L’evoluzione della politica americana in Medio Oriente
Il complesso dipanarsi della crisi siriana (crisi che è ben lungi dall’essersi conclusa, nonostante l’accordo russo-americano per la messa sotto controllo e successiva eliminazione dell’arsenale chimico della Siria), e l’apparentemente indeciso e ondivago atteggiamento del Presidente Obama, impongono uno sforzo di analisi intellettuale per cercare di identificare le linee direttrici dell’attuale politica degli Stati Uniti in Medio Oriente – posto, beninteso, che una tale politica esista davvero. Uno sforzo del genere non può però prescindere dalla definizione preventiva di chi o che cosa si voglia intendere oggi parlando di “Stati Uniti” – il che tende a complicare le cose. Esisteva ed esiste senza dubbio, all’interno delle élite intellettuali e di potere americane, un gruppo molto influente che ha formulato da tempo una strategia e una politica a lungo termine, a loro modo coerenti e logiche, per una totale “risistemazione” del Medio Oriente in linea con gli interessi degli Stati Uniti e di Israele, sfruttando il vuoto di potere strategico creato dal collasso dell’URSS. Le linee direttrici di questa politica vennero formulate nel famoso “Project for a New American Century” (PNAC), e prevedevano più o meno esplicitamente una serie di conflitti successivi per l’eliminazione progressiva dei regimi al potere in Iraq, Siria e infine Iran, e la loro sostituzione con governi in qualche modo allineati con Washington. Questo principalmente allo scopo di assicurare il controllo americano sulle risorse energetiche della regione, e allo stesso tempo eliminare qualsiasi residua minaccia strategica nei confronti di Israele.
Questa linea politica non è beninteso mai stata adottata ufficialmente da Washington – anche se certe affermazioni di Condoleezza Rice vi andarono molto vicine. Rimane però che nessuna altra politica alternativa (al di là dell’appoggio incondizionato a Israele) è mai stata espressa dalla Casa Bianca o dal Dipartimento di Stato, e che in ogni caso l’azione degli Stati Uniti attraverso le presidenze del primo Bush e di Clinton si è svolta sostanzialmente in linea con le direttive del PNAC. Questa aderenza è poi drammaticamente esplosa sotto Bush Jr., quando gli eventi del 9/11 fornirono la leva per dare piena forma a piani, che erano sino allora rimasti nel cassetto, lanciando gli Stati Uniti su una strada di “guerra permanente” che continua tutt’oggi.
Quella che per semplificare potremmo chiamare la “dottrina del partito della guerra” è però andata gravemente in crisi, a causa di alcun sviluppi chiave:
– Il completo fallimento dell’intervento americano in Iraq, che assieme all’ormai evidente fallimento del parallelo intervento in Afghanistan ha portato la maggioranza dell’opinione pubblica americana (e, quindi, del Congresso che essa elegge) su posizioni di rifiuto di qualsiasi ulteriore avventura del genere. Vi sono ben pochi dubbi che la pronta accettazione da parte di Obama della proposta russa sia stata determinata soprattutto dalla percezione che il Congresso gli avrebbe quasi certamente negato – per la prima volta nella storia – i poteri di guerra che aveva chiesto per poter attaccare la Siria
– Le rivoluzioni della “Primavera Araba” che Washington con tutta evidenza non aveva previsto e che hanno portato a contromisure improvvisate e raffazzonate
– Il disastroso risultato finale dell’avventura neo-coloniale franco/inglese in Libia, che Washington non ha direttamente voluto ma ha però approvato e appoggiato
– La diretta discesa in campo delle monarchie del Golfo, in primis Arabia Saudita e Qatar. Queste sono passate dal semplice finanziamento per l’espansione del fondamentalismo wahabita all’appoggio a movimenti terroristici e poi a forme di aperto intervento prima in Libia e ora in Siria. Questo è forse lo sviluppo più saturo di incertezze future, visto che risulta molto difficile conciliare gli obiettivi finali delle monarchie del Golfo con gli interessi a lungo termine degli Stati Uniti e dell’Occidente in generale.
Il “partito della guerra” non ha certo gettato la spugna, come chiunque segua i mass media americani (ancora in grande maggioranza allineati a favore di un intervento militare)può testimoniare. Ma la sua presa sullo spiegarsi della politica estera degli Stati Uniti è ormai allentata, e forse solo un altro 9/11 potrebbe ridarle forza. L’Amministrazione Obama chiaramente non vuole più continuare su questa strada, che nel caso della crisi siriana la stava oltretutto portando ad una assurda alleanza con due forme di fondamentalismo islamico sunnita (quella wahabita, e quella di al-Qaeda)ugualmente pericolose. Forse più esattamente,si è resa conto di non poter più farlo, sia per l’opposizione del pubblico, e sia per le condizioni di relativa debolezza economica del paese. Non sarebbe forse troppo azzardato immaginare che quelle che sono state interpretate come l’esitazione, la timida incertezza, in ultima analisi l’incapacità di Obama riflettano in realtà una complessa manovra per liberare la politica estera della Casa Bianca dalle pressioni e dai condizionamenti del “war party” e della lobby filo-israeliana.
Sia come sia, il periodo storico delle “wars of choice” e dei “regime changes”, con la brutale applicazione della forza militare quale principale se non unico strumento della politica estera americana in Medio Oriente, sembra – salvo brutte sorprese – essersi concluso. Cosa lo sostituirà?
Il continuo, incondizionato appoggio ad Israele si deve certamente dare per scontato – anche se il negativo impatto di questo appoggio sull’influenza complessiva che gli Stati Uniti sono in grado di esercitare in Medio Oriente sta suscitando parecchi malumori non solo nella comunità diplomatica, ma anche nel mondo militare. Questo punto fermo avrà, come ovvio, un non trascurabile effetto limitante sulle libertà di scelta di Washington in merito ad altri aspetti della loro azione diplomatica nella regione, a cominciare dalle decisioni che bisognerà pur prendere, prima o poi, per dare una qualche soluzione alla crisi iraniana.
L’atteggiamento da tenere in merito alle “Primavere Arabe”, correnti e prevedibili future, coinvolge aspetti molto complessi. Washington ha dapprima cercato di cavalcare la tigre, mollando (forse troppo presto) la dittatura di Moubarak, salvo poi accorgersi che la suddetta tigre aveva delle poco piacevoli tendenze di fondamentalismo islamico e finendo così con l’avvallare (e anzi, a definire come “democratico”) un colpo di stato militare. Ma è quantomeno dubbio che il risultato finale, espresso nei termini di aspetti che coinvolgono gli interessi degli Stati Uniti, sia davvero in linea con i desideri di Washington.
La “Primavera Araba”, in Egitto come altrove, non potrà essere soppressa a tempo indefinito, perché essa è stata generata da delusioni, insoddisfazioni e aspettative deluse che hanno radici molto profonde. Se agli Stati Uniti (e all’Occidente in senso lato) non piace che la “Primavera” porti al potere i Fratelli Musulmani o forze analoghe, questo può anche essere comprensibile ma si dovrà comunque tenere ben presente che il favorire, o comunque l’applaudire, l’instaurazione di un regime di dittatura militare può essere visto solo come una pezza momentanea, non certo come una solida soluzione a lungo termine. Sono in grado, gli Stati Uniti e l’Occidente, di fornire alle masse arabe un qualche schema, un credibile e sostenibile modello di sviluppo diverso sia dal fondamentalismo religioso che dall’oppressione dei generali, e che se possibile non passi per ”l’esportazione della democrazia” a suon di bombe? Se sì, che lo tirino fuori al più presto.
In realtà, e nonostante il continuo battage propagandistico circa le armi chimiche di Assad e il preteso programma nucleare iraniano, e nonostante il parallelo (anche se molto più contenuto) battage propagandistico di segno opposto in merito al dramma dei Palestinesi, il vero punto cruciale di qualsiasi politica coerente degli Stati Uniti in Medio Oriente, e quello da cui potrebbero venire i maggiori rischi, è costituito dalle monarchie del Golfo.
Arabia Saudita, EAU, Qatar, Bahrein e Kuwait rappresentano delle vere e proprie assurdità nel panorama politico globale attuale, che sopravvivono unicamente in quanto la loro esistenza è funzionale a garantire un flusso costante di idrocarburi – e sono perciò in grado di esercitare un peso finanziario corrispondente. Ma allo stesso tempo, le loro arcaiche strutture politiche e sociali, sempre meno tollerabili e tollerate dalle stesse popolazioni (per non parlare dei lavoratori immigrati, trattati come servi della gleba e che in non pochi casi sono ormai la maggioranza dei residenti), costituiscono una vera e propria bomba a tempo, che inevitabilmente scoppierà prima o poi – e si tratterà di vedere chi la prenderà in faccia, e chi invece saprà approfittarne.
Il continuo appoggio americano alle monarchie, di fatto incondizionato quasi quanto quello fornito a Israele, pur essendo senza dubbio funzionale agli attuali interessi di Washington, contiene un margine di rischio non indifferente: qualsiasi prevedibile futura rivoluzione in questi paesi prenderà infatti inevitabilmente dei forti aspetti anti-americani (e anti-occidentali). Questo rischio, sommato all’attuale linea di azione politica diretta perseguita da Arabia Saudita e Qatar (che con tutta evidenza non è stata preventivamente concordata con il Dipartimento di Stato, e la cui funzionalità agli interessi americani è quanto meno dubbia), dovrebbe e forse potrebbe portare ad un certo ripensamento.
Ezio BonsignoreVedi tutti gli articoli
Laureato in Scienze Politiche, ex-ufficiale di Marina, è da oltre trent'anni giornalista specializzato nel settore della difesa a livello internazionale. Prima con Interconair, poi con Parabellum e infine con il gruppo tedesco Mönch, presso il quale ha ricoperto gli incarichi di Redattore Capo della rivista Military Technology e al tempo stessi Direttore Editoriale per tutte le pubblicazioni in lingue diverse dal tedesco. Ha fondato la RID con Giovanni Lazzari dove è stato Redattore Capo. Attualmente cura la redazione della pubblicazione annuale World Defence Almanac.