La corsa all'Artico
Come riportato dal quotidiano The Moscow Times, la Russia ha dato avvio alla dislocazione di unità militari nell’estremo nord-est siberiano, in prossimità del confine marittimo con l’Alaska. I primi moduli abitativi per la costruzione di basi permanenti sono già stati trasportati nell’isola di Wrangel ed a Capo Schmidt (Mar dei Ciukci). Successivamente, ma comunque entro il 2014, è prevista la dislocazione permanente di altre unità nell’isola di Kotelny (tra il Mar di Laptev ed il Mar siberiano orientale) nonché negli arcipelaghi di Francesco Giuseppe e di Novaja Zemlya (tra il Mar di Barents ed il Mar di Kara). Sette vecchi aerodromi dismessi dopo il crollo dell’URSS sono già stati riattivati ed altri due lo saranno a breve. Nell’oriente siberiano si sono appena concluse le esercitazioni “Vostok 2014”, le più imponenti dalla fine dell’URSS, che hanno visto l’impiego di oltre 100 mila uomini.
La militarizzazione del circolo polare artico cui stiamo assistendo, in realtà, non è una mossa improvvisa dovuta al crescere delle tensioni internazionali. Già nel 2012 si erano svolte importanti esercitazioni russe nell’isola circumpolare di Kotelny focalizzate all’individuazione di approdi nonché alla dichiarata intenzione, in una prospettiva strategica di ben più ampia portata, di definire nuove rotte marittime per l’estremo oriente (si consideri che dal porto russo-europeo di Murmansk a quello nipponico di Yokohama, attraverso Suez, il percorso è di circa 13 mila miglia, che divengono la metà attraverso l’artico).
Analogamente, anche da parte occidentale si svolgono da parecchi anni esercitazioni nel circolo polare artico culminanti in quelle che annualmente effettua la NATO (“Cold Response”) in aree della Norvegia settentrionale. Non solo. A partire dal 2007 venivano addirittura svolte esercitazioni annuali congiunte tra russi, statunitensi e canadesi (“Vigilant Eagle”) che da quest’anno, per le note vicende ucraine, sono state annullate.
Riguardo le basi militari permanenti anche gli occidentali se ne sono spesso interessati, preannunciandone più volte l’insediamento. Il Canada nell’isola di Cornwallis (arcipelago Regina Elisabetta), la Danimarca e la Norvegia mediante l’istituzione di un comando militare artico ed una forza di reazione rapida così come è stato fatto dagli USA, peraltro in termini più complessi, definendo le linee guida della loro policy nel documento “Arctic Strategy 2013”. La loro base più avanzata a nord (circa 1.500 km dal polo) è Thule, in Groenlandia (821st Air Base Group), sede del 12th Space Warning Squadron e di alcuni distaccamenti minori.
Nel concreto, si può dire che la presenza militare occidentale sia rimasta sostanzialmente limitata alle sole esercitazioni mentre la Russia, rompendo definitivamente gli schemi, è venuta ora a creare un nuovo stato di fatto gravido di conseguenze e la cui posta finale, in buona sintesi, è il Mar Glaciale Artico e lo sfruttamento delle sue risorse.
Qualcuno leggendo queste righe potrà rimanere perplesso eppure la questione è esattamente in questi termini, per lo meno per quanto riguarda gli aspetti giuridico-diplomatici. Infatti, secondo quel che prevedono in materia i trattati internazionali (nello specifico la Convenzione ONU sui diritti marittimi del 1982), gli Stati rivieraschi possono rivendicare l’esclusività delle aree marine fino a 200 miglia dalla costa (Zona Economica Esclusiva, ZEE), estensibili però fino a 350 miglia qualora sia accertato che la piattaforma continentale si prolunghi oltre tale termine (in sostanza, si accetta una sorta di continuamento sottomarino della costa).
Nel caso della Russia, proprio in forza di questi motivi, già nel marzo di quest’anno l’ONU ha riconosciuto l’estensione dei suoi diritti su un’area di 52 mila km quadrati nel Mar di Okhotsk (a nord del Giappone, tra la Siberia e la Penisola di Kamciakta). Non si tratta di una questione di acqua marina ma piuttosto dello sfruttamento di ricchissimi giacimenti d’idrocarburi, di tale entità che il Ministro dell’Ambiente e delle Risorse Naturali russo Sergej Donskoj ha addirittura paragonato quest’area alla “caverna di Alì Babà”.
Forte di questo precedente e della vittoria nella collegata controversia col Giappone, entro il 2015 la Russia presenterà all’ONU un’analoga richiesta sul Mar Glaciale Artico fondandola sulla tesi del prolungamento delle propaggini siberiane (dorsali di Lomonosov e di Mendeleev). In pratica chiederà l’esclusività su un’estensione record di circa un milione di km quadrati. Nel frattempo, già nel 2007, due mini sommergibili hanno piantato la bandiera russa sulla corrispondente sottomarina del polo nord magnetico.
Sono pretese assurde? Di sicuro ne sentiremo ancora parlare.
Come il presidente Putin ha sempre sostenuto e ribadito anche di recente, i russi considerano la questione dell’artico come loro priorità strategica -“I nostri interessi sono concentrati nell’Artico”- ha ripetuto ancora lo scorso 29 agosto -“Dobbiamo maggiormente occuparci dello sviluppo dell’Artico e del rafforzamento delle nostre posizioni nella regione”-
Resta da vedere come reagiranno le potenze occidentali interessate considerato che gli aspetti giuridico-diplomatici, in certi casi, dato che ognuno ha i suoi, tanto meno valgono quanto più alti sono gli interessi in gioco. Nel caso dell’artico questi interessi non sono alti ma enormi, e forse anche qualcosa di più.
Secondo l’ente statale americano Geological Survey sotto il Mar Glaciale Artico si troverebbero infatti fino al 30% delle riserve mondiali di gas ed il 13% di quelle petrolifere, e proprio a darne conferma è giunta qualche giorno fa la notizia della scoperta nel Mar di Kara, a 160 km ad est delle isole Novaja Zemlya e ad una profondità di 2 mila metri, di un giacimento di vastissime proporzioni, stimato in 100 milioni di tonnellate di petrolio ed oltre 300 miliardi di metri cubi di gas.
Per carenze nella tecnologia estrattiva sottomarina, le operazioni di ricerca e trivellamento non sono state svolte esclusivamente dalla Russia ma in joint-venture tra la Rosneft e l’americana Exxon-Mobil.
Ora però, quello che all’inizio si presentava come una pragmatica alleanza tra i colossi mondiali del petrolio è destinato ad incepparsi per le sanzioni USA/UE che colpiscono specificatamente questo settore, e addirittura in prima persona l’a.d. della Rosneft, Igor Sechin. Inevitabilmente, le sanzioni imporranno alla Exxon-Mobil di ritirarsi da ogni attività di sfruttamento sia di questo che di altri giacimenti nell’Artico.
Vi sarebbero parecchie osservazioni da fare a proposito di queste auto-lesionistiche sanzioni e dei loro scopi dato che, fin dall’inizio, hanno riguardato non soltanto determinati settori economici – come sarebbe del resto nella logica delle cose – ma soprattutto personalità dell’entourage del presidente Putin, i cosiddetti oligarchi, colpendo direttamente i loro patrimoni.
Considerato che il dichiarato fondamento delle sanzioni è l’aiuto russo ai separatisti in Ucraina, e considerato che gli oligarchi sono in maggioranza dei petrolieri e non ne sono coinvolti, quali sono dunque i veri scopi che si vogliono raggiungere? Forse spingere gli oligarchi ad un’azione politica per rovesciare l’ostacolo rappresentato da Putin?
Indubbiamente le sanzioni hanno una pesante efficacia e certamente stanno creando una buona dose di malessere nell’oligarchia, forse al punto di tentare qualcuno di loro a voler provocare un cambio della guardia, magari attraverso una “primavera russa“ e una nuova Euro Maidàn, sponsorizzando la venuta di un nuovo presidente del genere di Boris Eltsin, molto diverso da Putin, soprattutto molto accomodante e comprensivo verso i colossi dell’occidente ed allo stesso tempo abbastanza elastico sugli interessi russi, in particolare quelli energetici.
Di quell’epoca rimane un caso famoso, quello della Yukos dell’improvvisato petroliere ed ex uomo più ricco di Russia Mikhail Khodorkovsky, nemico giurato di Putin, tornato ora alla ribalta dopo 10 anni di detenzione, il quale, in un’intervista rilasciata proprio in questi giorni al francese Le Monde, si è detto disponibile a diventare presidente “per superare la crisi” e “realizzare le riforme”.
Un nuovo quadro politico di questo tipo porterebbe USA/UE ad annullare le sanzioni ed a riprendere le fondamentali joint-ventures petrolifere, non considerando più così importante la tanto sbandierata “difesa dell’Ucraina” dalla “invasione russa”, difesa che in questa prospettiva assume, nella sua genesi e nelle sue conclusioni, dei contorni abbastanza diversi da quelli che sono apparsi finora.
Foto: RIA Novosti, Cremlino, David Ljunggren e Military.com
Fabio RagnoVedi tutti gli articoli
Padovano, classe 1954, è Colonnello dell'Esercito in Ausiliaria. Ha iniziato la carriera come sottufficiale paracadutista. Congedatosi, ha conseguito la laurea in Giurisprudenza ed è rientrato in servizio come Ufficiale del corpo di Commissariato svolgendo incarichi funzionali in varie sedi. Ha frequentato il corso di Logistic Officer presso l'US Army ed in ambito Nato ha partecipato nei Balcani alle missioni Joint Guarantor, Joint Forge e Joint Guardian.