L’Ucraina non è la sfida più importante per l’America di Biden

 

 

Alla fine, il 7 dicembre, al culmine di un periodo di tensione geo-politica passata quasi nell’indifferenza dei media, Biden e Putin si sono incontrati/scontrati in video-conferenza. Il 7 dicembre 2021 ovvero esattamente nell’ottantesimo anniversario dell’attacco giapponese su Pearl Harbour. Data indicativa, perché oggi come allora il centro di gravità degli interessi geopolitici USA è l’Indo-Pacifico, ma oggi come allora per salvaguardare tali interessi lo Zio Sam si trova obbligato a occuparsi anche della vecchia Europa.

Gli argomenti sul tavolo tra Biden e Putin erano diversi, ma quello più spinoso riguardava l’Ucraina mentre i contenuti reali dell’incontro non sono stati resi noti e ci si dovrà affidare alle versioni edulcorate che saranno man mano passate ai media. Versioni che saranno probabilmente divergenti.

Ciò premesso, i primi grossolani report non sembrano far altro che rimarcare le posizioni pre-vertice dei due leader e la minaccia da parte USA di ritorsioni ad ampio spettro (ma soprattutto in campo economico) ove Mosca non procedesse tempestivamente a una de-escalation del dispiegamento di forze ai confini dell’Ucraina.

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Si vedrà solo nelle prossime settimane se uno dei due leader sia stato capace di fare una “offerta che non si poteva rifiutare” me tre chi eventualmente si fosse atteso da tale colloquio grandi risultati è sicuramente rimasto deluso.

Le ragioni profonde di come si sia giunti all’attuale livello di tensione sono complesse e possono essere comprese solo analizzando l’andamento dei rapporti tra USA e Russia dai colloqui Reagan – Gorbaciov in poi e, soprattutto, il progressivo deteriorarsi di tale relazione negli ultimi tre/quattro lustri.

I fatti più recenti, invece, sono ben noti. Fonti dell’intelligence Usa hanno comunicato al Washington Post che “i russi prevedono un’offensiva militare contro l’Ucraina all’inizio del 2022, con una scala di forze doppia rispetto a quella vista nelle esercitazioni ai confini”

L’intelligence statunitense (secondo quanto riportato dai media) stima una presenza ai confini ucraini di un centinaio di gruppi tattici a livello battaglione rinforzato, corredato da combat support e combat service support commisurato, per un totale di 175 mila uomini. Tutto ciò comprovato dalla pubblicazione di foto satellitari scattate si dice il 9 novembre scorso e pubblicate dal Center for Strategic and International Studies.

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Dal canto suo Mosca, come prevedibile, ha accusato Washington di isterismo anti-russo e ha denunciato la pressione che l’Alleanza Atlantica tempo sta esercitando sulla Russia per mezzo del dispiegamento di missili anti-balistici in Polonia e Romania, delle sempre più imponenti esercitazioni navali in Mar Nero, nonché, soprattutto, della promessa di estendere l’Alleanza a Ucraina e Georgia (portando un potenziale minaccia ai confini stessi della Russia).

L’ammissione nella NATO  di queste due ex repubbliche sovietiche era stata annunciata come obiettivo strategico dell’Alleanza nel corso del Summit NATO dello scorso giugno (Per la NATO la Cina è più vicina della Libia – Analisi Difesa) e sorprende che i leader europei possano accettare  un simile impegno su pressione statunitense.

 L’Ucraina non dovrebbe essere la principale preoccupazione degli USA oggi. Ci sono nubi ben più scure che si profilano all’orizzonte per la superpotenza americana. Putin ne è consapevole e fa verosimilmente conto su di ciò.

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Peraltro, Biden si trova oggi nella scomoda posizione di dover mostrare i muscoli con Putin, perché deve riuscire a compensare di fronte all’opinione pubblica sia internazionale sia domestica più di una posizione di debolezza USA in politica estera e deve tentare di mantenere adeguata credibilità in un contesto geopolitico mondiale in cui la sua posizione appare sempre più difficile.

L’Afghanistan è stato abbandonato al proprio destino, dopo vent’anni di promesse alla popolazione locale, di pesanti sacrifici di sangue e di ingenti donazioni finanziarie da parte di Washington. Lo Zio Sam è ormai spesso percepito come la grande potenza che dalla Baia dei Porci al Vietnam, dall’Iraq post-Saddam ai Curdi, per giungere agli Afghani, quando si stanca di “giocare” abbandona senza remore i propri alleati “usa e getta” e li lascia in balia della ineluttabile vendetta dei propri nemici.

Questa immagine della superpotenza americana è forse ingiusta e ingenerosa ma l’abbandono di Kabul è un’immagine difficile da far dimenticare. Gli effetti di questa percezione potrebbero riflettersi negativamente su altre crisi che interessano gli USA (in relazione all’Indo-Pacifico, al nucleare iraniano, all’Europa, alla NATO, ecc.), gettando anche qualche ombra sulla credibilità dell’amministrazione vis à vis il proprio elettorato domestico.

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Nell’Indo-Pacifico attualmente la principale preoccupazione di Biden è Taiwan e le esercitazioni aeronavali cinesi in preoccupante prossimità dell’isola. Washington adesso deve assolutamente mandare un messaggio sia a Pechino sia a Taipei che non devono farsi fuorviare da quanto avvenuto a Kabul: gli USA non abbandoneranno nel prossimo futuro Taiwan alla Cina.

Una tale rassicurazione è essenziale anche per tutti gli altri alleati degli USA nell’Indo-Pacifico. Alcuni di questi (Australia e Nuova Zelanda) resteranno sempre sodali con gli USA qualsiasi cosa avvenga. Molti altri, però, potrebbero incominciare ad avvicinarsi a Pechino se non si sentissero più adeguatamente protetti da Washington.

Né Biden può ignorare che la Cina sta accelerando il proprio riarmo nucleare puntando a disporre di almeno un migliaio di testate nucleari entro la fine di questo decennio e che nello stesso periodo Pechino potrebbe raggiungere o perfino superare Washington in termini di capacità militari nello spazio.

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Le manovre militari cinesi che gli USA condannano sono prioritariamente una potente arma di pressione psicologica sulla popolazione e la leadership politica dell’isola-stato tendente anche a far percepire la debolezza della protezione a stelle e strisce.

Per Washington, in questa fase, diviene pertanto imperativo far passare il messaggio che gli USA difenderanno l’indipendenza di Taiwan, domani, così come sono oggi pronti ad andare allo scontro militare con la Russia per difendere l’indipendenza e autodeterminazione dell’Ucraina. Ovvero, più facile tirare fuori i denti con Putin che con Xi.

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Quanto al Medio Oriente nei giorni scorsi sono miseramente falliti i colloqui di Vienna, tendenti a far rivivere il “Joint Comprehensive Plan of Action”(JCPOA), ovvero l’accordo sul controllo del nucleare iraniano stipulato nel 2015. Si ricorderà che tale accordo, rigettato da Trump, era stato a suo tempo descritto come un successo dell’amministrazione Obama e che i suoi principali artefici di allora sono oggi elementi chiave della politica estera dell’amministrazione Biden (Burns, Direttore della CIA, e Sullivan, National Security Advisor).

Al momento, gli USA fanno sapere che Washington potrebbe essere intenzionato a ripristinare e addirittura inasprire ulteriormente le sanzioni internazionali contro Teheran che erano in vigore prima della sottoscrizione del JCPOA. Ma, intanto, il tempo scorre inesorabilmente e le possibilità per gli Ayatollah di dotarsi di un’arma nucleare sono sempre più a portata di mano.

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Nel frattempo, Israele giustamente scalpita e chiede un intervento concreto. Il capo del Mossad David Barnea è andato negli USA in questi giorni proprio in quest’ottica. Difficile che Israele speri davvero in un improbabile intervento militare a stelle e strisce, ma sicuramente vuole ottenere la “luce verde” per un’eventuale azione militare preventiva della Stella di Davide.  In ogni caso la situazione per l’Amministrazione Biden è difficile.

Abbandonare la via del negoziato sarebbe implicitamente una conferma che “aveva ragione Trump”. Per restare al tavolo negoziale e supportare la propria posizione con delle minacce occorre che sano credibili. Mostrare i muscoli in relazione all’Ucraina potrebbe essere utile anche per mandare messaggi a Teheran e soprattutto per tentare di rassicurare Gerusalemme in merito all’affidabilità della protezione USA.

La crisi Ucraina è estremamente utile per Washington al fine di chiamare a raccolta i paesi europei intorno alla NATO.

Agli USA, infatti, occorre urgentemente ripristinare in Europa la convinzione della irrinunciabilità dell’Alleanza Atlantica. Anche Putin e Lukashenko possono rivelarsi utili in quest’ottica. Mostrare i muscoli e portare l’Ucraina al centro delle attenzioni europee rafforzerà in ambito sia NATO sia UE la posizione dei paesi “più fidati” (la “Nuova Europa” di Bush) a scapito di quelli più “europeisti”.

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In quest’ottica vanno probabilmente letti anche i colloqui telefonici del 6 dicembre con i leader politici dei principali paesi europei della NATO (UK, Francia, Germania e Italia – ripristinando quel formato “QUINT” che di fatto era stato veramente vitale solo all’epoca del conflitto in Kosovo).

È evidente che la risposta a Putin possa risultare molto più convincente se dietro Washington apparisse compatta l’intera compagine degli Alleati Atlantici. Occorre anche ricordare che la NATO, in quanto tale, non dispone di un proprio autonomo servizio di intelligence e si basa su quanto in maniera “gentile” (e talvolta utilitaristica) le viene passato dai singoli alleati.

In questo caso le informazioni essenzialmente fornite dagli USA. Certo è che il ricordo della famosa ”pistola fumante” mostrata da Colin Powell all’ONU in relazione alle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein potrebbe indurre gli europei ad una certa cautela.

Un inasprimento dei rapporti tra Europa e Russia comporterebbe anche un rallentamento o ridimensionamento del progetto Nord Stream 2 che ha visto contrapposti sinora gli interessi di Washington e di Berlino. Biden potrebbe approfittare al riguardo anche di una nuova leadership tedesca meno carismatica di quella della Merkel. A parte gli aspetti energetici ed economici (vantaggiosi per la Germania e dannosi per l’Ucraina), tutt’altro che irrilevanti, il Nord Stream 2 ha anche un significato simbolico non indifferente di collegamento ed interscambio tra l’Europa Occidentale e la Russia. Significato simbolico che stride con la politica anti -russa che Biden vuole imporre alla NATO.

Inoltre, pare che Washington voglia insistere affinché l’UE incominci a percepire il problema di Ucraina e Georgia come un problema “europeo” anche per compromettere definitivamente i rapporti già tesi tra UE e Russia. Infatti, la Casa Bianca ha già fatto sapere di ritenere che per la gestione della crisi ucraina il foro dovrebbe essere il formato “Normandia” (Russia, Ucraina, Germania e Francia).

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Biden (in forte calo di consensi) oggi ha bisogno sul fronte interno di dimostrare nei fatti all’opinione pubblica statunitense quell’“America is back” sbandierato in campagna elettorale. Tra l’altro, scorrendo i principali giornali statunitensi non possiamo non restare sorpresi da quanto spazio venga dedicato all’evoluzione della situazione nell’Afghanistan controllato dai Talebani e molti cittadini percepiscono il modo in cui l’Afghanistan è stato abbandonato come un’onta sull’onorabilità loro nazione.

In definitiva, forse Kiev non occupa una delle prime posizioni nella geopolitica USA, ma la crisi ucraina offre a Biden una possibilità quasi unica per dimostrare al mondo intero che gli USA sono ancora una superpotenza  capace di tirare fuori i denti per affermare i propri interessi e difendere i propri amici (questo confrontandosi con un competitor molto meno insidioso di Pechino) e per rinsaldare una NATO percorsa fa tensioni centrifughe e dove si incomincia a parlare troppo (secondo Washington) di autonomia strategica europea.

In quest’ottica, gli USA fanno la voce grossa, Biden dichiara che non accetterà le “linee rosse” di Putin (ovvero un impegno a non procedere con l’accesso di Ucraina e Georgia nella NATO), ma sa anche che alla fine riuscirà a evitare lo scontro.

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Dal punto di vista di Mosca, certamente, acquisire il controllo sull’Ucraina consentirebbe di rimettere in discussione quell’ equilibrio internazionale sancito dalla fine della Guerra Fredda, equilibrio che Putin sembrerebbe non aver mai accettato.

Il Cremlino sa bene che militarmente non avrebbe grandi problemi a condurre una veloce blitzkrieg in Ucraina ma dopo come affronterebbe le inevitabili reazioni economiche ad una tale iniziativa?

Forse USA ed europei occidentali non sarebbero pronti a “morire per il Donbass”, ma certamente adotterebbero nei confronti di Mosca contromisure economiche estremamente severe (sul tipo di quelle imposte, sinora senza grande successo, ai così detti “Stati Canaglia”, quali Nord Corea a Iran). Tra queste viene minacciata l’esclusione delle banche russe dal sistema “swift” che consente transazioni internazionali e cambi di valuta.

Misure che alla lunga potrebbero anche essere controproducenti perché potrebbero rafforzare il senso di accerchiamento di Mosca ed eventualmente rafforzare il legame anche economico con Pechino.

Nel breve termine la Russia non potrebbe però sostenere il peso economico combinato di un massiccio sforzo bellico in Europa e delle conseguenti ritorsioni economiche da parte della UE e degli USA. Più comodo e facile per Mosca giocare su altri fronti. In primis, quello delle forniture di gas alla ricca e piagnucolosa Europa (forniture calate già di un quarto negli ultimi mesi).

A livello mediatico Mosca può puntare a screditare ulteriormente la già traballante leadership di Kiev puntando ad una non impossibile implosione dell’establishment ucraino.

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Inoltre Mosca può continuare a supportare la Repubblica Srbska di Bosnia che scalpita sempre di più e appare sempre più restia a restare legata alla Federazione Bosniaco-Croata, come disegnato dagli Accordi di Dayton del 1995, contribuendo così a rendere meno stabile un’altra area ai margini della UE.

D’altronde per Mosca si tratta di giocare a fare il gatto con il topo. Un gioco che Putin sa fare bene da sempre e l’aver portato Biden in fretta e furia a questo confronto è stato un successo.

Insomma, probabilmente si tratta solo di un abile gioco delle parti, con i due contendenti che come due lottatori di wrestling prima degli incontri se ne dicono di tutti i colori, ben sapendo che poi comunque non si picchieranno per davvero.  Putin farà qualche piccola concessione che Biden potrà sbandierare in patria e all’estero, ma difficilmente cederà sui punti più critici (ingresso di Ucraina e Georgia nella NATO) e appena l’America si riporterà il centro di gravità dei propri interessi nell’Indo-Pacifico, ricomincerà a tenere Kiev sotto scacco.

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Se invece, malauguratamente, un tale calcolo risultasse sbagliato, un conflitto tradizionale in Europa porterebbe molto probabilmente al disfacimento della UE o in ogni caso ad un suo notevole ridimensionamento, anche come competitor commerciale degli USA.

Prospettiva che non sarebbe del tutto sgradita in molti ambienti sia a Washington sia a Mosca. Pertanto, l’UE non dovrebbe limitarsi a stare alla finestra, attendendo che USA e Russia decidano cosa fare e come mettersi d’accordo con le loro aree di reciproca influenza nel “vecchio continente”.

A margine, in relazione alle recenti evoluzioni nell’Est Europa i “militari” europei dovrebbero anche interrogarsi su quanto le Forze Armate dei nostri paesi siano oggi veramente preparate ed equipaggiate per un eventuale conflitto convenzionale terrestre in Europa.  La risposta potrebbe essere desolante e disarmante per molti.

Foto: Casa Bianca, Cremlino e Forze Armate Ucraine

 

 

Antonio Li GobbiVedi tutti gli articoli

Nato nel '54 a Milano da una famiglia di tradizioni militari, entra nel '69 alla "Nunziatella" a Napoli. Ufficiale del genio guastatori ha partecipato a missioni ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul. E' stato Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI) e, in ambito NATO, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di SHAPE e Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Ha frequentato il Royal Military College of Science britannico e si è laureato con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Trieste.

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