Gli afghani traditi
Dal Vietnam in poi l’impegno militare in operazioni all’estero della massima superpotenza presentano una disturbante similitudine.
Gli USA intervengono con obiettivi estremamente impegnativi in zone del mondo remote (Vietnam, Somalia, Iraq, Siria, Afghanistan, solo per citare gli esempi più eclatanti). Talvolta intervengono da soli, talvolta sono i promotori e il fulcro di un intervento multinazionale condotto “formalmente” sotto bandiera ONU, NATO o di una coalizione di volenterosi che comunque fa capo a Washington. Si promette di voler abbattere dittature per ristabilire una pace basata su principi di libertà, democrazia e rispetto dei diritti umani.
L’impegno militare statunitense è spesso imponente, tanto che l’operazione non potrebbe essere condotta senza il loro contributo. Contributo quantitativamente e qualitativamente impressionante e non surrogabile dagli “alleati” o “volenterosi” compagni di viaggio. Il contributo di sangue versato dai soldati statunitensi è sempre elevato e di norma ben più elevato di quello dei rimanenti contingenti. Il contributo economico statunitense all’operazione e alla successiva ricostruzione è, per noi europei, stratosferico e difficilmente eguagliabile.
Che i valori sbandierati fossero la principale ragione dell’operazione o che accompagnassero precise mire geo-politiche è irrilevante. Le due cose si non si escludono a vicenda. Gli Stati hanno interessi nazionali da perseguire e non possono agire da disinteressate “dame di carità”, pena non essere più Stati (concetto che risulta purtroppo ostico a troppi Italiani).
Come noto, gli USA hanno dichiarato che si ritireranno dall’Afghanistan entro il ventesimo anniversario dell’attacco alle “torri gemelle” (e con loro se ne andranno gli Alleati che li hanno seguiti in questa impresa) . Nonostante le belle parole (“resteremo sempre accanto ai nostri amici afghani” o “non permetteremo che l’Afghanistan ripiombi nel medioevo”) sappiamo tutti che con il ritorno dei Talebani (che sono perfettamente consci di aver vinto) incomincerà il periodo delle vendette nei confronti di chi si era fidato delle promesse dell’Occidente ed in primis degli USA.
Sono il primo a ritenere che non ci si potesse aspettare che gli USA restassero in Afghanistan indefinitamente. Il contributo USA all’operazione è stato impressionante in termini di vite umane e di risorse impegnate. Sicuramente, in Afghanistan, come prima in Somalia, in Iraq e in altre operazioni simili gli obiettivi prefissati a Washington non erano realistici, soprattutto alla luce del protrarsi dell’operazione e del calo del sostegno dell’opinione pubblica americana.
Potremmo disquisire a lungo su quanto sia irrealistico e presuntuoso tentare di ”esportare” una “propria “ visione di democrazia e di rispetto dei diritti in paesi diversi dal proprio, con cultura e sensibilità differenti dalle proprie.
Il punto che, però, a me preme di più è il futuro di chi si era fidato dell’intervento occidentale, di chi aveva creduto che l’Occidente li avrebbe condotti verso un mondo diverso, un mondo dove non si dovesse aver paura di esprimere liberamente le proprie idee o il proprio credo religioso e non si dovesse temere la sharia.
Coloro che in questi venti anni si sono fidati e si sono esposti per essere dalla “nostra” parte (intendo coloro che si sono arruolati nelle “nuove” forze armate e forze di polizia afghane, chi ha fatto attività politica o ha lavorato in agenzie governative, i genitori che hanno osato inviare anche le figlie femmine a scuola, gli interpreti degli eserciti e degli organismi occidentali e tantissimi altri), tutti costoro sanno di essere ormai in pericolo e che le loro intere famiglie.
Sanno che la vendetta dei talebani e dei tanti delatori opportunisti che sempre tentano di acquisire meriti con il nuovo “padrone” non tarderà ad arrivare. D’altronde, i Talebani hanno sempre saputo che alla fine avrebbero vinto loro e ci hanno sempre detto con aria di superiorità “voi avrete gli orologi ma noi abbiamo il tempo”.
Avevano ragione, loro lo sapevano, ma in tutta onestà possiamo dire che non lo sapessimo anche noi? Davvero non sapevamo che sarebbe andata a finire così? Pensando a questi bravi e coraggiosi Afghani mi vengono in mente le immagini degli elicotteri USA che lasciano a Saigon folle di disperati che si erano fidati dell’alleato americano, o i miei amici Somali che l’ONU ha abbandonato in un paese che non può neanche più essere definito tale, o ai Curdi traditi da Trump a ottobre 2019.
Gli USA (come probabilmente qualsiasi altro paese democratico occidentale) non possono reggere troppo a lungo uno sforzo militare impegnativo all’estero. La costante ricerca del gradimento degli elettori non lo consente. Elettori che non capiscono l’incessante ritorno di salme in sacchi neri o le ingenti risorse finanziarie destinate a un teatro di guerra lontano la cui posizione non saprebbero neanche indicare sul mappamondo.
D’accordo! Peraltro resta criminale (mi si scusi il termine brutale) ingannare milioni di persone e poi lasciarle al loro infelice destino, quasi fossero il giocattolo buttato via da un bimbo viziato quando se ne sia stancato.
La credibilità degli USA (e delle coalizioni a guida USA, NATO compresa) nelle future aree di crisi dipenderà anche da questo e quando i soldati dei nostri paesi interverranno i paesi lontani per portare democrazia e diritti civili dovranno fugare negli occhi dei locali cui si chiederà la collaborazione la paura di venire abbandonati, quando noi ci stancheremo, all’ineluttabile vendetta di un nemico crudele e vendicativo che, a differenza nostra, non si stancherà mai, perché lui “ha il tempo”!
Foto: Op. Resolute Support, Ministero Difesa Afghano e Afghan National Police
Antonio Li GobbiVedi tutti gli articoli
Nato nel '54 a Milano da una famiglia di tradizioni militari, entra nel '69 alla "Nunziatella" a Napoli. Ufficiale del genio guastatori ha partecipato a missioni ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul. E' stato Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI) e, in ambito NATO, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di SHAPE e Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Ha frequentato il Royal Military College of Science britannico e si è laureato con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Trieste.