F-35: NUOVE DENUNCE DEL PRESIDENTE DI AIAD
Avere successo sul più grande mercato del mondo, gli Stati Uniti d’America, è sempre più difficile per il made in Italy aerospaziale, pure eccellente. L’Automotive, la moda, gli alimentari, i macchinari di precisione e perfino i farmaci prodotti nel nostro paese, negli ultimi quattro-sei anni (dati ISTAT) hanno trovato il loro Eldorado oltre Atlantico. Gli aeroplani no, arrancano a fatica. L’ultimo esempio viene dalla tribolata partecipazione del campione della nostra industria aeronautica, l’addestratore avanzato Leonardo Divisione Velivoli M-346, alla gara per il futuro trainer dell’US Air Force, T-X in sigla. Dopo due divorzi da altrettanti necessari matrimoni con partner industriali americani, ora Leonardo ha una nuova promessa sposa a stelle e strisce. E’ la controllata (solo attraverso il pacchetto azionario) DRS, che peraltro la nuova dirigenza della One Company italiana non molto tempo fa stava studiando il modo di scaricare.
Non c’è ancora una location per l’altrettanto necessaria produzione negli States della versione “americanizzata” del 346, il T-100, dopo che l’ultima sposa leonardesca, la Raytheon Corporation, ha presto buttato via il velo, e manca meno di un mese alla scadenza dell’offerta da presentare al Pentagono. Leonardo riferisce però che annuncerà presto dove nasceranno i suoi aerei, e fa notare come – diversamente dai siti industriali già esistenti dei due colossi USA in lizza nella gara, Boeing e Lockheed Martin – in caso di vittoria la linea di assemblaggio americana del T-100 creerebbe nuovi posti di lavoro.
Il trainer italiano, si sottolinea poi, ha dalla sua ottime carte, da un costo allineato a quello del diretto rivale sud-coreano T-50 (Raytheon ha chiesto il divorzio proprio per i costi) alla promessa all’Amministrazione USA di portare ben oltre l’attuale 50 per cento la quota di componenti ed equipaggiamenti dell’M-346 già oggi prodotti negli States. Leonardo percorrerà a braccetto con la controllata americana tutta la sua terza via dolorosa. Non farlo, significherebbe mettere a rischio immagine e competitività in un settore in cui la nostra industria aeronautica eccelle da sempre, compromettendo ogni nuova chance commerciale del suo addestratore
“Per gli Americani siamo privi dei requisiti necessari”
A Venegono, dove l’M-346 è stato progettato e viene costruito, i più anzianotti sotto sotto temono che la storia finisca come nei primi anni Novanta, quando l’Aermacchi MB.339 dato in sposo a Lockheed fallì nella sua partecipazione – in concorrenza con un altro trainer italiano, il SIAI S.211; cose da pazzi, se poi si pensa che la concorrenza era anche politica dato che i due modelli incarnavano la lotta fra Iri-Finmeccanica (area DC) ed Efim (area PSI) – a una precedente programma dell’USAF per un addestratore, il Joint Primary Aircraft Trainig System (JPATS).
A ragionare sulle difficoltà di portare a casa risultati da oltre oceano in campo aeronautico è stato qualche settimana or sono Guido Crosetto con l’agenzia “Air Press”.
In qualità di Presidente di AIAD, la Federazione Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza, Crosetto dà voce a decine di imprese non facenti parte di Leonardo attive nello sviluppo e produzione di componenti e servizi a elevato contenuto tecnologico, e forti complessivamente di circa 80.000 addetti. Società che hanno prosperato per ultimo col programma Eurofighter e che in parte scenderebbero dal treno dell’M-346/T-100 (molti equipaggiamenti come s’è detto verrebbero fabbricati da ditte americane), Le stesse che sono rimaste “praticamente a bocca asciutta nel programma Lockheed Martin F-35”, lamenta Guido Crosetto in un colloquio con “Analisi Difesa”.
Ridotta all’osso, la sua analisi è chiara come il sole: “La nostra industria ha sempre dato molto agli Stati Uniti, ma in cambio ha ricevuto poco o niente. I rapporti fra i due Paesi non sono mai stati e continuano a non essere paritari. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: per l’F-35 molte aziende italiane non sono neppure state ammesse alle gare per le forniture, perché formalmente gli americani le giudicavano prive dei requisiti necessari. Comunque, dovendo sostenere costi non ricorrenti che per i grandi fornitori statunitensi sono molto meno onerosi, partivano già svantaggiate”. Da più parti si dice che la mancanza di requisiti altro non era, in taluni casi, che una non corretta interpretazione/compilazione delle carte recapitate dal Pentagono.
Il sussulto d’orgoglio e la tenacia di Leonardo nell’andare avanti nella difficile sfida per il T-X, osserviamo noi, fanno quasi da contrappeso al poco o punto “potere contrattuale” esercitato nella partecipazione al Joint Strike Fighter. Da questo punto di vista risulta ancora più inaccettabile il quadro quasi trionfale che ne danno da anni Pentagono da un lato e Difesa italiana dall’altro. I fatti, e gli stessi documenti pubblici di fonte americana, dicono che per Lockheed Martin lavorano al momento – tolta Leonardo – solo 16 società del centinaio abbondante alle quali dà invece lavoro e ricadute tecnologiche (purtroppo ancora per poco) l’Eurofighter, programma nazionale gestito con poteri contrattuali di tutt’altra forza.
Queste 16 aziende, e le 5 fornitrici di Pratt & Whitney, hanno cominciato a firmare contratti per i lotti di produzione LRIP-6 e 7 e li hanno rinnovati per i successivi LRIP-8 e -9. “Globalmente però”, osserva Guido Crosetto, “le nostre aziende non hanno ricevuto assegnazioni per altri componenti ed equipaggiamenti. Siamo rimasti esclusi da almeno 60 parti importanti dell’aereo, e le tecnologie più qualificanti, proprio quelle alle quali ovviamente la nostra industria puntava, non ci sono state rilasciate”.
Il valore delle commesse fin qui attribuite all’Italia per l’F-35 supera di poco il miliardo di dollari, contro i 10 che ancora oggi ufficialmente Pentagono e Lockheed Martin sostengono di poterci assegnare per la sola produzione e gli oltre 14 per l’intero arco di vita della nostra flotta di JSF. Il dato fornitoci i primi di febbraio dall’agenzia italiana di comunicazione del costruttore USA, parla di 1,32 miliardi di dollari di contratti stipulati dalle società italiane a tutto novembre 2106.
Il Documento di Programmazione Pluriennale per la Difesa 2016-2018, la più recente fonte governativa disponibile sul programma, nell’aprile 2016 parlava però già di 1,8 miliardi incassati dalle nostre imprese. La differenza si può forse spiegare con i contratti acquisiti anche dalle società edili, meccaniche e dei servizi che hanno concorso a ultimare la FACO di Cameri, che nulla tuttavia hanno a che fare con le compensazioni promesse al comparto aerospaziale.
Quel miliardo e spiccioli sono una performance ben lontana dal 70 per cento abbondante di compensazioni che ci erano state promesse nel famoso “Umbrella agreement” con cui Washington si impegnava a trattare il partner italiano con un riguardo che poi non c’è stato. Eppure, con i 10 JSF già comprati e l’acquisto di parti importanti per altri 4 siamo già ben addentro il procurement.
Ma demagogia vuole che non si debba guardare alla realtà dei fatti: alla Difesa si continua a citare un rapporto della branca italiana della società multinazionale di revisione PricewaterhouseCoopers (PwC) del luglio 2015 che annunciava “6.300 posti di lavoro al picco di produzione. La domanda di lavoro”, recitava il documento “raggiungerà il suo livello più alto tra il 2017 e il 2023, mentre una media di 5.400 posti di lavoro sarà mantenuta stabilmente tra il 2017 e il 2026. Il 2017 è iniziato da un po’, ma i posti di lavoro creati dal programma sono tuttora solo una piccola frazione di quelli previsti.
Su Cameri Crosetto concorda con le nostre analisi
Sentiamo ancora il presidente di AIAD. “E’ evidente che esiste una stretta correlazione fra il mancato rilascio delle tecnologie più qualificate del ‘sistema F-35’ e l’assegnazione di nuove commesse. C’è da dire che pesa molto, nei rapporti bilaterali, quella sorta di timore reverenziale che proviamo da sempre nei confronti degli Americani”. Però Segredifesa e Armaereo, obiettiamo, si sono spesi molto a favore delle nostre aziende. “E’ vero, ma l’impressione è che forse la nostra controparte abbia finito per dividersi su tanti fronti diversi (cioè sulle singole possibili occasioni di acquisizione di nuove forniture; ndr) anziché marciare compatta verso un unico importante obiettivo strategico”.
C’è poi l’incognita Trump e l’annunciata nuova ondata di protezionismo. Sul rischio (al momento solo ipotetico) che la nuova Amministrazione imponga dazi anche sull’importazione di prodotti aerospaziali, Crosetto non si pronuncia, ma si dice certo che con il nuovo presidente i rapporti con l’establishment militare di Washington saranno ancora più difficili.
E che fine farà la FACO/MRO&U di Cameri, che gestirà solamente una parte di tutto il lavoro di manutenzione e aggiornamento per cui è stata costruita?
“Quelle attività, a cominciare da quelle riguardanti le parti per così dire più nobili del velivolo, dovevano essere assegnate all’Italia, ci era stato promesso, gli accordi erano questi. Adesso dovrebbe essere il Governo e/o la stessa Aeronautica Militare con Segredifesa/Armaereo a chiedere a Washington il rispetto di quegli accordi. Poi c’è la concorrenza di Israele. Lì hanno messo su impianti che non è affatto detto si limitino a soddisfare le esigenze di supporto tecnico della sola flotta nazionale di F-35…”
Eccezioni che confermano la regola
Nel panorama della nostra compagine industriale che partecipa al programma Joint Strike Fighter c’è un’eccezione che in qualche modo conferma la regola. E’ la piccola società per azioni Aerea guidata da vari decenni da Silvano Mantovani. Un uomo battagliero dalle idee molto chiare su strategie e competitività.
Come pochissime altre società, Aerea è stata coinvolta nel programma fin da subito, interpellata direttamente da Lockheed Martin senza l’intermediazione della allora Finmeccanica/Alenia Aeronautica, l’approccio seguito invece dalla maggior parte delle altre imprese. “Non si deve aspettare che i contratti piovano dall’alto”, è il mantra di Mantovani, “bisogna andare a conquistarseli giorno dopo giorno dimostrando tutta la competitività necessaria”.
Aerea, che attualmente sta lavorando per i lotti a basso rateo -8 e -9, finora ha portato a casa 7-8 milioni di dollari di commesse per componenti dei sistemi di attuazione elettro-idraulici e delle baie di armamento interno dell’aereo da attacco americano. Mantovani conferma che guadagnarsi contratti per ogni nuovo lotto è ogni volta una gara in salita, ma finora non ha perso un colpo.
Lo stesso si augurano tre piccole aziende – la Apr di Pinerolo, la Mepit di Settimo Torinese e la Ncm di Foligno – che con Aerea nell’aprile scorso si sono viste assegnare un po’ di lavoro da Pratt & Whitney: 16 milioni di dollari tutte insieme da spalmare su 10 anni. Facendo due conti, e pensando ai mitici 10-14 miliardi di dollari, sono meno che briciole. Meglio che niente, certo.
Non aiuta di sicuro il rallentatore imposto al programma dal Governo Renzi e – si deve supporre – ripreso “copia e incolla” dall’esecutivo Gentiloni. A patirne di più saranno presumibilmente le aziende che operano sotto il “cappello” di Leonardo, i cui impianti novaresi parallelamente hanno dovuto rivedere ratei e risorse. “Il capo del programma, il generale Bogdan,” riferisce Silvano Mantovani, “qualche tempo fa è venuto a farci visita. Mi ha chiesto come mai l’Italia ha rallentato gli ordini dell’F-35. Gli ho risposto che dipende dai magri bilanci della Difesa”.
Si può supporre che il patron di Aerea avesse in serbo altre risposte meno evasive. “Ma cosa vuole, è da un po’ di tempo che tutti preferiscono che io parli in pubblico il meno possibile”.
Foto: Lockheed Martin, Aeronautica Militare e Corriere della Sera
Silvio Lora LamiaVedi tutti gli articoli
Nato a Mlano nel 1951, è giornalista professionista dal 1986. Dal 1973 al 1982 ha curato presso la Fabbri Editori la redazione di opere enciclopediche a carattere storico-militare (Storia dell'Aviazione, Storia della Marina, Stororia dei mezzi corazzati, La Seconda Guerra Mondiale di Enzo Biagi). Varie collaborazioni con riviste specializzate. Dal 1983 al 2010 ha lavorato al mensile Volare, che ha anche diretto per qualche tempo. Pubblicati "Monografie Aeree, Aermacchi MB.326" (Intergest) e con altri autori "Il respiro del cielo" (Aero Club d'Italia). Continua a occuparsi di Aviazione e Difesa.