kul nel 1339, per poi diffondersi in Cina, dove pure fece sfracelli, e ai mongoli che assediavano Caffa, i quali, peraltro, catapultarono cadaveri infettati oltre le mura come una vera “arma biologica”.
Secondo la ricostruzione più accreditata, i genovesi fuggiaschi da Caffa sulle loro galee diffusero poi la peste nell’arco di poche settimane, fra estate e autunno del 1347, a Costantinopoli e in Sicilia, da cui dilagò in tutta Europa. Sia detto per inciso, la peste resta ancora in agguato in alcune remote parti del mondo e proprio in Cina, nel sostanziale silenzio dei grandi mass media, è stato stroncato sul nascere un nuovo focolaio lo scorso autunno.
Infatti fra il 3 e il 16 novembre 2019 sono stati scoperti tre casi conclamati di peste fra pastori della provincia della Mongolia Interna, sotto la sovranità di Pechino, che avevano mangiato dei tarabagan, causando la messa in quarantena di un totale di 28 persone che avevano avuto contatti con loro.
I cinesi certo non abbassano la guardia nemmeno su questa antica malattia, dato che si teme che i cambiamenti climatici in atto e le loro conseguenze sugli equilibri della popolazione di roditori della steppa possa in futuro portare lo Yersinia Pestis a nuovi salti di specie, forse anche mutazioni. E il fatto che la descrizione dei sintomi della peste medievale, rispetto alle forme più recenti, sembra, a detta degli esperti, ricordare febbri emorragiche più analoghe a quelle del virus Ebola, testimonia una pluralità che non lascia tranquilli gli studiosi.
Profezie letterarie
Il nesso storico fra la Cina e le epidemie è molto profondo, anche dal punto di vista delle sue trasposizioni narrative e non senza sconfinare nell’arma biologica, sia che il grande paese asiatico ne sia vittima o artefice. Ma, come vedremo, al di là delle profezie inquietanti dei romanzi, è interessante ricordare il ben più concreto studio condotto fin dal 2015 a Wuhan da un team di scienziati cinesi e stranieri su un “coronavirus ricavato da un pipistrello e modificato geneticamente per entrare in cellule umane”.
Andando con ordine, si potrebbe partire da un poco noto racconto fantapolitico del romanziere americano Jack London, che nel luglio 1910 pubblicò “The unparallaled invasion”.
Avendo avuto esperienza, come giornalista inviato speciale, della guerra russo-giapponese del 1904, London diede una sua personale interpretazione del “pericolo giallo” immaginando che nel suo futuro 1922 una Cina modernizzata annettesse il Giappone assommandone a sé le risorse industriali e diventando nel successivo cinquantennio una minaccia crescente invadendo i territori limitrofi. A quel punto, nel 1976 le potenze occidentali decidevano di invadere la Cina con uno stratagemma diabolico.
London immaginava gli eserciti e le marine europei e americani circondare totalmente il colosso asiatico con masse di soldati e forze navali, in modo che nessuno potesse fuggire dal paese.
Poi gli occidentali facevano decollare dalle loro navi da guerra squadriglie di piccoli aeroplani (London scriveva nel 1910, quando l’aereo aveva già dimostrato, fin dal 1909, le sue potenzialità trasvolando la Manica con la nota impresa di Louis Bleriot) che andavano a librarsi sopra le maggiori città cinesi in quelli che parevano innocui voli di ricognizione.
Ma i velivoli facevano cadere qua e là, sulle maggiori concentrazioni demografiche cinesi, centinaia di “tubi di vetro” apparentemente vuoti. Erano in verità i vettori di un’imprecisata combinazione di diverse specie di batteri, capaci di innescare epidemie multiple tali da spopolare quasi totalmente la Cina.
Terribile il quadro del multi-contagio immaginato da Jack London: “Se ci fosse stata una sola malattia, la Cina avrebbe potuto affrontarla, ma da un insieme di morbi, nessuna creatura era immune. L’uomo che scampava al vaiolo moriva per la scarlattina. L’uomo che era immune alla febbre gialla, se lo portava via il colera. E se uno era immune anche a quello, la Morte Nera, cioè la peste bubbonica, lo annientava.
Erano questi batteri e germi e microbi e bacilli coltivati nei laboratori dell’Occidente, che erano stati rovesciati sulla Cina con la pioggia di vetro”. Dopo mesi di martirio, con le forze assedianti che uccidevano qualsiasi cinese cercasse di uscire dai confini, l’immenso territorio risultava infine così deserto da consentire agli eserciti occidentali di invaderlo penetrandovi come un coltello nel burro.
L’ombra di una guerra batteriologica coinvolgente la Cina si stagliava anche nei retroscena di un film di fantascienza del 1971 diretto da Boris Sagal e interpretato da Charlton Heston, ovvero “1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra”. Vi si immaginava una disastrosa epidemia diffusasi in tutto il mondo proprio a partire dal confine russo-cinese, dove crescenti scontri armati fra Unione Sovietica e Cina erano presto passati dal livello convenzionale all’uso di armi batteriologiche.
Nelle ultime settimane, poi, sull’onda del Covid-19, la stampa internazionale ha abilmente ripescato un’altra curiosa “profezia”, il romanzo “The eyes in the darkness”, scritto nel 1981 da Dean Koontz ma edito in Italia solo ora, nel 2020, proprio sull’onda delle notizie di attualità e col titolo “L’abisso”.
In esso si parla della diffusione di un virus letale denominato “Wuhan 400”, perchè frutto di un programma segreto cinese di armi biologiche. La coincidenza è però solo apparente nel senso che il virus del romanzo è qualcosa di totalmente diverso da un’influenza. E sul fatto che sia stato prodotto proprio dai laboratori di Wuhan, anche in tal caso, non si può parlare di vera profezia, nel senso che, semplicemente, quando nel 1981 Koontz partorì il romanzo non poteva fare a meno di riferirsi a uno dei principali laboratori cinesi, già allora operante da tempo.
L’esercizio della fantasia narrativa può essere utile a lanciare preziosi moniti per il futuro, tenendo presente che, in particolare, l’idea di Jack London di una guerra biologica ad ampio spettro, con impiego parallelo di più specie di organismi patogeni spalanca prospettive tremende.
Fortunatamente, a rendere, almeno per qualche generazione, improbabili simili scenari catastrofici, ci sono, da un lato la Convenzione sulla Proibizione delle Armi Biologiche, che firmata il 12 aprile 1972 è in vigore dal 26 marzo 1975 impegnando praticamente tutti gli Stati della Terra, e dall’altro lato la funzione deterrente delle armi nucleari o chimiche.
Scenari possibili
E’ ovvio infatti che se uno Stato identificasse sul suo territorio un’aggressione con agenti biologici portata da un paese nemico, si riterrebbe autorizzato a una simile rappresaglia, oppure, non disponendo di tali armi, reagendo con altrettanto catastrofici attacchi nucleari o chimici.
L’impiego di microrganismi porta inoltre notevoli problemi perché trattandosi di esseri viventi non si esauriscono di per sé una volta raggiunta la finalità del loro impiego, ma potenzialmente possono seguitare a replicarsi, a diffondersi negli ecosistemi, perseguendo i propri scopi di sopravvivenza, divergenti da quelli degli uomini che hanno magari avventatamente tentato di utilizzarli.
E magari mutando genoma col susseguirsi delle loro fittissime generazioni. In altre parole, i microrganismi, per macabra ironia, é come se, simbolicamente, lasciassero credere all’uomo di potersi servire di loro, mentre in realtà sono essi stessi, questi piccolissimi e invisibili “guerrieri”, a servirsi di noi, ignari e impacciati giganti.
L’unico serio rischio di impiego di armi biologiche letali potrebbe ancora venire dal terrorismo, che non offrirebbe un territorio e una popolazione suscettibili di una rappresaglia proporzionata. Forse, in un futuro più lontano, un remoto pericolo potrebbe venire da un eventuale mutamento del modo di pensare dei nostri discendenti, che potrebbero essere portati, anche da insospettabili sviluppi tecnici, a pensare alle guerre biologiche come a un qualcosa di attuabile.
Per ora, nell’impossibilità di poter esprimere un giudizio su questa ancora poco chiara pandemia, sarà opportuno ricordare che pochi anni fa un team internazionale di scienziati, sia cinesi sia occidentali, aveva pubblicato un’ampia ricerca su un coronavirus modificato proprio nei laboratori di Wuhan, ma con la collaborazione di istituti esteri come la University of North Carolina, per studiarne la virulenza sui tessuti umani in coltura.
Uscito il 9 novembre 2015 sulla prestigiosa rivista “Nature”, il resoconto aveva un titolo che suonava come un ammonimento: “Un gruppo di coronavirus circolanti nei pipistrelli e simili alla SARS mostra un potenziale per una emergenza umana”.
Autori della ricerca figuravano: Vineet D. Menachery, Boyd L. Yount Jr, Kari Debbink, Sudhakar Agnihothram, Lisa E Gralinski, Jessica A. Plante, Rachel L. Graham, Trevor Scobey, Ge Xingyi, Eric F. Donaldson, Scott H. Randell, Antonio Lanzavecchia, Wayne A. Marasco, Shi Zhengli e Ralph S. Baric.
Come si vede, due scienziati cinesi e svariati americani, indiani e perfino un italiano. La ricerca muoveva le mosse dal rilevare i “rischi di un passaggio di specie” attraverso la modifica con tecniche di bioingegneria di un ceppo SARS-CoV, adattato ai topi, dotandolo delle “spicole” esterne di un altro virus, questo tipico dei pipistrelli cinesi del genere Rhinolophus, ovvero il coronavirus SHC014-CoV.
Scrivevano già nel 2015 questi scienziati: “Il nostro lavoro suggerisce il rischio potenziale del riemergere del SARS-CoV dai virus correntemente circolanti nelle popolazioni di pipistrelli. L’emergere del SARS-CoV preannuncia una nuova era nella trasmissione fra le specie di una grave malattia respiratoria con la globalizzazione che condurrebbe alla sua rapida espansione attorno al mondo e a un impatto economico massivo”.
Creando un virus “chimera”, che avesse il corpo principale del SARS-CoV, ma con le “spikes” dell’SHC014, ovvero quelle che sono un po’ le “chiavi” che consentono l’ingresso nelle cellule parassitate, gli scienziati hanno creato un virus sperimentale dimostratosi in grado di infettare cellule umane in coltura.
E anche se gli ultimi studi sul Covid-19 hanno dimostrato che il suo profilo genetico è in parte diverso da quello del germe modificato, non impossibile che la condivisione di tale ricerca fra Cina e Stati Uniti, oltre al resto del mondo, possa aver in qualche modo portato qualcuno a ipotizzare di proseguire queste ricerche in segreto perfezionando un nuovo agente patogeno.
Già pochi giorni dopo la pubblicazione della ricerca, molti scienziati avevano espresso preoccupazioni. Un virologo dell’Istituto Pasteur di Parigi, Simon Wain-Hobson, commentava: “I ricercatori hanno creato un nuovo virus che cresce molto bene nelle cellule umane. Se il virus fuggisse, nessuno potrebbe prevederne la traiettoria”.
Il biologo molecolare americano Richard Ebright (nella foto a lato), della Rutgers University in Piscataway, New Jersey, si diceva pure timoroso: “L’unico impatto di questo lavoro è la creazione in laboratorio di un nuovo e non-naturale rischio”.
Insieme a Wain-Hobson, Ebright aveva lanciato il 12 novembre 2015 un appello: “Le autorità scientifiche dovrebbero reputare simili studi con la creazione di virus chimerici (cioè artificialmente ottenuti mescolando componenti di ceppi diversi, n.d.r.) basati su ceppi in circolazione troppo rischiosi da proseguire”.
Si chiedevano inoltre se valesse la pena di tali esperimenti contando “i rischi implicati”. Uno degli autori dei suddetti esperienti, l’americano Ralph Baric ribatteva invece che gli esperimenti erano stati utili, dimostrando che il ceppo SHC014 poteva ora essere considerato una minaccia per l’uomo, mentre prima non lo si sarebbe considerato tale: “Non penso che possiamo ignorare tutto ciò”.
Tutto ciò dimostra che i virus tipo SARS a simili, come appunto il Covid-19, possono essere ampiamente modificati dall’uomo tramite le moderne tecniche di bioingegneria.Certo, non è sufficiente a dire che l’attuale pandemia sia originata artificialmente e non dagli insondabili disegni della Natura. Ma lascia aperte le porte alle due interpretazioni alternative, o la fuga dai laboratori di Wuhan del germe, o la sua, probabilmente voluta, diffusione in Cina a partire da un vettore esterno, che in linea teorica potrebbe essere statunitense.
Nelle scorse settimane, uno dei principali scienziati protagonisti del discusso esperimento del 2015, la dottoressa Shi Zhengli (nella foto sotto), vicedirettrice del laboratorio virologico di Wuhan, ha cercato più volte di fugare le ipotesi complottistiche. Scrivendo insieme ai colleghi Zhou Peng e Yang Xinglou un articolo uscito il 3 febbraio 2020 su “Nature”, la Shi ha spiegato: “Abbiamo ottenuto da cinque pazienti nelle fasi iniziali dell’epidemia le sequenze genetiche del virus.
Le sequenze sono quasi identiche e condividono il 79,6% dell’identità sequenziale col SARS-CoV. Inoltre, noi mostriamo che il 2019-nCoV (alias Covid-19) è al 96% identico, a livello di genoma intero, al coronavirus di un pipistrello”.
Pochi giorni dopo, il 7 febbraio, la Shi ha ancora dovuto ripetere, un po’ enfaticamente: “Il nuovo coronavirus del 2019 rappresenta la Natura che punisce la specie umana per il fatto di mantenere abitudini di vita incivili. Io, Shi Zhengli, giuro sulla mia vita che esso non ha nulla a che fare col nostro laboratorio”.
La verità sull’origine di questo virus resta insomma avvolta nell’ombra, in un intreccio di omertà, silenzi, accuse internazionali e, forse, disinformazione. Ovviamente va rilevato che la novità di una specie virale finora ignota giustifica ampiamente il fatto che gli stessi esperti spesso discordino fra loro, dato che stanno essi stessi imparando giorno per giorno nuovi dettagli.
A “pensar male”, come si dice nel linguaggio corrente, si può dire la condivisione internazionale dei risultati degli esperimenti del 2015 avrebbe potuto permettere agli Stati Uniti di modificare e sviluppare autonomamente un proprio ceppo da “seminare” in Cina come blanda arma da “interdizione” batteriologica, per creare enormi problemi sociali a un avversario strategico, anche a costo di subire essi stessi dei contraccolpi.
E il discorso si potrebbe teoricamente allargare all’Unione Europea e anche all’Iran, dove si registrano pure moltissimi decessi. Ma la possibilità teorica, ovviamente, non significa certezza. E altrettanto plausibili restano, sia la pista dell’incidente a Wuhan, sia quella del naturale emergere di una nuova specie naturale.
Finché eventuali testimoni non riveleranno qualcosa di più, le versioni ufficiali a uso dell’opinione pubblica di massa prevarranno. E potrebbero, con buona pace di tutti, effettivamente essere quelle veritiere. Ma nessuno può negare che il mondo è già cambiato. E che l’unico che finora ci ha guadagnato di sicuro è quel piccolo ed estremamente essenziale essere vivente il cui successo esistenziale consiste nell’autoreplicazione.
Foto: Twitter, Difesa.it. China TV, Xinhua
Mirko MolteniVedi tutti gli articoli
Nato nel 1974 in Brianza, giornalista e saggista di storia aeronautica e militare, è laureato in Scienze Politiche all'Università Statale di Milano e collabora col quotidiano “Libero” e con varie riviste. Per le edizioni Odoya ha scritto nel 2012 “L'aviazione italiana 1940-1945”, primo di vari libri. Sempre per Odoya: “Un secolo di battaglie aeree”, “Storia dei grandi esploratori”, “Le ali di Icaro” e “Dossier Caporetto”. Per Greco e Greco: “Furia celtica”. Nel 2018, ecco per Newton Compton la sua enciclopedica “Storia dei servizi segreti”, su intelligence e spie dall’antichità fino a oggi.