Buone notizie dalla Turchia
di Daniel Pipes da L’Opinione delle Libertà del 6 giugno 2013
Pezzo in lingua originale inglese: The Good News in Turkey
Come interpretare i recenti disordini per le strade di Istanbul e in circa sessantacinque altre città turche? E soprattutto, questi tumulti sono paragonabili alle rivolte arabe degli ultimi due anni e mezzo in Tunisia, Libia, Egitto, Siria, Yemen e in Bahrein? Da una parte, essi non sembrano avere nessuna correlazione perché la Turchia è un Paese molto più avanzato, con una cultura democratica e un’economia moderna. Ma due connessioni – l’autocrazia e la Siria – li collegano, indicando che le manifestazioni di protesta turche potrebbero avere una profonda importanza. La ribellione non è venuta fuori dal nulla.
Ero a Istanbul l’autunno scorso e allora era chiaro che le tendenze dittatoriali del primo ministro Recep Tayyip Erdogan preoccupavano i turchi più delle sue aspirazioni islamiche. Ho sentito delle critiche incessanti riguardo al fatto che il premier sia “ebbro di potere”, che agisca da “califfo non-ufficiale” e che sia un “ingegnere sociale capo eletto della Turchia”. I turchi mi hanno elencato una lunga lista di sintomi autoritari che hanno subito da quando un decennio fa il Partito per la giustizia e lo sviluppo di Erdogan o Akp è arrivato al potere: la soppressione della critica politica, il capitalismo nepotista, la manipolazione del sistema giudiziario, l’ingiusta detenzione, i processi farsa e un’indifferenza verso la separazione dei poteri. In particolare, essi hanno mostrato tutto il loro disappunto per il modo in cui Erdogan cerca d’imporre i suoi gusti personali riguardo al Paese.
I manifestanti, in piazza da venerdì scorso, protestano contro tutto questo e non solo. Quella che era iniziata come una protesta contro l’abbattimento degli alberi di un parco adiacente a piazza Taksim, nel cuore della Istanbul moderna, è rapidamente cresciuta fino a diventare una dichiarazione nazionale di sprezzo. Erdogan non è Muammar Gheddafi né Bashar Assad e non massacrerà i manifestanti pacifici, ma le autoritarie operazioni di polizia stando a quel che si dice hanno causato 2.300 feriti e, secondo Amnesty International, due morti. Inoltre, il premier ha reagito con aria di sfida, non solo insistendo sull’attuazione del piano originale previsto per il parco, ma dicendo di poter fare ciò che vuole. Come parafrasato da Hürriyet Daily News: “In piazza Taksim sarà costruita una moschea, Erdogan ha asserito.
Egli ha aggiunto che non ha dovuto ottenere il permesso dal leader del principale partito di opposizione né da ‘qualche predone’ di progetti, osservando che l’autorità gli era già stata conferita dagli elettori dell’Akp”. In altre parole, Erdogan dice che avendo votato per un governo guidato dall’Akp, i turchi gli hanno dato il potere di fare tutto quello che vuole. Egli è l’eletto, il padishah irresponsabile. Ebbene, i manifestanti e quegli investitori stranieri finora entusiasti hanno qualcosa da dire a riguardo, magari mettendo a rischio la crescita economica simile alla Cina del Paese. La cosa importante è che Abdullah Gül, il presidente della Turchia e sempre più il rivale di Erdogan, ha adottato un approccio molto diverso riguardo alle proteste. “La democrazia non significa solo elezioni”, egli ha detto. “I messaggi che sono stati inviati con buone intenzioni sono stati ricevuti”.
Prendendo le distanze dal premier, Gül ha aggravato l’isolamento di Erdogan. Per quanto riguarda la Siria, dopo aver fatto il bello e il cattivo tempo per quasi dieci anni, Erdogan ha commesso il suo primo grave errore di calcolo, coinvolgendo fortemente la Turchia nella guerra civile siriana. Egli ha agito per dispetto, quando Assad, il despota siriano e amico di un tempo, ha ignorato il suo consiglio (sensato) di attuare le riforme. Essendo uno che incassa male un rifiuto, Erdogan ha reagito emotivamente e ha spinto il suo Paese nella guerra civile, ospitando i ribelli, approvvigionandoli e rifornendoli di armi, e cercando di guidarli. I risultati sono stati quasi disastrosi per la Turchia.
Il Paese ha sperimentato nuove ostilità con Mosca, Teheran e Baghdad, ha perso le rotte commerciali via terra verso il Golfo Persico e le relazioni commerciali con la Siria sono peggiorate, ha subito attentati terroristici sul proprio suolo (a Reyhanli) e – forse la cosa più inquietante – ha assistito alle crescenti tensioni tra il governo stridentemente sunnita e le popolazioni musulmane eterodosse del Paese. Grazie alla confusa situazione siriana, la Turchia ha perso la sua invidiabile posizione di forza e popolarità – la politica contraddistinta dal mantra “zero problemi con i Paesi vicini” che ha ottenuto risultati reali – a favore della sensazione di essere circondata da nemici.
Se il presidente Obama un tempo si vantava della sua “stretta collaborazione” con Erdogan, l’incontro alla Casa Bianca del mese scorso tra i due non ha mostrato alcun feeling tra di loro né i risultati pratici riguardo alla Siria che Erdogan voleva. In breve, sembra che un decennio di quiete elettorale, di stabilità politica e di abbondanti investimenti esteri abbia subito una battuta d’arresto e che per il governo dell’Akp sia iniziata una nuova era più difficile. I moribondi partiti di opposizione possono trovare la loro voce. La fazione pacifista può sentirsi incoraggiata. I laici possono essere in grado di sfruttare la diffusa infelicità per gli sforzi del regime di costringere i cittadini a diventare più virtuosi (islamicamente). Questa è un’ottima notizia.
La Turchia sta andando nella direzione sbagliata sotto l’Akp. Sebbene essa sia una democrazia, il governo dell’Akp ha imprigionato più giornalisti di qualsiasi altro Paese al mondo. Anche se è uno Stato laico, Ankara ha imposto con urgenza una serie di norme islamiste, tra cui il giro di vite della settimana scorsa sugli alcolici e i moniti contro le effusioni affettive in pubblico. Pur essendo un membro dell’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico, la Turchia ha partecipato nel 2010 a un’esercitazione aerea congiunta con la Cina. Anche se è un aspirante membro dell’Unione europea, essa fa piedino all’Organizzazione di Shanghai per la cooperazione, fondata nel 1996 per iniziativa di Russia e Cina come un raggruppamento anti-Nato.
Sebbene il Paese sia un alleato Usa, la Turchia ha umiliato Israele, ha definito il sionismo “un crimine contro l’umanità” e ha acclamato Hamas, l’organizzazione iscritta nella lista nera dei gruppi terroristici. Grazie alle manifestazioni, possiamo essere di nuovo speranzosi che la Turchia possa evitare di continuare a percorrere il percorso intrapreso, che è quello del dispotismo, dell’islamizzazione e delle relazioni estere sempre più pericolose. Forse, si può ridare slancio al suo retaggio laico, democratico e filo-occidentale.
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