LA LIBIA TRACOLLA E KERRY HA LA FACCIA TOSTA DI CHIEDERE AIUTO ALL’ITALIA
“L’Italia, per il rapporto privilegiato che ha con la Libia, può svolgere un ruolo cruciale per la stabilità del Paese e noi vogliamo lavorare con Roma”. Sono le parole del segretario di Stato John Kerry al termine dell’incontro del 9 maggio con il ministro degli Esteri Emma Bonino nel quale la Libia (lo hanno sottolineato i due) è stata al centro dei colloqui. Da quanto è stato reso noto il neo ministro italiano ha evidenziato la ”preoccupazione” condivisa di Italia e Usa ”per l’evoluzione sul terreno” del Paese nordafricano ma la dichiarazione di Kerry è paradossale sotto almeno due aspetti. Il primo è che la Libia è allo sbando, tra infiltrazioni massicce di al-Qaeda (in Cirenaica, nel desertico Fezzan e persino a Tripoli) e il caos determinato dalle decine di milizie tribali che hanno feudalizzato il Paese dopo l’uccisione di Muammar Gheddafi. Al punto che in questi giorni Londra e Washington hanno ridotto il personale diplomatico e messo in allerta le forze speciali per eventuali operazioni di evacuazione. Una situazione disastrosa figlia diretta della guerra aerea che Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna hanno voluto ad ogni costo nel 2011 contro il regime di Gheddafi senza avere però la determinazione (o gli attribuiti) per assumersi l’onere di stabilizzare il Paese “boots on the ground”, cioè con l’invio di militari sul terreno come è stato fatto in Bosnia, Kosovo, Iraq e Afghanistan.
Il risultato è che le già debolissime istituzioni libiche sono alla paralisi e il parlamento è stato costretto (sotto la minaccia dei miliziani che ne assediano la sede) ad approvare una legge che vieta la cosa pubblica a quanti hanno avuto a che fare con il regime precedente. In pratica rischia di venire cancellata tutta la nuova classe dirigente libica e anche i leader che avevano guidato la rivolta contro Gheddafi i quali sono stati tutti, recentemente o nel passato, servitori più o meno fedeli del raìs. Per questa ragione quando Kerry ha affermato che “in Libia ci sono ancora tantissime sfide e l’Italia può avere un ruolo cruciale per portare stabilità” sarebbe stato auspicabile che qualcuno a Roma mettesse da parte la consueta prona sudditanza nei confronti degli statunitensi e gli avesse risposto, almeno simbolicamente, con un “vaffa”, termine volgare quando politica e diplomazia erano cose serie ma ormai di uso comune nel linguaggio politico romano. Gli statunitensi hanno scatenato una pioggia di missili da crociera e bombe guidate sulla Libia nel marzo 2011 per scardinare le difese di un regime minacciato da una rivolta organizzata grazie alla regia dei franco-britannici che avevano l’obiettivo neppure tanto recondito di togliere influenza e affari all’Italia. Washington passò poi la palla alla NATO, in base alla dottrina obamiana del “leading from behind”, che ci ha messo sette mesi a far fuori Gheddafi lasciando il Paese nel caos e in preda ad al-Qaeda e salafiti.
Come la Francia ha scoperto a sue spese con l’invasione jihadista del nord del Malì e gli Stati Uniti hanno scoperto a loro spese con l’attacco al consolato di Bengasi dell’11 settembre scorso nel quale vennero uccisi l’ambasciatore Chris Stevens e altri tre americani. Una vicenda nella quale la Casa Bianca ha cercato di nascondere la matrice terroristica in delitti che Washington ha lasciato impuniti considerato che l’amministrazione Obama non ha autorizzato interventi militari contro i campi dei quaedisti in Cirenaica. Ora che la frittata è stata fatta e la Libia è fuori controllo (con le società petrolifere costrette a pagare “il pizzo” alle milizie tribali per garantire la sicurezza di impianti e personale) Kerry si ricorda del ruolo cruciale dell’Italia “nel portare stabilità”. Roma la stabilità della Libia e nei rapporti con la Libia l’aveva già conseguita da tempo al prezzo di un difficile negoziato con Gheddafi, il quale era certo un “figlio di…” ma, per parafrasare quello che il presidente F-D. Roosevelt diceva del dittatore nicaraguense Anastasio Somoza, era “il nostro figlio di…”. Gheddafi era infatti diventato da anni un ottimo partner commerciale e petrolifero non solo dell’Italia ma dell’intero Occidente ed era un buon alleato nella lotta al terrorismo islamico.
C’è poi un secondo aspetto non meno importante in base al quale sarebbe lecito mandare a quel paese (magari proprio in Libia) John Kerry che ci vuole coinvolgere maggiormente nel vespaio di Tripoli. Nessuno sembra ricordare che fu proprio l’attuale segretario di Stato a “imporre” a Berlusconi di entrare attivamente in guerra contro il regime di Tripoli. Costretto dalle pressioni internazionali e da più alte istituzioni italiane a schierarsi contro Gheddafi e a mettere a disposizione della Nato le nostre basi aeree per le operazioni contro la Jamahiria, Berlusconi si rifiutò per oltre un mese di impiegare i nostri aerei nei bombardamenti sulla Libia, Paese al quale Roma era legata da un patto di non aggressione già peraltro tradito fornendo le nostre basi ai jet dell’Alleanza Atlantica. L’allora premier dichiarò che gli aerei italiani “non hanno bombardato e non bombarderanno mai la Libia” ma il venerdì prima di Pasqua giunse a Roma John Kerry, in quel periodo presidente della commissione Esteri del Senato e già “inviato speciale” di Obama per gestire le questioni internazionali più spinose come i difficili rapporti con il presidente afghano Hamid Karzai. A Roma incontrò solo Berlusconi recandogli una lettera di Obama che poi telefonò a Berlusconi la domenica di Pasqua. Forse non solo per porgere gli auguri considerato che il giorno successivo, 25 aprile, il premier italiano annunciò che anche i nostri velivoli avrebbero bombardato la Libia. Quel conflitto non ha solo spalancato la porta alla destabilizzazione del Mediterraneo centro meridionale e del Sahel ma ha rappresentato anche il livello più basso di sovranità nazionale espresso dall’Italia che pochi mesi dopo subì l’imposizione del governo Monti. Una sovranità che oggi non sembra essersi elevata di molto se nessuno a Roma ha invitato cordialmente Kerry e gli Stati Uniti a stabilizzarla loro la Libia, cercando di riparare i danni provocati, eventualmente chiedendo “un aiutino” a francesi e britannici.
Foto: Ministero degli Esteri
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane" e “Immigrazione, la grande farsa umanitaria”. Dall’agosto 2018 al settembre 2019 ha ricoperto l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza del ministro dell’Interno.